Prima la scomparsa del grande Enzo: il medico-poeta cantore degli ultimi, l’inventore di una comicità surreale che non è mai passata di moda. Poi, mentre Milano si preparava ad accogliere Jannacci nella Camera ardente, allestita al teatro Dal Verme, per consentire l’abbraccio collettivo, è morto ad Acilia Franco Califano, il “Califfo”: poeta trasgressivo, romano d’adozione e di temperamento.
Sono stati due artisti bravi e diversi, cantori della gente più umile e comune, morti a un giorno di distanza, sconfitti da un male incurabile contro cui hanno lottato, con tenacia e disperatamente.
Il primo, figlio delle nebbie milanesi, sarà inumato domani sera, mentre il secondo, espressione di una cultura borgatara fatta di esplosioni e melanconie, da stamani è esposto nella camera ardente allestita al Quirinale.
Nell’arco di 24 ore se n’è andato prima un simbolo di Milano, poi uno di Roma, scurendo le tinte già tragiche di una Pasqua che non ha nulla di resurrezione.
Er Califfo, ovvero “il maestro”, come lo chiamavano gli amici, è stato autore di classici della canzone, interprete di successo, ma anche poeta ed attore e protagonista delle cronache per le sue amicizie pericolose e le sue rischiose abitudini.
Un uomo esagerato che ha sperperato un patrimonio e che proprio quando sembrava avviato al declino, era stato riscoperto dalla nuove generazioni, con Fiorello gli aveva dedicato una delle sue imitazioni più popolari e i Tiromancino che hanno registrato con lui, come anche un jazzista del livello di Stefano Di Battista.
Aveva 74 anni Franco Califano, all’inizio attore di fotoromanzi , un fuoriclasse della seduzione dal fascino maledetto, poi autore di canzoni immortali come “Minuetto”, “La musica è finita”, “E la chiamano estate”, “Una ragione di più” ed il suo “manifesto esistenziale”: “Tutto il resto è noia”, che come i suoi monologhi e le sue poesie, oscilla tra il comico e il dramma, proponendo istantanee di vita alla deriva, con appena un barlume di speranza.
Il giorno di Pasqua Vasco Rossi li commemora commosso su Fecebook, poeti di personaggi sfortunati, che hanno preso il volo mentre l’Italia cerca di risorgere grazie a “dieci saggi”, che vogliono modificare la Costituzione, la legge elettorale ed i regolamenti parlamentari, per rendere più seria questa sfortunata Nazione.
Ed in attesa di scoprire, già domani, come sarà l’accoglienza per la “task force” quirinalizia, penso all’ amara ironia dei due cantautori, capaci di costruire anti-eroi in cui tutti ,e più volte, ci siamo rispecchiati.
Penso alle canzoni in milanese di Jannacci e a quelle in italiano, capolavori come “Vengo anch’io”, “Quelli che”, “Se me lo dicevi prima”, composti in cinquant’anni di carriera, sempre controcorrente, anche quando fu cabarettista e attore.
Il 19 dicembre 2011 Fabio Fazio condusse uno speciale su di lui in cui amici di lungo corso lo omaggiarono o interpretando suoi brani. Tra questi Dario Fo, Ornella Vanoni, Cochi e Renato, Paolo Rossi, Teo Teocoli, Roberto Vecchioni, Massimo Boldi, Antonio Albanese, J-Ax, Ale e Franz, Irene Grandi e altri.
Fu quella l’ultima apparizione di Jannacci e si capiva che stava male, che stava morendo, ma mostrava dignità e coraggio di fronte alla malattia. Capiva da medico che il suo corpo stava cedendo, ma lo spirito era sempre lo stesso e anche la voglia di cantare e ironizzare, col figlio Paolo, nato dal matrimonio con Giuliana Orefice, che gli dava le mani per suonare.
Califano invece, si era esibito lo scorso 18 marzo e lo aveva fatto con la forza di sempre. Chi l’ha visto ci ha raccontato che sembrava sempre il playboy venuto dalle borgate, spregiudicato e allo stesso tempo romantico, che dietro al machismo e al ghigno celava una straordinaria sensibilità, un’anima capace di esprimere un candore e una tenerezza quasi infantili.
Mi ricorda Curzio Malaparte Califano, sempre il più bravo ad imporsi con la sua forte personalità, col suo protagonismo spesso scandaloso e irruente, con la memoria dei sentimenti, l’amore ai luoghi della sua infanzia, eletti a luoghi del cuore, Arcadia dell’anima e la sua straordinaria immaginazione.
E credo me lo ricordi a ragione, perché entrambi, in ogni momento della loro vita, non si sottrassero al formulare pienamente le loro idee e le loro contraddizioni, risultato infine simpatici e combattivi, moderni e con un naturale talento per la narrazione, fatta di lungimirante capacità analitica.
Per la “sua libertà”, Califano ha pagato un caro prezzo. Arrestato nel 1970 per possesso di stupefacenti, caso in cui rimase invischiato anche Walter Chiari, è ancora la droga, assieme alle accuse di un pentito, a riportarlo dietro le sbarre nel 1983, con l’aggravante del porto abusivo di armi. Questa volta, con Enzo Tortora. Processi conclusi sempre con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” ed esperienza che tradusse nell’album: “Impronte digitali”.
Al carcere Califano si rivolse ancora nel giugno 2012, dedicando un duetto con Simone Cristicchi, “Stò a cercà lavoro”, ai giovani detenuti del minorile di Nisida, con i proventi andati al progetto “Liberi di…”, per la rieducazione e l’inserimento lavorativo dei giovani reclusi.
Certo occuperanno posti diversi in cielo Enzo e Franco, lo stralunato Pierrot delle nebbie ed il Califfo di periferia. Ma altrettanto certamente il cielo sarà più ricco grazie a loro, mentre la terra avrà un doppio motivo di rimpianto.
Carlo Di Stanislao
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