Esistono dimensioni extra nell’Universo che ancora non riusciamo a vedere direttamente. Ma esistono grazie all’asimmetria tra Materia e Antimateria. Tutte le ricerche nell’infinitamente grande e piccolo convergono nel sostenere in maniera inequivocabile questa verità fondamentale che, tra mistero e realtà, attende la più elegante formulazione matematica di tutti i tempi per la fondazione della Nuova Fisica. Il “bestiario” particellare oggi conosciuto nel Modello Standard, infatti, è soltanto l’inizio di Qualcosa di molto più grande e complesso di quanto finora solo immaginato dalla fantascienza e dalla scienza. La massa di tutte le cose dipende dall’energia di legame che tiene i quark insieme dentro a un protone. La massa dipende dall’energia, insegna Einstein! Ed anche se la responsabilità della massa di tutti noi è dovuta al caro professor Peter Higgs con il suo mitico Bosone, non tutto è stato ancora chiarito. Al Cern di Ginevra gli scienziati ammettono che lo specchio dell’Universo rivela una nuova apparente “imperfezione”. Alcune particelle gemelle si sono scomposte in forme diverse, mentre avrebbero dovuto mantenere la propria uguaglianza anche in questa trasformazione. Il fenomeno è stato osservato per la prima volta da un gruppo di ricercatori della collaborazione LHCb con una vasta partecipazione di fisici italiani dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Grazie alle osservazioni dell’esperimento LHCb all’acceleratore di particelle Large Hadron Collider, lo studio pubblicato su “Physics Review Letter” dimostra questo comportamento in un tipo di particelle chiamate mesoni B0s (che identificheremo più semplicemente come “Bs”) composti da un quark “bello” (beauty) e da un quark “strano” (strange). È la quarta particella sub-atomica nota ad esibire un tale comportamento. Si pensa che all’inizio dell’Universo, materia ed antimateria fossero presenti nelle stesse quantità in un istante infinitesimale di energia quasi inconcepibile per i nostri parametri terrestri così “freddi” e lontani nello spaziotempo. Oggi sappiamo che l’Universo è costituito essenzialmente da materia (ordinaria ed oscura, il 30 percento del Tutto) gravitazionale. I sensori accoppiati ad Lhc stanno cercando di far luce sul “mistero” della dominanza della materia sull’antimateria. Per la prima volta LHCb è stato in grado di osservare una differenza, ossia un’asimmetria di comportamento, tra i decadimenti dei mesoni Bs e delle loro particelle gemelle (con cariche opposte) di antimateria, i mesoni anti-Bs. Grazie alle collisioni che si realizzano all’interno di un acceleratore di particelle, qual è il potente Lhc oggi in fase di potenziamento sotto la città di Ginevra, i fisici sono in grado di produrre quotidianamente migliaia di miliardi di particelle di antimateria: non servono ad alimentare le famose “gondole di curvatura” (Warp Drive) dell’astronave Enterprise di Star Trek (www.startrekmovie.com/) per navigare nell’Universo “annullando” le distanze “infinite” tra le stelle, i pianeti e le galassie; ma consentono di studiare con precisione il loro comportamento, confrontandolo con quello delle gemelle di materia. Se particelle ed antiparticelle avessero proprietà esattamente speculari, cioè se la simmetria CP fosse esattamente conservata, non vi sarebbe motivazione apparente per giustificare la “scomparsa” dell’antimateria dall’Universo. Ma negli esperimenti al Cern di Ginevra gli scienziati osservano piccole asimmetrie di comportamento tra materia ed antimateria. In particolare, ricostruendo un campione di circa 1065 decadimenti di questi mesoni, LHCb ha rivelato che in 676 casi i mesoni anti-Bs scompaiono (“decadono”) producendo una coppia di mesoni K e pioni, rispettivamente carichi positivamente e negativamente. Ci si aspettava che i mesoni Bs di materia ordinaria producessero anche loro un numero uguale di decadimenti identici ma con cariche invertite. Invece è accaduto solo in 389 casi. Una bella differenza. “L’entità di questa asimmetria di comportamento è molto grande – rivela Vincenzo Vagnoni dell’Infn di Bologna, uno dei firmatari dell’articolo – e la misura effettuata da LHCb apre un nuovo settore d’indagine che potrà portare, con l’aumento della precisione statistica, una migliore comprensione dei fenomeni alla base della violazione della simmetria CP, e possibilmente alla scoperta di nuovi effetti che possano finalmente spiegare il mistero della scomparsa di antimateria dal nostro Universo”. I risultati sono basati sull’analisi dei dati acquisiti dall’esperimento LHCb nel 2011. “La scoperta del comportamento asimmetrico nelle particelle B0S è consacrata da un significativo livello di confidenza superiore a 5 sigma, un risultato reso possibile solo grazie alla massiccia quantità di dati raccolti da LHC ed alle grandi capacità del sensore LHCb di identificare le particelle – spiega Pierluigi Campana, portavoce della collaborazione LHCb – altrove gli esperimenti non sono riusciti ad accumulare un numero sufficiente di decadimenti B0S”. La violazione della simmetria CP fu osservata per la prima volta nelle particelle neutre chiamate kaoni ai Laboratori Brookhaven degli Stati Uniti d’America negli Anni Sessanta del secolo scorso. Quaranta anni dopo, esperimenti in Giappone e negli Usa trovarono comportamenti simili in un’altra particella, il mesone B0. Più recentemente, esperimenti nelle cosiddette “fattorie B” e nel dispositivo LHCb al Cern hanno rilevato che anche il mesone B+ mostra la violazione CP. Tutti questi fenomeni naturali confermano la bontà del Modello Standard sebbene alcune interessanti discrepanze invochino studi più dettagliati. “Sappiamo anche che gli effetti totali indotti dalla violazione CP nel Modello Standard sono troppo piccoli per spiegare la dominanza della materia nell’Universo – fa notare Pierluigi Campana – tuttavia grazie allo studio di questi effetti di violazione CP stiamo cercando i pezzi mancanti del puzzle che prevedono severi test della teoria, per rivelare, come una sensibile sonda, la presenza di una fisica oltre il Modello Standard”. Nell’infinitamente grande, gli astronomi dell’ESO in Cile, grazie al potente Very Large Telescope, insieme ai radiotelescopi di tutto il mondo, hanno scoperto e studiato una bizzarra coppia di astri formata da una massiccia stella di neutroni e da una nana bianca che le orbita attorno. I dati confermano che siamo di fronte a una coppia astrale da record: questa strana stella binaria ha permesso agli scienziati di verificare la teoria gravitazionale di Einstein, la Relatività Generale, in modi finora semplicemente ritenuti impossibili. Come gli esploratori di Star Trek gli scienziati dell’Eso sono arrivati là dove nessuno era mai giunto prima: le nuove osservazioni sono esattamente in accordo con le equazioni di Albert Einsten e sono incompatibili con altre teorie alternative. Lo studio “A Massive Pulsar in a Compact Relativistic Orbit” di John Antoniadis del Max-Planck-Institut für Radioastronomie di Bonn (Germania) et al., è pubblicato sulla rivista Science del 26 Aprile 2013. Il team internazionale dell’Eso ha scoperto che la binaria è davvero esotica: la piccola e incredibilmente pesante stella di neutroni compie la bellezza di 25 rotazioni al minuto su se stessa. La compagna, di appena 0.17 masse solari (ben la di sotto del famoso limite di 1.4 che la farebbe esplodere!) le orbita attorno in appena due ore e mezza. L’astro neutronico, costituito da supermateria degenere ultradensa, è un stella pulsar che emette onde radio così potenti da poter essere intercettate dai radiotelescopi terrestri. Questi due interessanti oggetti diversi insieme rappresentano per gli scienziati dell’Eso la più sensazionale ed esotica coppia celeste naturale (a differenza di quel che accade sulla Terra!) per testare i limiti delle teorie fisiche. Anche di quelle più ardite. La pulsar, battezzata PSR J0348+0432, è ciò che rimane di una colossale esplosione stellare di supernova. È due volte più pesante del Sole, ma il suo diametro è di appena 20 chilometri. La sua energia gravitazionale è semplicemente immensa. Una zolletta della sua supermateria sprigionerebbe così tanta energia elettromagnetica (talmente pesante da non poter essere “confinata” all’interno di alcun dispositivo!) da soddisfare i fabbisogni energetici della Terra per secoli e di un’astronave interstellare degna dell’Enterprise per diversi anni. La gravità sulla superficie della pulsar che “brucia” a 10mila gradi Kelvin, è 300 miliardi di volte più intensa di quella della Terra. Se potessimo prelevare quella zolletta dal nucleo della pulsar, peserebbe più di un miliardo di tonnellate sul nostro pianeta. La sua compagna nana bianca è solo leggermente meno esotica: si tratta dei resti ardenti di una stella molto più leggera che ha perso la sua atmosfera e si sta raffreddando lentamente. “Stavo osservando il sistema con il Very Large Telescope dell’Eso – rivela John Antoniadis, autore dello studio – analizzando i cambiamenti nella luce emessa dalla nana bianca, causati dal suo moto di rivoluzione attorno alla pulsar. Una rapida analisi mi ha convinto del fatto che la pulsar fosse piuttosto pesante. Ha il doppio della massa solare, il che la rende davvero unica, la più massiccia stella di neutroni conosciuta, un eccellente laboratorio per la fisica fondamentale”. La Teoria Generale della Relatività di Einstein, che spiega la gravità come una conseguenza della curvatura dello spaziotempo creata dalla presenza di massa e di energia, ha resistito a tutte le prove alle quali è stata sottoposta dal 25 Novembre 1915. Ma non spiega tutto. Ad esempio, la Relatività Generale non sembra andare d’accordo con l’altra grande teoria della Meccanica Quantistica: i quanti (che rendono possibili i laser e i computer) e la gravità di Einstein devono ancora celebrare e consumare le loro nozze naturali nella Teoria Unificata della Gravità Quantistica. La Relatività Generale prevede singolarità particolari, ponti, pozzi gravitazionali e quantità che tendono all’infinito, come al centro di un buco nero, incredibili. Naturalmente i fisici hanno escogitato altre teorie della gravità che fanno predizioni differenti dalla Relatività Generale. Per alcune di queste visioni alternative, alcuni fenomeni diversi si presenterebbero soltanto in presenza di forti campi gravitazionali che, grazie a Dio, non sperimentiamo nel Sistema Solare. Altrimenti non saremmo più sulla Terra per raccontarli. Ma sono stati scoperti esopianeti alieni attorno ad altre stelle pulsar. In termini gravitazionali, la PSR J0348+0432 è un oggetto veramente estremo, anche se comparato ad altre stelle simili che sono state usate per testare con la massima precisione la Relatività Generale. La prima pulsar binaria, PSR B1913+16, fu scoperta nel 1974 da Joseph Hooton Taylor Jr. e Russell Hulse dell’Università del Massachusetts. I due scienziati vinsero nel 1993 il premio Nobel per la Fisica non soltanto per la sensazionale osservazione, ma soprattutto perché misurarono i cambiamenti nelle proprietà di questo notevole oggetto e dimostrarono che erano precisamente consistenti con la perdita di energia radiante gravitazionale prevista dalla Relatività Generale. Questi astri infatti emettono una possente quantità di energia gravitazionale che li alimenta e li sostiene nei processi termonucleari della supermateria. Siamo in presenza di una superenergia del tutto sconosciuta sulla Terra e non esattamente riproducibile. In campi gravitazionali così intensi, piccoli incrementi di massa possono produrre cambiamenti catastrofici sulla stella e nello spaziotempo circostante “increspato” dalle onde gravitazionali. Finora gli astronomi non avevano idea di che cosa accadesse nelle vicinanze di un astro di neutroni così massiccio come la pulsar PSR J0348+0432. Siamo giunti letteralmente alle frontiere della conoscenza. In un territorio ignoto e inesplorato della fisica e dell’astronomia. Ma anche dell’ingegneria quantistica. Il team di ricerca ha integrato le osservazioni al Very Large Telescope della nana bianca con le misure più precise del periodo della pulsar, grazie ai radiotelescopi di Effelsberg, Arecibo e Green Bank. Nell’ottico si sono avvalsi del William Herschel Telescope. In pratica, un sistema binario come PSR J0348+0432 irradia onde gravitazionali e perde energia. Ciò porta il periodo orbitale a cambiare, più o meno lentamente, in accordo con le previsioni della Relatività Generale e di altre teorie differenti. Il team è composto da John Antoniadis (Max-Planck-Institut für Radioastronomie [MPIfR], Bonn, Germany), Paulo C. C. Freire (MPIfR), Norbert Wex (MPIfR), Thomas M. Tauris (Argelander Institut für Astronomie, Bonn, Germany; MPIfR), Ryan S. Lynch (McGill University, Montreal, Canada), Marten H. van Kerkwijk (University of Toronto, Canada), Michael Kramer (MPIfR; Jodrell Bank Centre for Astrophysics, The University of Manchester, United Kingdom), Cees Bassa (Jodrell Bank), Vik S. Dhillon (University of Sheffield, United Kingdom), Thomas Driebe (Deutsches Zentrum für Luft- und Raumfahrt, Bonn, Germany), Jason W. T. Hessels (ASTRON, the Netherlands Institute for Radio Astronomy, Dwingeloo, The Netherlands; University of Amsterdam, The Netherlands), Victoria M. Kaspi (McGill University), Vladislav I. Kondratiev (ASTRON; Lebedev Physical Institute, Moscow, Russia), Norbert Langer (Argelander Institut für Astronomie), Thomas R. Marsh (University of Warwick, United Kingdom), Maura A. McLaughlin (West Virginia University), Timothy T. Pennucci (Department of Astronomy, University of Virginia) Scott M. Ransom (National Radio Astronomy Observatory, Charlottesville, USA), Ingrid H. Stairs (University of British Columbia, Vancouver, Canada), Joeri van Leeuwen (ASTRON; University of Amsterdam), Joris P. W. Verbiest (MPIfR), David G. Whelan (Department of Astronomy, University of Virginia). “Le nostre osservazioni radio sono state così precise – fa notare Paulo Freire – che siamo riusciti a misurare un cambiamento nel periodo orbitale con una precisione di otto milionesimi di secondo per anno, esattamente come previsto dalla Teoria di Einstein”. Ma è soltanto l’inizio. Misure sempre più precise sono alle porte per capire i segreti della supermateria nelle pulsar. Dai buchi neri potrebbe arrivare un aiuto per affrontare l’enigma della più oscura ed abbondante delle componenti dell’Universo, la misteriosa “Dark Energy”. Lo studio che illustra l’ipotesi, pubblicato su Physical Review Letters, è più serio che mai. Gli autori, dopo aver analizzato i dati di un campione di 60 galassie di tipo “Seyfert 1”, sono giunti alla conclusione che la quantità di radiazione emessa dai loro buchi neri supermassicci, conoscendo la massa dell’astro collassato, può rivelarsi un indicatore affidabile per calcolarne la distanza. Se l’ipotesi sarà confermata, i buchi neri potrebbero aggiungersi al già nutrito insieme d’indizi utilizzati dagli astronomi per misurare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo, e dunque per studiare l’entità che ne sarebbe responsabile: l’Energia Oscura. La cui esistenza, basata sull’azione di spinta anti-gravitazionale nell’Universo che si espande sempre più velocemente, è a oggi supportata dalle osservazioni di tre classi di sorgenti. La mappa della radiazione cosmica di fondo a microonde: le misurazioni del telescopio WMAP e più recentemente quelle di Planck, sul rapporto di densità fra le sue componenti, indicano che l’Energia Oscura costituisce oltre i due terzi dell’Universo. Stima con la quale concordano anche gli studi sulla distribuzione delle strutture a larga scala, principalmente gli ammassi di galassie: secondo indizio della presenza di Energia Oscura. Ma ci sono anche le celebri supernovae di tipo Ia, le candele standard naturali la cui prevedibilità in termini d’emissione luminosa consente agli scienziati di calcolare il rapporto fra il loro “redshift”, ovvero la velocità alla quale si allontanano dalla Terra, e la loro distanza. Un rapporto noto come Costante di Hubble, parametro chiave per lo studio dell’Energia Oscura. Ebbene, ciò che il gruppo di astrofisici guidato da Jian-Min Wang dell’Accademia Cinese delle Scienze, ha scoperto è che, a comportarsi come candele standard, non ci sono solo le supernovae Ia, ma anche una classe particolare di buchi neri. La sigla che li contraddistingue è “SEambh”, acronimo per “Super-Eddington accreting massive black holes”: buchi neri nei quali, spiega lo studio, la quantità di radiazione emessa dal processo di assorbimento del materiale circostante è proporzionale alla massa del buco nero. Poiché i procedimenti per stimare la massa di questi astri neri sono ormai ampiamente collaudati, ciò che Jian-Min Wang e colleghi propongono è di inferire dalla massa la radiazione emessa, confrontandola poi con l’intensità della radiazione che osserviamo per calcolare la distanza del buco nero. Ottenendo così misure indipendenti da quelle derivate dal redshift e, dunque, utili ai fini del calcolo dell’accelerazione dell’espansione dell’Universo. Un metodo, insomma, del tutto analogo e complementare a quello che ha portato alla ribalta le osservazioni delle supernovae Ia, protagoniste del Nobel per la Fisica del 2011. Ci sono poi i “Blazar” che non hanno nulla a che fare con la corazzata spaziale Yamato della saga Star Blazers (www.youtube.com/watch?v=dAsqe33qISU). I blazar sono fra le sorgenti di raggi gamma ad alta energia più luminose. Ma quello individuato dal telescopio spaziale Fermi supera non solo in energia la potenza del “cannone ad onde” della Yamato ma anche ogni altra previsione fantascientifica. Al punto da mettere in crisi gli attuali modelli sulla luce di fondo extragalattica (EBL,“extragalactic background light”). Quella radiazione diffusa che riempie l’Universo, debole ma pervasiva, proveniente da stelle e galassie. Il nome in codice del protagonista è “PKS 1424+240”, un blazar (una galassia che ospita un buco nero supermassiccio estremamente attivo) il cui profilo astrofisico sembra collocarlo a 7,4 miliardi di anni luce dalla Terra, con uno spettro alquanto inusuale. “È una sorgente straordinariamente luminosa, ma non mostra le caratteristiche di emissione tipiche dei blazar più energetici – rivela Amy Furniss, studentessa del Santa Cruz Institute for Particle Physics, prima autrice della ricerca pubblicata su Astrophysical Journal Letters. Ciò che non torna è come sia possibile che i raggi gamma provenienti da una sorgente ad alta energia così distante, possano aver dribblato pressoché indenni la radiazione di fondo extragalattica che dovrebbe assorbirli. Quando un raggio gamma, cioè un fotone ad alta energia, entra in collisione con uno dei fotoni ad energia più bassa del fondo extragalattico, i due si annichiliscono al 100 percento, dando origine a una coppia formata da un elettrone e un positrone: un tipico processo di creazione della materia. Cioè di massa e di energia. Più è lungo il tragitto del raggio gamma, è più diventano alte le possibilità che, incontrando un altro fotone, venga assorbito in questo processo. Questo pone un limite alla distanza massima alla quale una sorgente di raggi gamma altamente energetici può essere osservata. Ebbene, è proprio questo limite che il nuovo blazar sta mettendo a dura prova. “Poter disporre di una sorgente così distante ci permetterà di valutare meglio a quanto ammonta l’assorbimento da parte del fondo, e di mettere alla prova i modelli cosmologici sulla luce di fondo extragalattica” – sostiene David Williams della UC Santa Cruz, uno dei coautori dell’articolo. La soluzione dell’enigma potrebbe essere custodita gelosamente nell’ammontare della luce di fondo extragalattica, molto difficile da quantificare a causa delle tante sorgenti luminose presenti nella nostra Galassia. Ma anche adottando i valori di EBL più bassi disponibili in base ai modelli attuali, lo spettro di PKS 1424+240 continua a non adattarsi a quelli previsti per i blazar. “Può essere che accada qualcosa, nel meccanismo di emissione dei blazar, che proprio non comprendiamo – ammette Williams – certo, spiegazioni più esotiche non mancano, ma questa è una fase forse ancora prematura per azzardare speculazioni”. Dunque la massa, visibile e oscura, è la protagonista della vita nella nostra Galassia ed altrove. Le immagini profonde del Telescopio Spaziale Hubble sono istantanee spaziotemporali incredibilmente importanti per svelare la natura dei processi energetici più violenti che conducono alla nascita di nuove stelle e pianeti dai gas di altri astri e copri celesti distrutti. Non solo. I filamenti cosmici di materia oscura sono effettivamente i “semi” che verranno poi occupati, come i grani di un Rosario, dalla materia visibile nel corso del tempo. La maggiore quantità di materia oscura occupa la periferia delle galassie che un tempo era considerata una zona relativamente tranquilla. È la recente scoperta degli astronomi Nasa ed Esa. Invece le periferie galattiche sono le più sensibili ai processi violenti indotti dalla materia oscura e dalle vicine galassie. Solo per fare un esempio, una galassia come la nostra, la Via Lattea, non è esattamente quel che appare. Fino a 20 volte il suo diametro, desumibile e parzialmente visibile nell’ottico, accade di tutto. Intrecci di materia ed energia oscura sono i protagonisti assoluti dei nuovi processi di formazione stellare con effetti nelle lunghe distanze. Questi fenomeni erano certamente più intesi nel passato. Ma la nuova ricerca ha scoperto che ancora oggi i venti stellari combinati possono generare poderosi ponti di gas che attraversano la Galassia in lungo e in largo, tenendo gravitazionalmente legati gli ammassi-satellite e le galassie nane periferiche. Un team internazionale di astronomi ha osservato 20 galassie interessate da fenomeni di formazione stellare in grado di ionizzare i gas fino a una distanza di 650mila anni luce dal centro galattico. Le dimensioni reali dei sistemi stellari studiati. È la prima osservazione diretta dell’evento che ha un impatto diretto sui gas delle galassie circostanti e importanti conseguenze sulla vita in quei lontani sistemi. È una ricerca molto complessa, ammette Vivienne Wild dell’Università di St. Andrews, perché i gas che circondano le galassie sono molto diffusi. “Ma è importante capire il ruolo che giocano nei processi vitali delle galassie: stiamo esplorando una nuova frontiera nell’evoluzione galattica!”. I risultati della ricerca verranno pubblicati il 1° Maggio su “The Astrophysical Journal”. Grazie al Cosmic Origins Spectrograph (COS), lo strumento accoppiato all’Hubble Space Telescope per analizzare la luce da un campione misto di polveri, gas e galassie, gli scienziati Nasa ed Esa hanno dimostrato che questi lontani inviluppi di materia diffusa altro non sono che le ceneri di incredibili violenti fenomeni cosmici di oggetti molto più distanti come i quasar iperluminosi, alimentati da potenti buchi neri centrali. Questa luce ancestrale ha viaggiato per miliardi di anni, dal nostro punto di vista e in totale rispetto delle equazioni del tempo formulate da Einstein, prima di giungere sulle ottiche dell’Hubble Space Telescope in orbita da 23 anni a circa 600 Km di quota. Come rivela Sanchayeeta Borthakur della Johns Hopkins University, “solo con telescopi spaziali come l’Hubble e spettrometri come il COS possiamo misurare le proprietà di questa luce e di questi gas”. Anche la Via Lattea produce stelle. Una al mese. Ma le galassie più distanti, cioè i sistemi stellari osservati dal Telescopio Spaziale Hubble, lo fanno a ritmi parossitici perché hanno la materia prima per farle nascere: l’idrogeno, unitamente a un’alta concentrazione di materia oscura negli aloni galattici. Il gas viene ionizzato dai violenti venti stellari generati dai massicci astri nascenti che spazzano via qualunque cosa nel raggio di centinaia di anni luce. Tutto questo ha delle serie conseguenze sul futuro di quelle galassie. E sulla nostra che è in rotta di collisione con la grande galassia di Andromeda. Anche se l’impatto avverrà tra soli due miliardi di anni, cominceremo a sentirne gli effetti molto prima. È quello che osserviamo sulle galassie studiate dall’Hubble. Il processo di creazione di materia e di energia si rinnova nell’Universo: il gas si trasforma in stelle che esplodono liberando altro gas e materia radioattiva, fucine di altre stelle e pianeti. Nulla va sprecato. Questi fenomeni sono importanti, ammette Timothy Heckman della Johns Hopkins University, “perché influenzano il ciclo della vita nell’intero Universo”. Quando tutto l’idrogeno si sarà esaurito, addio stelle, addio luce, addio vita! “Quegli inviluppi di gas e galassie che osserviamo sono l’interfaccia tra noi e il resto dell’Universo. E siamo appena agli inizi di quest’affascinante esplorazione per conoscere i processi all’opera ovunque”. L’Hubble Space Telescope è frutto della più longeva e prolifica cooperazione internazionale tra l’ESA e la Nasa. Alla ricerca partecipano gli astronomi: S. Borthakur (Johns Hopkins University, USA), T. Heckman (Johns Hopkins University, USA), D. Strickland (Johns Hopkins University, USA), V. Wild (University of St. Andrews, UK), D. Schiminovich (Columbia University, USA). Basta osservare i campi (ultra)profondi come “Abell 68” per rendersi conto delle potenzialità di telescopi spaziali come l’Hubble e il suo successore, il James Webb Space Telescope che verrà lanciato nel 2018. Massa ed energia. Temi di ricerca degli esperimenti dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn che, in collaborazione con l’Associazione per l’Insegnamento della Fisica (Sezione di L’Aquila), bandiscono per l’anno scolastico 2012-2013 il concorso “Anch’io Scienziato” giunto all’11.ma edizione, riservato agli studenti degli Istituti di ogni ordine e grado d’Abruzzo. All’evento possono partecipare classi, gruppi o singoli studenti con la presentazione di lavori scientifici a tema libero che possono essere, progetti, macchine, immagini, esperienze o risultati di esperimenti, corredati di una relazione in formato dattiloscritto o multimediale e di una bibliografia. Il giudizio della Commissione sui lavori presentati è definitivo e privilegia l’originalità, la forma espressiva e la riproducibilità di un eventuale esperimento scientifico. Per facilitare il lavoro della Commissione esaminatrice i partecipanti dovevano inviare alla Segreteria del concorso la scheda di adesione entro l’8 Aprile 2013 (termine prorogato) utilizzando una delle seguenti modalità: via e-mail all’indirizzo concorso-scienziato@lngs.infn.it oppure via fax al numero 0862-437559 ovvero per posta ordinaria all’indirizzo: Concorso “Anch’io Scienziato” Laboratori Nazionali del Gran Sasso – SS 17 bis, km 18+910 – 67100 Assergi (AQ). I progetti definitivi dovranno essere spediti allo stesso indirizzo entro il 30 Aprile 2013. Ogni singolo progetto non potrà essere presentato da più di 30 alunni. Per ciascun ordine di scuola saranno premiati i primi cinque progetti classificati. La Commissione si riserva la facoltà di non assegnare il premio laddove il progetto non sia ritenuto valido. La proclamazione e la premiazione dei vincitori, preventivamente avvertiti, avverrà nella giornata dell’Open Day 2013 dei Laboratori Infn prevista per la fine del mese di Maggio 2013. I vincitori riceveranno un attestato a testimonianza della loro partecipazione. La Commissione si riserva di assegnare un premio speciale sul tema “Ricicliamo, riutilizziamo,…risparmiamo” e per lavori sperimentali ritenuti originali. I lavori saranno esposti per tutta la durata della manifestazione dell’Open Day e potranno essere restituiti, a chi ne farà richiesta, entro e non oltre i 10 giorni successivi (Segreteria del Concorso: tel. 0862 437265 – fax 0862 437559/218).
Nicola Facciolini
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