Dopo la condanna ad un anno (al fratello ne sono stati inflitti 2 e 8 mesi) per i fatti della Unipol ( la celebre intercettazioni Fassino-Calandra), che segue quella in primo grado a 4 anni per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita, Berlusconi non vuole compare nel processo Ruby, in cui è accusato di presunti rapporti sessuali con tale Kharima el Marhoug (nota come Ruby Rubacuori), minorenne all’epoca dei fatti e si angoscia per l’accusa recente, del senatore Di Gregorio, di compravendita di voti con l’intermediazione del già condannato Valter La Vitola.
Adesso, a proposito del processo Ruby, i giudici di Milano hanno accolto l’impedimento avanzato dai suoi ritenendolo “legittimo e assoluto allo stato”, mentre Ilda Boccassini aveva chiesto di respingere l’istanza, cosa che non è avvenuta poiché l’uveite di cui il premier soffre ”può produrre alterazioni alla visione che possono cronicizzarsi e invalidare la normale funzione dell’occhio”.
Comunque, anche se rinviato, il processo resta in piedi e se Berlusconi collezionasse anche questa terza, grave condanna, il sua appeal ne avrebbe a risentire.
All’inizio dell’udienza di stamani il pm Boccassini aveva espresso perplessità sulla reale natura dell’impedimento di Berlusconi, considerando non ostativo l’aggravarsi della congiuntivite. Del resto, tranne due volte, Berlusconi non si mai presentato per assistere al processo nel quale è imputato di concussione e prostituzione minorile.
Stamattina il pm aveva obiettato la stranezza della doppia richiesta delle difese: la prima, spedita via fax il 6 marzo, contemplava problemi di ordine politico (una riunione a Palazzo Grazioli convocata per oggi); la seconda, spedita ieri, revocava le questioni politiche e poneva solo l’impedimento fisico, ovvero la congiuntivite che da due settimane affligge Berlusconi. Il secondo fax è stato accompagnato da tre certificati medici rilasciati dal San Raffaele in cui, in un certo senso, la posizione del Cavaliere si aggrava di certificato in certificato, fino a vietargli, proprio ieri, di comparire in luoghi in cui possa essere esposto alla luce.
Berlusconi ha comunque paura ed anche se minaccia di far scendere in piazza tutti i suoi il 23 marzo a S. Giovanni e poi fa dietro front e rettifica che la manifestazione, dapprima concepita contro il “cancro dei magistrati” è invece diretta all’Italia in crisi; sa che adesso è più fragile e scoperto che in passato e che l’unica è buttarla, come al solito, contro una magistratura “rossa” e che lo vuole distrutto, innestando, come invia attraverso migliaia di mail l’ormai suo fido boiardo Scilipodi, le solite recriminazioni contro le “bombe ad orologeria” di giudici politicizzati ed ingiusti.
E gli fa gioco, in questa suo ennesimo tentativo di travestirsi da vittima, il fatto che Gianfranco Mascia, blogger “viola”, candidato con Ingroia, non appena saputo dell’intenzione di Berlusconi di portare i suoi in piazza, va in Questura per prenotare la stessa piazza, per una manifestazione dalle 18 alle 23 di quello stesso sabato.
Cose che non giovano certo alla causa di chi crede che Berlusconi sia un problema, anzi.
Come non giova il fatto che Antonio Ingroia, dopo aver dismesso, senza essersi dimesso, i panni di magistrato, commentando i fatti giudiziari riguardanti l’ex premier e in attesa di decidere se rimettere la toga o tornare in Guatemala per onorare finalmente l’incarico Onu, immaginando addirittura che la sua carriera politica non sia finita, dice che il Berlusconi indagato “è il fotogramma di un film interrotto solo per l’intervallo”, senza pensare che così dicendo alimenta le farneticazioni vittimistiche del Cav e dei suoi.
A dire il vero anche altri colleghi (di Ingroia) togati hanno commesso per lo meno errori.
A Napoli, patria del sindaco Luigi De Magistris, tra i principali sponsor dell’operazione, gli “ingroiani” si sono fermati al 3,68%.
E a Palermo, città d’origine del leader della coalizione, si sale appena al 4,46, con l’intera Sicilia ferma ad un misero 3,3.
Insomma l’atteggiamento di certi magistrati ha supportato Berlusconi ed il berlusconisomo, tanto che la Lombardia è finita a Maroni, in linea di continuità col pluriindagato Roberto Formigoni e la Puglia è tornata a essere granaio del Cav, nonostante le accuse di tangenti a Raffaele Fitto.
Da tempo i più avvertiti riflettono sul fatto (confermato dalla ripartizione del voto), che la crisi della rappresentanza relega la governance al ruolo di una nuova poliziewisenschaft, in un progressivo distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione.
In Italia il parlamento vive da anni prevalentemente in funzione delle sue strategie mirate alla cooptazione e al controllo sociale. Nel mentre affina le sue mappe per dare corpo all’accelerazione di un processo neo autoritario le cui origini in Italia sono note a tutti.
Così se ci allarma la dichiarazione di Minzolini, cacciato dal TG1, poi assolto, forse da reintegrare e pagare profumatamente ed ora eletto neosenatore nelle fine del Pdl, che, ha detto, voterebbe volentieri la fiducia a Renzi; ci inquieta altrettanto la deriva dell’emergenza autoritaria, della critica allo stato di eccezione rovesciata, mentre si fa sempre più strada l’ipotesi del ripristino dell’equilibrio istituzionale attraverso un golpe eversivo, con la richiesta dell’ordine per il ripristino dell’ordine, formalmente democratico, che di democratico, in verità, non ha proprio nulla.
L’irrompere di un nuovo protagonismo sociale dei movimenti contro l’austerity, contro il piano capitalista dell’exit strategy, ovvero da quella stessa crisi che il piano capitalista ha provocato, è il nodo politico centrale che spaventa i potenti e che comincia a far paura.
Ed anche se è lì, nel punto più avanzato della contraddizione, nei suoi perimetri formali, che si accumula forza per il cambiamento dopo due decenni di egemonia del pensiero neoliberista; la possibile deriva violenta non può essere né ignorata né minimizzata.
Sale l’angoscia di un Paese strozzato dalle tasse e da uno stato che lascia fallire le imprese creditrici perché non le paga, ma anche quella di chi sente un diffuso giacobinismo serpeggiare nella società, con nuovi Robespierre che, appoggiati alla ghigliottina, stanno aspettando le teste da mozzare della nostra fragile democrazia, senza tener conto che non è né col giustizialismo né col terrore che si risolvono i problemi.
La fortuna del giacobinismo appare sorprendente quando si oltrepassano i confini francesi: infatti il partito giacobino divenne, nel corso del XIX e del XX secolo, un punto di riferimento per tutti i movimenti rivoluzionari che hanno creduto nella trasformazione del mondo e sperato nella nascita dell’uomo nuovo. Nel club della rue Saint-Honoré i partiti rivoluzionari hanno riconosciuto il loro antenato, con un dibattito che è proseguito all’interno del pensiero socialista, che a volte lo ha esaltato come un’anticipazione, altre volte lo ha condannato come pura difesa degli interessi borghesi, ma comunque lo ha surrogato, spesso, come giustizialismo.
L’elemento al quale, paradossalmente, oggi non si pensa più quando ci si dichiara giacobini, è proprio quello odiosamente giacobino: cioè l’insieme dei mezzi con i quali un club esercita il proprio dominio su un’assemblea eletta. Nulla permette di capire i meccanismi con i quali si impone questo dominio meglio delle prime settimane della Convenzione, quando gli schieramenti sono ancora mal delineati e i gruppi permeabili, quando il club dei giacobini ha dei concorrenti e non c’è ancora il regno del Terrore. Dal settembre 1792 al gennaio 1793 si mettono a punto gli elementi essenziali del sistema. Il giorno stesso in cui la Convenzione si riunisce il club si arroga il diritto di sciogliere gli altri club, che vengono assimilati agli assembramenti equivoci in cui può cercare di esprimersi solo l”intrigo’. Poi è la volta dei deputati: perché non sono tutti presenti nella sala dei giacobini? Ve li spingono dentro, e se sono riluttanti, si mette in moto la macchina dell’espulsione.
Da Auguste Comte e da Tocqueville, dovremmo aver imparato che ogni sussulto giacobino conduce, inevitabilmente, ad un centralismo governativo e amministrativo, ad una politica di salute pubblica, con manipolazione degli eletti, educazione politica delle masse nella prospettiva di creare l’unità, sospensione della realtà e, infine, abolizione del confine fra pubblico e privato.
Come scrisse lo stesso Antonio Gramsci nei suo “Quaderni dal carcere”, giacobino, oltre al significato storico, è usato modernamente per indicare l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero, senza rendersi conto che in questa definizione prevalgono gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale.
Carlo Di Stanislao
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