Mentre il Pil precipita diminuendo, secondo l’Istat , dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 2,3%, a confronto con il primo trimestre del 2012, con un calo congiunturale che è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto nei comparti dell’industria e dei servizi, cresce il debito pubblico : una montagna di miliardi, con una somma pro-capite di 93.000 euro, che un lavoratore precario impiegherebbe nove anni a mettere da parte, rinunciando anche a mangiare.
E il governo fragile di Enrico Letta, punta a una revisione delle regole sulla previdenza con la “flessibilizzazione” delle possibilità di uscita dal lavoro “in cambio di penalizzazioni” e di assunzione di giovani a tempo pieno, operazione però che forse non è economicamente sostenibile, come ha detto il ministro del Lavoro,Enrico Giovannini, davanti alla commissione omonima del Senato, citando le linee programmatiche del presidente del Consiglio.
Giovannini ha precisato che il governo Letta sta studiando agevolazioni fiscali a favore delle imprese che assumono e se mettere in pratica la così definita staffetta giovani-anziani, che però non lo convince, vista la situazione sociale “non favolosa” di molte persone a reddito fisso che potrebbero non voler essere penalizzati andandosene in pensione, oltre alla necessità di valutare il rapporto fra vantaggi e svantaggi nel caso di eventuali agevolazioni fiscali e contributive per l’assunzione dei giovani.
Certo è che la legge Fornero va rivista, dal momento che, dopo la sua entrata in vigore sono stati interrotti con un licenziamento qualcosa come 640mila rapporti di lavoro, tra licenziamenti individuali e collettivi, una percentuale in aumento dell’11% sul 2011.
Inoltre, per un milione in tutto di licenziati nel 2012 sono stati attivati 10.211.319 rapporti di lavoro, dipendente o di collaborazione, 231mila in meno rispetto a quelli creati nel 2011.
Pertanto, in base a questi numeri, la riforma sembra aver reso più facile licenziare ma non assumere e ancor meno stabilizzare.
A 9 mesi dall’entrata in vigore della riforma, solo il 5% dei cosiddetti lavoratori precari è stato stabilizzato, soltanto il 4% ha strappato un contratto flessibile con maggiori tutele mentre il 49% o ha perso il lavoro (27%) o ha dovuto accettare un contratto peggiore (22%). Altro effetto collaterale della riforma è che i contenziosi sull’articolo 18 hanno raddoppiato il lavoro dei tribunali, senza contare che i nuovi ammortizzatori sociali dovrebbero entrare in vigore solo a partire dal 2017.
Giovannini ha anche detto di voler affidare a un sottosegretario “una forte operazione di semplificazione su aspetti formali, non sostanziali, degli adempimenti burocratici delle imprese su lavoro e previdenza”, segnalando che il costo della burocrazia è stimato in cinque miliardi l’anno ed illustrando le linee guida del suo dicastero, ha citato le “due emergenze” della cassa in deroga e degli esodati, su cui si è impegnato nella “quantificazione precisa,”, cosa che però “nel caso dei salvaguardati non è semplice”.
Si lavora anche ad un “superamento del precariato nella PA, ad un fisco amico nell’ambito dei contributi del lavoro e pensionistici, ad una revisione del welfare, alla staffetta generazionale e a politiche contro la povertà”, ma non si è capito mettendoci quali risorse o togliendole da dove.
Ieri, Alessandra Servidori, Consigliera Nazionale di Parità del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, commentando la Terza Giornata Nazionale della Previdenza “Come le donne italiane costruiscono il loro domani”, che si terrà il 18 maggio dalle 11.30, a Palazzo Mezzanotte in Piazza Affari a Milano, ha detto che: “Una più alta partecipazione delle donne nell’economia italiana avrebbe dei risvolti positivi anche per la tanto ricercata crescita economica. Se l’occupazione femminile in Italia raggiungesse il 60%, il PIL italiano crescerebbe del 7%. Per ogni 100 donne che lavorano, si creano 15 posti di lavoro aggiuntivi nel settore dei servizi” Ed aggiunto: “Come Ministero del Lavoro e consigliere di parità, in collaborazione con tutti i soggetti pubblici e privati, stiamo promuovendo una serie di momenti di informazione e formazione sui territori sulle modifiche normative introdotte dalle recenti riforme, sul raccordo scuola lavoro per orientare alla scelta degli studi verso profili professionali richiesti dal mercato, lavorando così per aumentare la possibilità di incoraggiare l’entrata e la permanenza di sempre più donne nel mercato del lavoro e assicurare anche a loro una vita contributiva che sia equamente riscontrabile nella previdenza alla quale hanno diritto”.
Non ha detto comunque da dove cavare i soldi per tanta crescente occupazione.
Nel settembre 2008, l’Istat ha pubblicato un volumetto che facendo un po’ il verso ad un celebre romanzo di Pavese, pur partendo dal beneaugurante titolo “Conciliare lavoro e famiglia”, diceva che il lavoro stanca tutti, ma soprattutto le donne, che devono conciliare gli impegni tra lavoro a casa e in ufficio, che quindi iniziano prima, finiscono dopo, dormono meno degli uomini e delle altre europee, hanno meno tempo libero. Si sudano la giornata sette giorni su sette, senza staccare mai, neanche al weekend. Nessuna di loro, quanto torna dall’ufficio, si sbatte in poltrona, senza più muovere un dito. Mentre così fa un italiano (maschio) ogni tre. Basta questo per respingere, in linea di principio, l’idea che anche le donne restino al lavoro cinque anni di più, rinviando la pensione agli stessi 65 anni degli uomini, come Brunetta prima e la Fornero hanno proposto.
Ma nel volumetto, si diceva anche che da noi, la situazione della donna nella società, in ufficio, a casa, risulta peggiore in Italia, anche rispetto ad altri paesi maschilisti e mediterranei, come Spagna e Grecia e la politica accompagna questa diseguaglianza in totale sintonia , con l’Italia che è all’ultimo posto, in Europa, anche nei pacchetti di aiuti per i figli, sia in termini di denaro che di servizi offerti, dall’asilo nido al tempo pieno a scuola, con la conseguenza che a pagare questo mix politico-sociale-culturale-economico non sono, solo le donne, ma tutti.
l prossimi 18 e 19 maggio si incontreranno ancora nel centro storico de L’Aquila le donne di “Terre-Mutate”, provenienti da tutta Italia che, come già nel 2011, discuteranno di bellezza, di territori, di corpi, ma anche di diritti violati.
E lo faranno in quattro “stanze” simboliche: la sala da pranzo per le buone pratiche per la Casa delle Donne, lo studio-Biblioteca per riflettere sul dramma della violenza di genere alla ricerca degli spazi nascosti in cui questa si annida, la cucina per riconoscere la presenza delle donne in tutti i luoghi in cui si difendono convivenza civile e ambiente, infine la stanza-giardino, luogo del desiderio che riunisce i progetti, i sogni, le utopie per abitare un mondo più bello, più giusto e meglio occupato.
Nella conferenza successiva al vertice di governo “per fare spogliatoio” all’abbazia di Spineto, il premier Enrico Letta ha voluto placare le polemiche e le voci di divisioni intestine osservando che “Tra noi c’e’ lealtà reciproca”. Tuttavia, chiosa il Wall Strett Journal, anche se le intenzioni sono buone ciò che manca, oltre alla coesione, sono i soldi.
Il Financial Times non ha nascosto un certo scetticismo sulla capacita’ del governo di incidere significativamente sulla spesa pubblica e trovare cosi’ quelle indispensabili risorse con cui finanziare il suo programma e le sue tante promesse presenti nell’agenda dei 100 giorni.
Vengono chiamati in causa nell’articolo vari esponenti del Centro Studi Liberali istituito da Bruno Leoni, come, ad esempio, il cofondadore Alberto Mingardi e Oscar Giannino, i quali sostengono che, a quanto è dato vedere, il premier attuale non pare consapevole della gravità del momento e della necessità di una svolta, né le reali condizioni di un mondo produttivo che s’avvita tra prelievi fiscali crescenti, capitali che mancano e giovani che se ne vanno, una base imponibile che si restringe e che induce – di conseguenza – ad alzare ancor di più la pressione fiscale.
Ma i problemi centrali restano le risorse per rivedere le pensioni e permettere nuove assunzioni, soprattutto fra i giovani, poiché è chiaro a tutti che, altrimenti, per un’intera generazione (e, forse, anche due) le porte del mercato del lavoro resteranno sbarrate.
L’allungamento dell’età pensionabile era indispensabile per contrastare l’impennata dello spread e trovare i 7-8 miliardi di euro necessari per ridare ossigeno ai nostri conti pubblici. Ma ha anche avuto due conseguenze negative: in primo luogo ha creato un esercito di “esodati”, lavoratori che da un giorno all’altro si sono ritrovato senza stipendio e senza pensione. Ma, soprattutto, ha bloccato il ricambio generazionale nelle aziende che sono riuscite a resistere alla crisi. Risultato: nell’ultimo anno i lavoratori over 55 anni sono aumentati di circa 400mila unità. E, il Cnel, stima che nei prossimi cinque-sei anni, per effetto della riforma della previdenza, ci sarà un incremento di oltre un milione e trecentomila posti occupati da lavoratori anziani. Un problema, insomma, che non si può eludere e che va affrontato con misure in grado di coniugare la difesa del sistema previdenziale con la necessità di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani disoccupati. Anche se, a prima vista, mancano le risorse.
A tal proposito, si e’ parlato molto del taglio sul costo delle forniture della pubblica amministrazione, dalle matite alla carte per i ministeri alle siringhe per gli ospedali, che valgono diverse decine di miliardi ed ancora di più si potrebbero recuperare dei soldi ottimizzando i servizi della Difesa, anche se il problema di tagliare il bilancio dedicato alle spese militari e’ che per il 65%-75% viene utilizzato proprio per pagare stipendi e pensioni e tagliarlo incrementerebbe e non diminuirebbe i problemi.
“Il Governo ha detto esplicitamente che intende abolire le Province ma rimane aperto il problema di come organizzare gli enti di area vasta”, ha detto il ministro degli Affari regionali Graziano Delrio, alla commissione per gli Affari costituzionali del Senato ed ha prospettato come soluzione un nuovo federalismo con diversi livelli di Governo e, per le grandi città, le aree metropolitane. Ma c’è già chi parla di un capitolo estremo ed aggiuntivo della lunga ritirata dello Stato dal l territorio, ritirata lenta ma inesorabile, con conseguenze che saranno più tangibili tra qualche anno. Si è cominciato con i tagli agli uffici postali (patrimonio ex statale), che sono stati chiusi in tutte le zone periferiche del Paese, senza tener conto del capitale umano che risiede in quelle terre. Si è continuato con i tagli alle tratte ferroviarie, a spese dei tanti pendolari che ora si devono arrangiare per recarsi al lavoro, ora si è alle prese con il dimezzamento dei tribunali, che se è vero che farà risparmiare chiudendo strutture, porterà a spendere in modo spropositato per le spese gestionali e per i vari accorpamenti. I mezzi pubblici sono al collasso ed in condizioni analoghe la più parte delle iniziative sociali. Sicché, per molti, per risparmiare davvero si Si dovrebbe dare più potere alle Provincie, vero contatto dello Stato con il territorio e i cittadini, senza contare che un enti più piccoli e facilmente controllabili hanno una massa controllabile di spese della politica molto minore che nelle Regioni, diventate loro, oramai, il vero feudo della casta.
Comunque, come scrive il Financial Times, “La via per far cessare l’austerità passa dall’abrogazione del fiscal compact e dalla modifica delle politiche fiscali”, per cui, molto del futuro italiano si deciderà, nel bene e nel male, in Europa.
La Francia non è messa meglio di noi ma ha saputo attuare politiche per i giovani e non rinunciare alla cultura e alla innovazione.
L’ingresso della Francia in zona recessione “non è una sorpresa”: è “largamente dovuto al contesto dell’area euro”, ha detto ieri il ministro dell’economia Pierre Moscovici, che ha assicurato che il Paese manterrà al tempo stesso la previsione di una crescita dello 0,1% nel 2013 e sarà in grado di invertire la curva della disoccupazione entro l’anno.
E nonostante la crisi finanziaria che ha colpito il continente dal 2008 stia riducendo sensibilmente i finanziamenti statali e regionali al cinema e ai budget dei programmi televisivi, pilastro fondamentale dell’industria, non si rinunciano a momenti fondamentali, con Cannes che apre la sua 66° edizione con grande spolvero e completo glamour, perché i francesi sanno che proprio nei momenti di crisi si deve investire e rischiare.
I nostri cugini continuano ancora a investire ingenti finanziamenti pubblici sul cinema ed i risultati sono una vendita all’Estero che fa del settore uno dei più prosperi del Paese.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento