Un gesto estremo, folle, insensato ma che, per quanto non condivisibile, merita il rispetto che la morte pretende.
Dominique Venner, intellettuale di destra, si è ucciso sparandosi in bocca, ieri, nel luogo più sacro di Francia, a Notre Dame, mentre in piazza della Bastiglia stavano finendo di montare il grande palco per la prima festa per il sì ai matrimoni gay.
Lui non ha retto ed ha scritto su Facebook che per fermare questa barbarie occorreva un gesto estremo ed un estremo sacrificio, disperato, assoluto, eclatante.
La Francia è sconvolta e mentre il ministro Valls si è limitato a parlare di un “gesto disperato”, più lunga è stata la reazione di Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, che ha paragonato Venner a Pierre Drieu La Rochelle, che si uccise dopo la caduta del regime di Vichy.
Dopo lo sparo, che ha rimbombato a lungo tra le navate di Notre Dame, i molti giovani allievi di Venner, riuniti sul sagrato, hanno vegliato per ore ai piedi della statua equestre di Carlomagno e noi siamo rimasti angosciati pensando che uccidersi è sempre sbagliato e che è sbagliato definire il matrimonio omosessuale una caduta di civiltà, eppure vi è qualcosa di eoroico, di sinistramente seducente attorno a quel gesto: un’ombra che va rintuzzata nel fondo della nostra coscienza in cerca di eroismi esemplari in una dimensione in cui tutto sembra inutile e stemperato.
Come ci ricorda in un suo ottimo saggio padre Giovanni Cavalcoli, è frequentissimo, nel linguaggio politico o comune, qualificarsi o essere qualificati “di destra” e “di sinistra”. E’ un uso che risale ai parlamenti dell’ottocento, comportanti una parte destra e una parte sinistra ed eredi del clima del tempo, posteriore alla Rivoluzione francese, nel quale la società politica e la stessa cultura ed il mondo cattolico vennero a trovarsi divisi a volte in modo aspro tra una tendenza (la “sinistra”) che si voleva erede degli ideali rivoluzionari e repubblicani di progresso, libertà e democrazia (il liberalismo); ed una tendenza opposta (la “destra”), desiderosa di riparare ai danni morali e religiosi provocati dalla Rivoluzione, frutto del razionalismo illuminista, e quindi di ripristinare i valori tradizionali (da cui “tradizionalismo”) ad essa precedenti e di conservare (da cui “conservatori”) o restaurare (da cui il termine “restaurazione”) una società gerarchizzata ed ordinata (possibilmente monarchica), reagendo (da cui il termine “reazionario”) alle innovazioni giudicate rivoluzionarie (“controrivoluzione”) e distruttive della civiltà, intesa soprattutto come civiltà cristiana europea.
Ed è opinione corrente che l’intellettuale, colui che ha a cuore la conoscenza, non possa essere che di sinistra, commettendo con ciò un errore madornale e grossolano.
Dopo quelli Russi del XIX secolo, quando si coniò il termine intellighenzia, comprentendovi il ceto intellettuale che, critico del regime zarista, rivendicava i valori democraticie riformisti, il termine intellectuels si ritrova in Francia ad opera di Clemenceau e Émile Zola, che lo adoperano per designare i sostenitori dell’innocenza di Alfred Dreyfus e, da quel momento, il concetto connotò un acceso dibattito politico sulla funzione progressiste degli intellettuali nella società.
Ci si dimentica, però, di Raymond Aron che con il suo L’oppio degli intellettuali del 1955 è fortemente critico rispetto a questo intelletualismo engage o organisco (come direbbe Gramsci), ricordandoci che, come aveva sostenuto Kant, l’intellettuale deve riternesi assolutamente libero nell’esporre le proprie convinzioni e il proprio pensiero anche critico nei confronti delle istituzioni o dei partiti o delle ideologie dominanti.
A partire dagli anni settanta, poi, sia in Francia che in Italia, vi è stato un forte sviluppo di un radicalismo intellettuale di destra, con almeno una differenza evidente fra le esperienze della Nouvelle Droite e della Nuova Destra, legata all’ambiente di estrema destra all’interno del quale entrambe presero originariamente vita, ambiente naturalmente, e necessariamente, segnato da processi e da dinamiche tipicamente nazionali. In Italia fu sempre presente, fra i ragazzi delle sezioni giovanili del MSI, all’interno delle quali cominciarono a manifestarsi i primi fermenti “non conformisti”, la sensazione di vivere in un angolo politico del tutto isolato e marginalizzato dal resto del paese. Era la percezione di un’esclusione ideologica perfettamente riassunta nell’immagine del “ghetto”. Meno ghettizzato il ruolo dell’intellettuale di destra in Francia, espresso e rappresentato da una rivista di larga considerazione come la Nouvelle École, che rilegge in chiave conservatrice Bertrand Russel e il Circolo di Vienna (Wiener Kreis) e ancora il l positivismo logico e che scopre Heidegger ma anche il biologo Jacques Monod, autore de Le hasard et la nécessité, ma anche il Premio Nobel Konrad Lorenz, svillupando un pensiero composito anche se controverso e certamente di maggior spessore di quanto non sia avvenuto altrove. In questo modo, ad esempio, a partire dalla fine degli anni ’70, la destra intellettuale francese (e meno quella italiana), comprende che l’uomo è incontestabilmente un animale, non è solamente un animale, si dichiara pubblicamente “antirazzista” e prende posizione contro tutta la teoria che ricondurrebbe meccanicamente la vita sociale alla “natura”, criticando aspramente la sociobiologia e il darwinismo sociale (la cui parentela ideologica con il liberalismo appare sempre più evidente).
Grazie alla destra francese quella italiana scopre Julius Evola e legge René Guénon, ma riuscendo a superare il loro disprezzo élitario del popolo e la loro “mistica” del capo, l’odio per tutto quello che è femminile e l’ odio del “sociale” e delle comunità, il loro gusto per l’esoterismo, l’ anticomunismo di principio, i loro scritti sugli Ebrei e i Franco-massoni, la loro critica ridicola di Heidegger, la loro concezione rigida dei “cicli” storici, le sloro idee metafisiche, il loro “impolitismo”, la antidemocrazia ingenua, ecc.
Ma, evidentemente, non in mabniera assoluta e capillare come uil gesto di Venner contro il matrimonio gay sembra dimostrare.
E assistiamo in queste stesse ore ad un altro suicidio, lento ma non meno eclatante, non fatto di colpi di pistola davanti ad un altasre, ma da un ennessimo errore politico che funziona da assist per altri.
Ogni volta che i 5 stelle si trovano in difficoltà arrivano i democratici a tirarli su, scrivono Il Fatto Quotidiano e Candido, mentre Renzi ricorda ai suoi che non ritirare la proposta di Zanda e Finocchiaro significa far crescere Grillo, che nell’arena del perseguitato gioca benissimo.
Sul disegno di legge a firma Finocchiaro-Zanda, che impedirebbe ai movimenti senza personalità giuridica e senza statuto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di partecipare alle elezioni, c’è sempre più confusione, anche all’interno del Pd. Dopo le proteste contro il Partito democratico, accusato di aver presentato un ddl ‘anti-Grillo’, il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, cofirmatario del testo, aveva lasciato intendere di essere disposto a fare un passo indietro, nonostante giudicasse le polemiche assolutamente strumentali.
Ma poi, ieri, ci ha ripensato, deciso ad andare avanti, nonostante gli ammonimenti di Renzii ed altri che dicono: così si fa il gioco di Grillo ed anche quello di Berlusconi.
Il ddl è presentato in contemporanea con quello sulla ineleggibilità del Cavaliere e questo, su Rete 4 e Italia 1, commenta: “Negli ultimi giorni, sono venute fuori ipotesi abbastanza divertenti. Mi sembra che qualcuno abbia portato avanti ipotesi di ineleggibilità del sottoscritto dopo vent’anni e i voti di milioni di elettori italiani e dopo che tanti parlamenti hanno sempre approvato la mia eleggibilità e dall’altra parte addirittura la ineleggibilità o incandidabilità del Movimento 5 Stelle, votato da milioni di italiani”. “Questo qualcuno – ha aggiunto – devo dire che è un genio, perché eliminando Berlusconi e il Popolo della libertà e Grillo col Movimento Cinque Stelle il Partito democratico correrebbe da solo. Mi domando dove e perché l’hanno tenuto nascosto fino ad adesso”.
E’ infuriato Enrico Rossi, capo del Pd in Toscana, che a Otto e Mezzo dice che è ora che il Pd lo smetta di prendere schiaffi e non reagire, di puntare i piedi e di replicare a Berlusconi che, o condivide le scelte e le impostazioni e le regole, oppure se ne vada al governo da sola o con Grillo.
Ma, naturalmente è solo il moto stizzito di una che vede il partito precipitare in un gorgo suicida che si è costruito da solo, prima e dopo Bersani, con lo scivolone del non voto per Rodotà, aggravato dallaaffosssamento di Prodi, tanto cheCofferati che lo ha definito un partito con “un difetto di fabbricazione” ed Ochetto, che quel partito in fondo ha fondato, ha chiosato: “la patologia sta rapidamente mutando e da autolisionismo, diviene propensione al suicidio”.
Dopo essere riusciti a perdere l’opportunità di governare, subendo il diktat di Napolitano e dei mercati e aprendo la porta alla tragedia del governo Monti, il PD era riuscito a perdere anche elezioni che potevano esser vinte e, infine, da maggioranza possibile è riuscito a diventare minoranza frastagliata. Franchi tiratori e imperizia politica, confusione tattica e assenza di un disegno strategico, sono stati il combinato disposto di tutti i limiti strutturali di un partito senza identità e ricco di ambiziosi, aspiranti leader.
La resurrezione dei vizi peggiori è stata evidente: il correntismo all’interno e la disponibilità all’inciucio all’esterno, si sono dispiegati senza nemmeno la capacità di ascoltare quanto si urla da fuori. Non solo dalla volontà popolare che dalle urne spinge fortemente verso il cambiamento, ma persino verso la sua base militante, che pure veniva accreditata di grande peso all’indomani delle primarie che avevano scelto Bersani.
L’atto finale di un partito allo stremo è stato il non votare per Rodotà, che avrebbe significato inviare un messaggio forte di autocritica e di utile, per quanto tardiva, comprensione di quanto l’Italia del lavoro e dei diritti si attende da chi dovrebbe rappresentarli. Rodotà sarebbe la scelta giusta se solo si volesse indicare per i prossimi sette anni una guida giuridica e politica fedele alla Carta Costituzionale, indisponibile a forzature e sovrapposizioni tra Costituzione e riforma strisciante della stessa, in una Nazione che si dibatte fra disoccupazione, impoverimento e rabbia crescente.
Se è vero il detto di Gramsci, certamente abbiamo avuto un buon Partico Comunista avendo avuto il peggio Partito Socialista d?europa, che dire adesso che Grillo cresce e Berlusconi, di fatto, continua a governare?
Carlo Di Stanislao
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