Sorrentino non c’è l’ha fatta, ma lo stesso “La grande bellezza” è stato fra i film più applauditi e ammirati della 66° edizione del Festival di Cannnes, più di Soderbergh e di Refn, anche se meno di “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche, Palma D’Oro e di “Inside Llewyn Davis” dei fratelli Coen, Premio Sopeciale della Giuria, che ha anche premiato, come attori, Brucer Dern per “Nebraska” di Payne e Bérenice Bejio per “Le Passè” di Asghar Farhadi.
Ci consoliamo pensando alla Menzione Speciale della Giuria Ecumenica a “Miele” della Golino (ex aequo con “Soshite Ci Chi Ni Naru” d Koore-Eda Hirazuki) e alla vittoria al Grand Prix e al Prix Rivelation France 4 della Semaine de La Critique, di “Salvo”, docufilm firmato da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, forse la sorpresa più notevole del palmeres, assieme al Premio alla Regia per il messicano Amat Escalante, autore di Heli.
In un Festival che premia film che mostrano l’incertezza del mondo (crisi economica in occidente e conflitti senza fine nel resto “povero” del globo), con la palma principale ad un film sessualmente esplicito e incentrato sulle differenze negate, interrotte, difficili da vivere e quella “speciale” all’iraniano Asghar Farhadi, che ci dice in che modo si può assumere le proprie responsabilità per gli errori del passato, raccontandoci la vita quotidiana di una famiglia ricomposta, dove i segreti di ciascuno e la complessità delle relazioni si rivelano a poco a poco, basandosi sul concetto che solo la verità ci farà liberi; non tanto il premio a “Miele”, quanto quello a “Salvo” dei due esordienti registi siciliani Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, in concorso alla Settimana della Critica, dove l’Italia mancava da sette anni, che racconta il sottobosco della mafia a fatta di galoppini spietati, invisibili, pericolosi e senza scrupoli,che uccidono con una freddezza inimmaginabile; diventa emblematico e significativo.
Forse ancor più de “La grande bellezza” di Sorrentino, dotto, sontuoso, complesso , dove Roma è metafora dell’Italia tutta, paese logoro e decadente, popolato di nobili e squattrinati, nani, ballerine, santi, prelati, prostitute, cocainomani, dove il protagonista si interroga sulla vita che passa, sulla vecchiaia, sul cupio dissolvi, la noia, l’inconcludenza di un mondo popolato di ricchi e viziati, o presunti tali e tuttavia profondamente infelici.
Film grande, autentico capolavoro certamente, ambizioso e volutamente imperfetto, misterioso, affascinante nella sua visionarietà, ma troppo intellettuale, ricercato e letterario, potente, complesso, forse troppo in anticipo sui tempi, anche rispetto ad un Festival “avanti” come Cannes.
Sorrentino descrive una realtà decrepita e lo fa in modo visionario, ma non sureale se si guarda a quando accade sotto i nostri occhi, con l’ex ministro Nicola Mancino, che prima dell’inizio dell’udienza sulla trattativa Stato-mafia, che ha preso il via questa mattina a Palermo e in cui è imputato di falsa testimonianza, dichiara: “io ho sempre combattutto contro la mafia e non posso stare nello stesso processo in cui c’è la mafia” e chiede, indignato, “uno stralcio”.
Una Nazione nella quale proprio nel giorno del ventesimo anniversario della strage di via dei Georgofili a Firenze, avvenuta il 27 maggio del 1993 e che fu l’ennessimo messaggio di Cosa nostra alla politica, a oltre mille km di distanza, prende il via, nell’aula bunker del carcere palermitano di Pagliarelli, davanti ai giudici della corte d’assise, il processo sulla trattativa tra Stato e mafia, con, sul banco degli imputati, proprio lo Stato, assieme con Cosa nostra: i capimafia Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, ma anche l’ex senatore Marcello Dell’Utri, l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino, gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il pentito di mafia Giovanni Brusca e il collaborante Massimo Ciancimino, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre Mancino, ex Ministro degli Interni, deve rispondere di falsa testimonianza.
Al centro del processo le telefonate tra l’ex consigliere giuridico del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio, morto la scorsa estate, e l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino, colloqui iniziati il 25 novembre del 2011 e proseguiti fino al 5 aprile del 2012, tutti intercettati dalla Procura di Palermo, che vuole chiamare a testimoniare pesino il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Surreale Italia, con la sua storia, la società, le ombre numerse che si affastellano negli angoli bui della sua coscienza di Paese alla ricerca di una trasperanza che non arriva, mentre aumentano i disagi, le sperequazioni, le fratture fra le componenti della comunità, sempre più esposta, tentennante ed insicura.
Torna alla regia dopo 25 anni in questa Italia (“Ternosecco”, il suo primo film come regista è del 1987), Giancarlo Giannini, e lo fa con un thriller girato in lingua inglese, ma ambientato in Canada, fuori dall’Italia per parlare però di questa, delle sue atmosfere lugubri e violente, in cui nulla è come appare e nessuno può dirsi immacolato.
“Ti ho cercato in tutti i necrologi” ha per protagonista Nikita (lo stesso Giannini), uomo che, una sera, si ritrova coinvolto in una partita a poker in una sperduta villa fuori Toronto e per poter estinguere il suo debito di gioco, accetta di partecipare ad una caccia all’uomo in cui venti minuti separano lui dai creditori che, con i fucili in mano, avranno quel lasso di tempo per stanarlo ed ucciderlo, mentre se riuscirà a salvarsi estinguerà il suo debito. Sopravvissuto, Nikita entra in una nuova intima dimensione dove il terrore e la follia si insinueranno lentamente e misteriosamente, a tal punto da non riuscire a desistere dal desiderio di essere “cacciato”.
Interpretato anche da F. Murray Abraham, Silvia De Santis, Jeffrey R. Smith, Jonathan Malen e Jeffrey Knight, il film uscirà nei cinema il 30 maggio, distribuito da Bolero Film e, pare, si gioverà di un ritmo intenso con grande lavoro su sonoro e montaggio, che evocano un capolavoro di John Woo: “Senza tregua”.
Più scaltro di Sorrentino Giannini, che si rifà a stereotipi internazionali e di successo, per non rischiare di non essere compreso e presentarsi agguerrito anche sul mercato internazionale.
La prima del film a Torino, al cinema Massimo, nella città in cui sono state girate le uniche scene italiane e soprattutto in quella delle onoranze funebri “Giubileo” che è (non si tratta di uno scherzo) fra gli sponsor più cospiqui del film.
Presentandolo con la protagonista Silvia De Santis, Giannini ha detto di aver già scelto la sua bara: di pino marittimo, come quella di Giovanni Paolo II e, naturalmente, targata “Giubileo”; un modo davvero macrabo di sostenere uno sponsor, ma forse l’unico, in una nazione ormai cimiteriale.
“Mafiosi convertitevi,contro di voi don Puglisi ha vinto”, ha ammonito Papa Bergoglio riecheggiando l’anatema lanciato ai boss da Wojtyla vent’anni fa, in occassione dell’anniversario della morte del coraggioso prete di Brancaccio, mostrando ancora una volta la sua propensione ad orientare la Chiesa verso le periferie del mondo, per farle presenti alla coscienza di tutti.
Da domenica Don Puglisi, il primo martire della mafia, è betato e in 80.000 lo applaudo a Palermo, col cardinale Paolo Romeo, che dice che è stato ucciso ‘in odium fidei’, in odio a quella fede in Cristo, che è amore e che promuove l’uomo, all’opposto di quello che invece cosa nostra vuole.
E’ impressionante il colpo d’occhio davanti all’altare al Foro Italico, con le spalle al golfo di Palermo illuminato da un sole caldo, affiancato da una gigantografia di un don Puglisi con il suo sorriso di sempre, dai 45 vescovi e dagli 800 sacerdoti che concelebrano il rito, cui fanno corona migliaia di fedeli.
Ma lo spirito di ‘3P’, come veniva chiamato Padre Pino Puglisi, pare distante e lontano, con un sorriso incupito da ingiustizie continue e continue dimenticanze verso quegli umili cheha sempre difeso e protetto.
“Pino lo avrei preferito vivo piuttosto che santo”, ha detto il frattello ed una sferzata di gelo si è abbattuto sul cuore di tutti i presenti, queli che oggi dichiarano, plaudono e festeggiano, ma che Pino hanno lasciato solo, come accaduto tante volte in Sicilia e in altri luioghi di questo strano e straziante Paese.
Un paese senza speranze per i giovani e senza accoglienza per gli stranieri, un Paese descrito senza alcuna pietà in “Mare chiuso” di Stefano Liberti e Andrea Segre, in cui la gente umike è senza diritti e senza vie d’uscita, in cui la costituzione è continuamente negata e la politica si riempie solo di belle parole.
Dice Mc Luhan: “La fotografia è una forma di automazione capace di eliminare i procedimenti sintattici della penna e della matita”. E prima: “Con la fotografia gli uomini hanno scoperto il modo di presentare rapporti visivi senza una sintassi”. Poi cita Joyce, che chiama la fotografia “scrittura automatica”.
Quindi, secondo tale visione, l’errore di Sorrebntino è di aver introdotto una sintassi, un pensiero, dentro la semplice fotogrtafia che, invece, doveva crudamente rappresentare la realtà di una Nazione che fa acqua da tutte le parti.
Ma il merito (o demerito se si vuole) di Sorrentino, è di aver concerpito e realizzato un film che, come il corpus fotografico di Eriberto Guidi , si presta senza mezzi termini alla messa in discussione delle tesi mcluhaniane, con una storia ed una realizzazione dal vago sapore pitagorico, con una eterna ed inutile lotta fra il pari e il dispari, fra il femminile e il maschile, che si traduce nel contrasto fra cromatismi opposti, con l’occlusione determinata della infinita variertà di grigi, nella cocciuta, inesauribile convinzione che il messaggio non debba finire con l’identificari o soccombere al medium, ma il narratore è come il poeta dei Fio”ri del male”, con la stessa fofania naturale dissimulatta di metafore surreali, che crea l’incontro con l’ “insieme non visivo di relazioni”, che fa trapelare, dall’informe caos dei segni, un discorso coerente sulle radici strutturali della materia osservata e amaramente criticata.
Così, guardando Sorrentino con sguardo attento, si accorgiamo che la nostra democrazia è in pericolo, non a causa di un regime autoritario, non per un tiranno che tenta di usurpare il potere della Repubblica, bensì per una lenta, progressiva, insorgente forma di cultura della non cultura, di appiattimento della proprietà di riflessione contro un nulla su cui riflettere, una “tecnica del kapò”, contro cui occorrerrebbe fare molta attenzione, perché è la maniera più subdola con la quale il tiranno riesce a sviluppare delle contrapposizioni fra i suoi sudditi, perché è in grado di dividere, separare, contrapporre, delegando un nulla per non risolvere nulla, per mantenere i motivi che ci portano sempre a rivolgerci al lui e chiedergli di essere aiutati, dolcemente, dominati dai sorrisi che nascondono sopprusi.
Carlo Di Stanislao
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