Luciana Littizzetto arriva in carrozza e scherza sulla proposta di Silvio Berlusconi di restituire l’Imu: “i soldi li vorrei prima delle elezioni…”.
Poi si omaggia Verdi, di cui ricorre il bicentenario (in contemporanea con Wagner) dalla nascita e si introducono, in modo sciolto, ospiti e cantanti.
Il vero brivido lo fornisce Crozza che, dopo un lungo show canoro nei panni del Cavaliere, è investito da una bordata di fischi e contestazioni ma poi, abilmente sostenuto da Fazio, prosegue mettendo alla berlina un po’ tutti i candidati (Bersani, Ingroia e, per il montismo, Montezemolo), raccogliendo, infine, una autentica ovazione.
Fabio Fazio lo abbraccia, e certamente tira un respiro di sollievo. Sul palco anche Stefano Olivari e Federico Novaro, la coppia gay che ha deciso di sposarsi giovedì 14 a New York, perché in Italia non è possibile farlo, mentre, tra i cantanti, colpisce Daniele Silvestri, che porta con se sul palco un traduttore della lingua dei segni (LIS), per eseguire “A bocca chiusa”: canzone anche politicamente orientata.
Le altre canzoni mi sono parse banali, scontate, ma è forse proprio questo che si vuole da Sanremo, manifestazione popolare in cui il bel canto è soprattutto declinato all’insegna del risaputo e dell’accomodante.
Contestato, invece, su Twitter il metodo del voto, definito “più complicato delle primarie del Pd”. L’inizio è comunque buono e degno, con il Va pensiero dal Nabucco di Verdi (cantato dal coro dell’Arena di Verona e diretto da Mauro Pagani), che è servito al serenissimo Fazio, seduto sugli scalini (importante, ovviamente, il linguaggio del corpo), per spiegare il concetto del popolare e distinguerlo dal facile, dal volgare e dalla bassa qualità.
Poi la Littizzetto, che entra con un misto tra Cenerentola e Crudelia Demon: una combinazione che, in fondo, le si addice molto.
Infine, dopo mezzanotte, Cutugno che canta l’italiano vero con il Coro dell’Armata Rossa, un momento fantastico; mentre Duccio Forzano il regista e Francesca Montinaro, scenografica, hanno fatto meraviglie.
L’apparato, barocco certamente ma misurato ed elegante, ha ridato centralità alla musica, anche se, a parer mio, è stata proprio questa che è mancata.
Ma forse per Sanremo è sempre la stessa cosa e, alla fine, a riascoltarle, le canzoni ci piaceranno quasi tutte.
Marco Malendini, che se ne intende, scrive sul Messaggero che invece le canzoni sono state scelte bene e si vede la mano sicura di Mauro Pagani.
Agli esperti sono piaciuti Raphael Gualazzi, il ragazzo di Caterina Caselli, che si conferma artista di razza con la ballad ammiccante Sai; i Marta sui tubi con il loro originalissimo rock; la voce straordinaria di Maria Nazionale e quella elegante di Chiara Galiazzo.
Per fortuna è anche piaciuta la nostra (aquilana) Simona Molinari, che canta con leggerezza, spalleggiata dal mestiere di Peter Cincotti, un inedito di Lelio Luttazzi, ma passa con la più banale “La felicità”, brano probabilmente più in tema col luogo.
Si leggono anche le prime indiscrezioni in giro e si capisce che i favoriti sono Malika Ayane (al suo terzo Festival), i Modà (che tornano dopo aver sfiorato la vittoria due anni fa), , Chiara Galiazzo (fresca di X Factor) e il pianista swingante Raphael Gualazzi. Ma a San Remo sono sempre possibili le sorprese.
Come ricordava sull’Enciclopedia de L’Italiano Fabio Rossi nel 2010, la canzone sanremese continua a rappresentare il termine di paragone per saggiare temi, stilemi, lessico e strutture linguistiche più in linea con la tradizione, senza grande impegno sociopolitico, né sperimentale.
Ma dicevamo, esistono eccezioni, divenute frequenti nell’ultimo decennio, come ad esempio le canzoni a forte impronta regionale (Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio), quelli in italiano paludato (come quelle cantate da Laura Pausini, Giorgia, Elisa, Michele Zarrillo e tanti altri), il rap d’impegno politico (Jovanotti) e quelle con testi sperimentali (Blu vertigo, Elio e le storie tese).
Carlo Di Stanislao
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