Il debito è immane: 150 miliardi che la pubblica amministrazione deve a ditte e fornitori, che intanto pagano tasse, materiali e dipendenti e sono in una cronica situazione di affanno.
Nel gergo tecnico vengono chiamati i “residui passivi”, nella realtà rappresentano l’ossigeno che smette di far respirare le imprese che vanno incontro alla “morte per crediti” invece che per debiti, un fenomeno tutto ed esclusivamente italiano.
Sono stati questi “residui mortali” che hanno spinto i costruttori a coprire con 10 mila caschetti gialli Piazza Affari a Milano, in una manifestazione di frustrazione e rabbia per l’emissione di fatture per miliardi, su lavori già realizzati, ma che non sono mai state incassate. Questo problema non riguarda, però, solo l’edilizia, anzi, è molto più trasversale sono aziende di ogni settore ad essere schiacciate dai crediti nei riguardi dei loro enti proprietari.
Adesso, dopo momenti di trepidazione, pare che si sia giunti ad una svolta, con una dichiarazione congiunta dei vicepresidenti della Commissione europea Antonio Tajani e Olli Rehn che indicano “la liquidazione di debiti commerciali come uno dei fattori attenuanti” nel rispetto del Patto di stabilità e crescita; in definitiva un invito comunitario rivolta al nostro governo a proporre un piano di pagamento in due anni, senza che questo comporti una violazione del patto di stabilità che abbiamo sottoscritto.
Ora si tratta di stabilire la tabella di marcia che dovrà portare, appunto in due anni, il debito al’1-2% del totale.
Tajani ha anche ringraziato il Presidente della Repubblica “per aver lanciato un appello con la sua autorevolezza, che è stato preso in grande considerazione dalla Commissione europea” ed aggiunto che la direttiva “va rispettata nella sua pienezza”, con pagamenti dei futuri debiti entro “trenta giorni in tutti i settori”.
La notizia rincuora l’Associazione Costruttori ma non toglie l’Italia dalle ambasce messe in evidenza, ancora una volta, dal rapporto economico del primo trimestre che precisa le tendenze dell’intero anno e prevede una ulteriore caduta del Pil attorno al 2%, con disoccupazione proiettata, invece in alto, verso il 15%, con incremento di 4 punti percentuali.
Il rischio di accelerazione della perdita dei posti di lavoro è dovuto alla gran massa di lavoratori in cassa integrazione che non sono ancora classificati come disoccupati, ma che di fatto in buona parte lo sono perché le aziende in cui operano è difficile possano riprendersi. Inoltre, sono incerte le risorse pubbliche per finanziare tutti i cassaintegrati attuali.
Dicono Pelanda ed altri economisti che la nostra è una spirale depressiva certa, anche se modificabile se riusciva a far fronte a quattro errori abissali: riduzione troppo veloce della spesa pubblica senza compensazioni espansive; (eccesso di costi sia fiscali, sia sistemici; sfiducia sulla stabilità politica prospettica dell’Italia che comporta un deprezzamento dei titoli di debito italiano e, via una catena di conseguenze, riduce la capacità del sistema bancario di erogare credito, peraltro già compromessa dall’alto numero di crediti inesigibili dovuti alla recessione; legge sul lavoro che disincentiva le nuove assunzioni.
A fronte delle decine di testi e documenti prodotti dai vari governi (compreso quello tecnico di Monti), i risultati finora sono minimi, praticamente inesistenti. Le aziende, soprattutto piccole, continuano a non poter fare affidamento su un flusso di liquidità di cui avrebbero bisogno come ossigeno, in un momento così difficile e speriamo che ora, la risoluzione europea, possa dare loro una qualche speranza.
Del tutto recentemente il ministro dello Sviluppo Corrado Passera è uscito allo scoperto e in un’intervista al Messaggero ha addossato al Tesoro, e per certi versi alla presidenza del Consiglio, la responsabilità del blocco dei pagamenti.
Emblematica è la vicenda della procedura di certificazione dei crediti, faticosamente messa a punto per dare una svolta alla vicenda. L’obiettivo era mettere le imprese in condizione di poter utilizzare i propri crediti cedendoli alle banche o anche compensandoli con eventuali somme dovute allo Stato per tributi non pagati. È stata allestita una piattaforma informatica sulla quale si sarebbero dovute registrare pubbliche amministrazioni e imprese, con la possibilità di intervento delle banche che avrebbero così potuto svolgere le pratiche per conto dei propri clienti.
Ma, al febbraio scorso, risultavano rilasciate solo 71 certificazioni, per un importo di appena 3 milioni di euro sui circa 70 miliardi di debito complessivo scaduto ed erano abilitati all’uso della piattaforma solo 1.227 enti pubblici (tra cui oltre 900 Comuni del Centro-Nord) e 289 imprese: una percentuale irrisoria sul totale che ci permette di parlare, ancora una volta, di totale insuccesso.
Il collasso di Cipro, con prelievo forzoso imposto dalla Ue ai depositi delle banche in cambio di aiuti per 10 miliardi fa tremare l’Italia, con i cittadini che temono una cosa analoga da noi a causa di un debito pubblico enorme ed in continua ascesa.
Il nostro debito è salito nuovamente sopra quota 2.000 miliardi di euro e punta per il 2013 a raggiungere il 130% del rapporto con il Pil.
Tuttavia grandi sono le differenze fra noi e Cipro e le soluzioni che si potrebbero adottare sono meno tortuose di quanto proponga la complessa situazione cipriota.
Bisognerà tagliare pesantemente sulla spesa della pubblica amministrazione, sugli stipendi dei dipendenti pubblici e sulle pensioni a partire da un certo importo. Lo Stato spende 175 miliardi all’anno per gli stipendi dei dipendenti pubblici e 265 per le pensioni, cifre all’interno delle quali si nascondo sacche di privilegio e distorsioni che non trovano rispondenza e non sono più sostenibili con la crisi in atto. Basterebbe – secondo vari economisti – un taglio secco del 5% per recuperare più di 20 miliardi all’anno. Il resto potrebbe essere recuperato dall’abbattimento delle spese militari e dai costi della politica, a partire dal dimezzamento del numero dei parlamentari e dall’assegno annuale al Presidente della Repubblica, per finire con la cancellazione delle province e di tanti uffici ministeriali periferici ed enti inutili che ancora gravano passivamente sulle tasche dei contribuenti.
Ma, anche in queste ore, c’è chi torna a parlare (soprattutto Grillo ed i suoi), di uscire dall’euro e, modificato la storia e i numeri, affermano che la Germania è stata favorita nel cambio con l’euro, quando questo in fin dei conti non era altro che una continuazione dell’ECU (European Currency Unit) già esistente dal punto di vista scritturale da parecchi anni e utilizzata come una specie di superindice delle valute dello SME (Sterlina Inglese e Corona Danese comprese, nazioni che poi scelsero di non entrare nell’Unione Monetaria).
Il problema non è stata l’introduzione dell’euro, bensì i mancati presidi sui prezzi e la libertà totale di “adeguamento dei decimali” a negozianti e artigiani, che, anche se non in tutti i casi, hanno approssimato a “un euro mille lire”, pagando poi a caro prezzo questo loro vorace atteggiamento ma anche ottuso atteggiamento.
Dal 1998
fino all’esplosione della Crisi dei Debiti Sovrani del 2011, l’Italia ha risparmiato 700 miliardi di euro in termini di inferiori interessi da pagare per il debito. Chi deteneva un mutuo parametrizzato all’Euribor a tre mesi ricorda che nel 2003-2005 sembrava di avere un tasso fisso perché il riferimento oscillava di pochi punti base, contemporaneamente i Titoli di Stato non rendevano tantissimo (ancora oggi molti ricordano i BTp al 12% dei primi anni ’90, illusione di un arricchimento facile), i risparmi si riflessero sugli interessi e quindi aumentò la domanda di mutui e di conseguenza quella di immobili innalzando la quota capitale da pagare a parità di immobile acquistato.
E, mentre la Germania con Schröder, varava manovre di austerity e sanava il bilancio statale, noi, allegramente e con governi vari, facevamo sì che le amministrazioni centrale e locali diventassero delle vere macchine mangia soldi creando posizioni di rendita per politici, aumentando il disagio della popolazione e portando alla vittoria elettorale un elemento di rottura con il passato come il Movimento fondato da Beppe Grillo, con tutte le logiche conseguenze di governabilità attuale.
Carlo Di Stanislao
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