“Udire le voci” non è sintomo di schizofrenia e, soprattutto, “non è un tumore da eliminare”: Maurizio Macario, presidente dell’associazione Uditori di voci, si sta preparando in questi giorni per il Convegno nazionale che si svolgerà a Roma venerdì 12 e sabato 13 aprile: un’occasione per fare il punto sugli approcci e le proposte in merito a una questione “psichiatrica” poco conosciuta e molto travisata.
Cosa significa “udire le voci”? Possiamo considerarla una patologia?
Udire voci è diventato un problema psichiatrico nell’ultimo secolo, da quando la sistematizzazione delle malattie psichiatriche e la creazione di sistemi diagnostici hanno fatto rientrare questo sintomo delle allucinazioni uditive tra i sintomi della schizofrenia. Inizialmente, non si è data grande importanza a questo problema, che con il tempo è stato progressivamente sopravvalutato, fino a rendere automatico il collegamento con la malattia psichiatrica. Nel passato, invece, ci sono stati molti personaggi di rilievo che sentivano voci, senza per questo essere considerati schizofrenici: penso a Giovanna d’Arco, Gandhi, Emily Bronte, Lenoardo da Vinci, Napoleone. Se queste persone sentivano voci ma non erano schizofrenici allora non è vero che è sintomo di schizofrenia.
E’ possibile fare una stima di questo fenomeno? Quanti sono, all’incirca, gli “uditori di voci”?
Da quando, 20-30 anni fa, sono iniziate ricerche epidemiologiche sul tema, è emerso che questa esperienza riguarda nei paesi occidentali tra il 4 e il 7% della popolazione. L’aspetto interessante è che solo un terzo vive le voci come un problema: noi psichiatri intercettiamo quindi questa minoranza. I restanti due terzi degli uditori non hanno problemi con queste voci, ma riescono ad avere con queste un rapporto anche positivo. L’esperienza è problematica quando le voci sono cattive, minacciose, a volte istigano addirittura al suicidio.
Come vengono trattate, generalmente, queste voci?
L’approccio prevalente è quello farmacologico. Si somministrano medicine come “silenziatori”, per riuscire almeno ad abbassare il volume di queste voci. Questo approccio però non funziona in tutti i casi e ha effetti collaterali importanti. E’ vero che il farmaco spesso è necessario, soprattutto se le voci sono accompagnate da un’angoscia molto forte. Occorre però anche un’indagine per capire da dove arrivino e cosa dicano queste voci: un’indagine che può avvenire sia individualmente sia in gruppi di auto aiuto. Bisogna riuscire a collegare le esperienze della propria vita con le voci che si sentono, nella consapevolezza che tutte queste voci, anche le più cattive, invitano a un cambiamento necessario. E’ l’insegnamento di Marius Romme, lo psichiatra olandese padre del movimento internazionale degli uditori.
Come è nato questo movimento?
25 anni fa Romme prese in cura un paziente che sentiva le voci e che, diversamente dagli altri, non voleva farle tacere, ma era interessato a capire cosa dicessero. Insieme, parteciparono a una trasmissione televisiva molto seguita e da lì invitarono chi avesse la stessa esperienza a telefonare: nel giro di poche ore, telefonarono oltre 600 persone, che per lo più non vivevano queste voci come un problema. Questo ha determinato la nascita del movimento degli uditori e l’interesse a capire da dove vengano fuori voci.
E da dove vengono?
In 25 anni di ricerche, si è dimostrato che queste voci, sia quelle positive sia quelle negative, sono sempre collegate a un’esperienza traumatica. Chi non riesce a digerire e accettare l’esperienza negativa, attraverso le voci fa riemergere le emozioni legate al trauma. In altre parole, in maniera simbolica, metaforica, teatrale, le voci riportano a galla emozioni collegate con quell’esperienza negativa.
La psichiatria sta cambiando approccio, nella direzione suggerita dal movimento?
C’è ancora la forte tendenza a semplificare, ma il nostro approccio lentamente viene recepito. E’ importante uscire dal luogo comune per cui la voce è sintomo di schizofrenia, la quale in molti casi è ancora considerata una malattia incurabile. Peraltro, anche la schizofrenia, diversamente dalla demenza, si può superare. E questo è un aspetto per me fondamentale: la scienza ha dimostrato che i fattori prognostici più importanti, cioè quello che maggiormente aiuta a guarire, non sono né la diagnosi precoce, né i farmaci, né altre terapie, ma le aspettative positive dell’interessato, dei suoi familiari e degli operatori. Al contrario, la non speranza, il pessimismo, frasi come “lei ha una malattia da cui non si guarisce”, aumenta molto probabilità che questo accada.
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