Appartengo al quel quarto di italiani che è ancora incerto sul voto e per il quale, né lo “smacchiatore dei giaguari” Bersani né l’esolfatalmo sempre più spiritato di Monti serve a fare chiarezza.
Sorridiamo, amari, al brindisi proposto da Berlusconi se Fini e Casini se ne staranno fuori dal Parlamento e ci preoccupiamo della facilità con cui cambia opinione, sul confronto tv, come su tutto, il sempre più feroce Grillo, sempre più distante dal suo omonimo in Pinocchio e sempre più simile alla trasformazione disneyana, antipatica e petulante: più un martello che uno spirito guida.
Preferisco allora esercitarmi sui perché (e sul dopo) delle “autodimmissioni” di Ratzinger e anche, sulle dichiarazioni di Marco Bassetti, l’advisor di Clessidra per il progetto TiMedia-La7, probabilmente il manager che si occuperà di riportare equilibro nei conti della tv qualora il fondo di Claudio Sposito dovesse risultare vincitore della gara, che vuole Mentana come nuovo Presidente della televisione che non si riesce a vendere.
Fra chi si è fatto avanti c’è il solito Della Valle, presente sempre e sempre con l’aria di chi capisce più di tutti ed è più saggio, più astuto e più capace, sotto il profilo sia umano che imprenditoriale.
Nei giorni scorsi alcune indiscrezioni di stampa davano il canale televisivo già nelle mani del fondo private equity di Claudio Sposito, ma il tutto era stato bloccato dalla mossa a sorpresa da parte del presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè, che aveva chiesto ai consiglieri espressione di Intesa Sanpaolo e di Mediobanca una dichiarazione scritta del loro conflitto di interesse ai sensi della legge Vietti del 2003. Perché? Perché Ca’ de Sass è l’advisor, con Merrill Lynch, del potenziale compratore Clessidra, mentre Piazzetta Cuccia assiste il venditore Telecom e di fronte alla richiesta da parte di Bernabè, si è deciso di prendere tempo. La cessione a Clessidra, secondo le voci, consentirebbe al colosso tlc di abbassare il debito di 80-100 milioni, con un miglioramento del rapporto debito/Ebitda di circa 220 milioni di euro.
Già nel 2011, il gruppo aveva rettificato il goodwill per 7,4 miliardi e attualmente possiede ancora 36,8 miliardi di avviamenti su mercato domestico. L’eventuale mossa, sempre secondo indiscrezioni, porterebbe ad un azzeramento contabile dell’utile 2012, anche se Telecom, tramite le riserve, potrà pagare il dividendo da 450 milioni di euro già annunciato per il periodo 2013-2015.
Oggi Della Valle ha dichiarato che ha provveduto “a far pervenire al Cda di Telecom Italia una nostra seria manifestazione di interesse riguardante l’acquisto di La7″, ed aggiunto che: “Abbiamo richiesto al Cda che ci venga concesso il tempo minimo necessario per studiare il dossier”, e “qualora venga accettata la nostra richiesta abbiamo predisposto ufficialmente l’accesso alla documentazione, peraltro già accordatoci, dato mandato alla banca d’affari ed allo studio legale e tributario, pronti a verificare in tempi brevi tutta la documentazione”.
L’imprenditore marchigiano ha poi sottolineato “l’idea di riunire nell’azionariato un gruppo di persone che vogliano bene al nostro Paese e che abbiano voglia di sostenere uno strumento di informazione importante, garantendone la totale autonomia, e di coinvolgere nell’azionariato professionisti che lavorano attualmente a La7, senza Mtv, e altri ancora che avranno voglia di partecipare al progetto”. “Per quanto mi riguarda – ha concluso – l’iniziativa deve essere considerata anche come un impegno civile che tutti insieme, quelli che vi parteciperanno, prenderanno nei confronti del Paese e di tutti i cittadini che considerano l’informazione seria e libera un grande strumento di democrazia”.
In verità, siamo oltre il filo di lana e la possibilità di presentare delle proposte di acquisto terminava ieri alle 18 e già dopodomani, su richiesta dei soci di Telco, il gruppo telefonico ha in agenda un consiglio di amministrazione per chiudere presumibilmente l’ affaire. La vendita del ramo televisivo si trascina in effetti da tempo con due schieramenti: il primo, quello del presidente, Franco Bernabè, che non vuole vendere a tutti i costi o, in altri termini, non vuole “svendere”. L’altro, quello dei soci di Telco che hanno già diversi grattacapi, che vorrebbero liberarsi dell’asset non centrale nelle attività di un’azienda di telecomunicazioni.
Quanto alla finanza, non sembra favorevole al partito del rinvio: Telecom ha appena subìto un declassamento da parte dell’agenzia di rating Moody’s, mentre Standard & Poor’s ha messo sotto osservazione il debito monstre del gruppo (40 miliardi lordi, circa 30 netti).
Si tratta ora di capire se la discesa in campo dell’imprenditore delle Tod’s (e azionista di Rcs MediaGroup, la società editrice del Corriere, che comunque è nei guai, con centinaia di esuberi e licenziamenti e la dismissione della sede in via Solferino ) e della sua cordata riuscirà a fermare “la clessidra” che, in questo caso, non è solo un modo di dire: Clessidra è infatti il fondo di Claudio Sposito che fin dall’inizio ha mostrato il proprio interesse in concorrenza con Urbano Cairo, concessionario storico di La7 dal 2002.
Il ragionamento è che se l’attuale dirigenza liberasse il gruppo Telecom Italia Media dai due rami d’azienda che hanno perso grosso modo 100 milioni l’anno nell’ultima decade, Cairo avrebbe un contributo al risanamento inferiore alle perdite di un anno, mentre lascerebbe al gruppo i tre multiplex il cui valore (considerando un possibile perdita di 50 milioni già dal prossimo anno e con un moltiplicatore pari a sei/sette) potrebbe aggirarsi sopra i 300 milioni. Dall’altra parte Clessidra potrebbe offrire 10 milioni per il 75% di Telecom Italia Media e 80 milioni in rate come copertura di parte dei debiti. Il tutto al netto di un interesse di Europa7, emerso negli ultimi giorni.
E mentre la scure della inflazione si abbatte sulle pensioni con potere d’acquisto ridotto di un altro 33%, ci interroghiamo anche sui perché di Ratzinger, teologo non compreso e Papa con cedimento fisico e non solo, che ha detto di non sentire più quella forza d’animo che è necessaria in una Chiesa definita “divisa”.
Vittorio Messori, uno dei più importanti giornalisti e scrittori cattolici italiani, che è l’unico ad aver avuto il privilegio di scrivere un saggio (“Varcare la soglia della speranza”) con Giovanni Paolo II, tradotto in ben 53 lingue, legato da profonda amicizia con Papa Benedetto XVI, autore del libro-intervista “Rapporto sulla fede”, scritto con l’allora cardinale Joseph Ratzinger; esclude categoricamente che vi sia stato un complotto contro il Papa, ma ammette anche, rinunciando ad ogni moralismo, che la Chiesa è duplice, è bifronte essendo, al contempo, un mistero ed una istituzione umana, sicché e non da oggi, è un autentico “nido di vipere”.
Orlando Saccheli, vaticanista de Il Giornale, ricorda che l’anno appena trascorso sarà ricordato come quello dei “corvi” e dei Vatileaks (la fuga di documenti riservati vaticani riguardanti i rapporti all’interno e all’esterno della Santa Sede, documenti che hanno fatto emergere le lotte di potere all’interno del Vaticano e alcune irregolarità nella gestione finanziaria dello Stato e nell’applicazione delle normative antiriciclaggio).
Ovviamente ricorderemo anche il maggiordomo che rubava le carte e le passava ai giornalisti (e a chi altri?) e le lotte durissime tra le “sacre stanze”, con i cardinali a farsi la guerra, sotto traccia, mettendo in difficoltà in più di un’occasione lo stesso Pontefice.
C’è poi il problema pedofilia, con, di recente, l’arcivescovo di Los Angeles, Josè Gomez, che ha sollevato da ogni incarico pubblico il suo predecessore, Roger Mahony, pubblicando sul sito della diocesi tutte le carte sugli scandali, che coinvolgerebbero più di 120 preti, fatto, a quanto pare, non gradito a molti cardinali americani, che hanno espresso più di un malumore, oggetto dell’incontro, avvenuto pochi giorni fa, tra il Pontefice e il cardinale Angelo Sodano, ex segretario di Stato e numero uno del collegio cardinalizio.
“Mordkomplott” (complotto di morte), è una parola che compare più volte in un documento anonimo consegnato da un cardinale, il colombiano Castrillon Hoyos, alla Segreteria di Stato e al segretario del Papa, all’inizio del 2012.
Nel testo pare si parli di un viaggio fatto in Cina dall’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che avrebbe fatto partire le voci sulla “fine del papato” entro un anno.
E, ancora, si parla di un dossier dal contenuto “sconvolgente”, che tre cardinali anziani avrebbero consegnato al Papa, nei mesi scorsi, dove si sottolinea la gravità del fatto che lo Ior (la “banca del Papa”), da nove mesi è senza guida; dato che il presidente Ettore Gotti Tedeschi è stato sfiduciato, ma non sostituito.
E’ molto probabile, pertanto, che un uomo profondamente spirituale come Ratzinger, giunto a 86 anni di età, abbia compreso che occorre spalancare le finestre per far entrare aria pulita nelle stanze dei sacri palazzi, ma non ne abbia sentito su di sé la forza necessaria.
ll breve pontificato di Celestino V fu certo costellato delle ingenuità di un uomo semplice, circondato da cattivi consiglieri, mossi da interessi poco spirituali. Ma l’eremita del Morrone, avvisato dalle voci più critiche e più distaccate, come quella di Iacopone da Todi, ebbe la lucidità per capire che quel ruolo non era adatto per lui. Consultatosi con i cardinali più esperti di diritto canonico (Benedetto Caetani e Gherardo Bianchi) il 13 dicembre dello stesso 1294 abdicò e fuggì per tornare a fare l’eremita; anche se il suo successore, Bonifacio VIII, scorgendo il pericolo che l’ex papa in mano a qualche potente potesse impugnare l’abdicazione e provocare uno scisma, lo fece braccare e poi imprigionare, fino alla morte, sopraggiunta il 19 maggio 1295.
Joseph Ratzinger, invece,non è uno sprovveduto, ma il teologo di Giovanni Paolo II, non dotato dello stesso carisma, non graziato da un altrettanto penetrante e naturale capacità mediatica, ma certamente animato da grande e profonda spiritualità.
Irrita la superficialità di chi ha considerato Wojtyla il ‘papa buono’ e progressista e Ratzinger il ‘papa cattivo‘ e oscurantista, perché i due Papi sono stati, sebbene impegnati in modo diverso e con popolarità diversa, due facce della stessa medaglia: quella di una Chiesa profondamente conservatrice, con il secondo che si è trovato ad affrontare non più un nemico in carne ed ossa (come, nel caso di Woityla il comunismo) ma molti nemici sfuggenti e insidiosi, un progressivo distacco della società dalla Chiesa, ma soprattutto il venire a galla di una crisi della stessa Curia e della sua autorevolezza, con scandali di notevole gravità che lasciano un grosso punto interrogativo sulla possibilità di questa bimillenaria istituzione di rinnovarsi: una monarchia assoluta che nei fatti non lo è più e forse non potrà più esserlo, un sistema di governo spirituale e temporale, dove non si riesce più a capire chi decide.
Nel 1956 Palazzo Strozzi ospitò la Mostra del Pontormo e del primo manierismo fiorentino. Si trattava della prima importante rassegna dedicata al protagonista di un movimento che aveva da poco avuto una piena rivalutazione critica. Quasi sessant’anni dopo Palazzo Strozzi ripropone (dall’8 marzo al 20 luglio) una mostra dedicata ai due soli protagonisti di quel movimento: Pontormo e Rosso Fiorentino, nati entrambi nel 1494, al chiudersi di un secolo che per Firenze e l’Italia aveva visto rompersi un equilibrio politico che aveva garantito prosperità e sicurezza ed aprirsi una travagliata età di scontri religiosi e politici che portarono ad un mutamento definitivo degli equilibri fra gli stati ma anche ad infrangersi di armonia ed equilibrio delle arti che avevano caratterizzato il passaggio dal Quattrocento al Cinquecento.
Pensando a loro è facile capire che Wojtyla e Ratzinger, dopo la pace raffeallita e breve di Giovanni Paolo I, hanno tentato una marcia indietro, considerando che solo il ritorno al rigore antico può fermare la Chiesa da suo lungo declino.
Ho imparato da Pasolini che il corpo non mente ed i gesti valgono più delle parole, in un mondo senza più “lucciole”, dove tutti i linguaggi sono falsi ed omologati.
Molti degli ultimi interventi pubblici di Pasolini insistono sul tema della omologazione dei comportamenti: la “scomparsa delle lucciole” viene a coincidere anche col ridursi della ricchezza espressiva della lingua, dei dialetti in particolare, col degradarsi della mimica e della gestualità: da una “corporalità popolare” ancora riconoscibile (naturalmente in opposizione a quella piccolo-borghese) si sarebbe passati a una indifferente apparenza dei corpi, “fisicamente intercambiabili” tra destra e sinistra. Quanto più il suo discorso si fa assoluto (e forse apocalittico secondo Didi-Huberman), tanto più le sfumature e i dettagli si perdono.
Secondo Giorgio Agamben, il gesto “non ha propriamente nulla da dire, perché ciò che mostra è l’essere-nel-linguaggio dell’uomo come pura medialità”. Eppure, tanto nel vissuto quotidiano, quanto di fronte alle immagini antiche e a quelle di oggi, siamo impegnati nello sforzo continuo di far parlare i corpi, sforzo che è spesso sufficiente, anche se non esauriente.
Perché i corpi parlano prima di tutto quel ‘‘linguaggio della presenza fisica, che da sempre gli uomini sono in grado di usare” e non è detto che la memoria che in essi è inscritta proceda con le medesime regole e i medesimi tempi che caratterizzano gli altri spazi della cultura.
E se guardiamo, ora, i gesti di Ratzinger, teologo che è voluto scendere dal soglio di Pietro, sono fatti di fremiti trattenuti, avvolti in sguardi pieni di rimprovero.
“E bavosa di un vecchio, o la gola dentata di un antico squalo”, scrive Eliot della Chiesa in “Il mercoledì delle ceneri”: il primo giorno del periodo liturgico “forte”, a carattere battesimale e penitenziale, in preparazione della Pasqua, scelto da Ratzinger per il suo annuncio.
Ora si attende un successore, che apra un era che, direbbe Eliot, sia “il luogo di solitudine dove tre sogni s’incrociano/ Fra rocce azzurre”, nello spazio “della tensione tra il morire e il nascere”, capace di ridare un significato alla vita.
Carlo Di Stanislao
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