Prima delle sollecitazione dell’Europa, che certamente sospenderà la procedura di limitazione delle spese per l’Italia, ma anche ci dirà di essere più dinamici quanto a occupazione e lavoro, la Corte dei Conti, presentando per bocca del presidente Luigi Giampaolino il rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica, ci dice che dobbiamo trovare stimoli per crescere di più e che, in Italia, nel periodo 2009-2013, “la mancata crescita nominale del Pil ha superato i 230 miliardi” ed il consuntivo di legislatura “ha mancato il conseguimento del programmato pareggio di bilancio per 50 miliardi”.
Il supremo organismo economico individua nella riduzione della pressione fiscale l’obiettivo da raggiungere, un obiettivo certo “non facile da coniugare con il rispetto degli obiettivi europei”, ma che potrebbe essere più facilmente percorso “con una scelta volta ad aumentare l’equità distributiva del prelievo” ed aggiunto, in tema, di agevolazioni, che è una “illusione” pensare di trovare dei fondi da una razionalizzazione per un’eventuale riduzione d’imposta”.
Il Tesoro ha venduto tutti i 2,5 miliardi di euro di buoni con scadenza dicembre 2014 e con tassi in calo al minimo storico dell’1,113%, dall’1,167% dell’asta precedente. La domanda è stata pari a 1,57 volte l’importo offerto ec sono stati assegnati anche 987 milioni di euro di Btp a 5 anni indicizzati all’inflazione ad un tasso dell’1,83%.
Di più, in questo ambito, non si poteva sperare. “l’Italia presenta un andamento corrente della propria finanza pubblica nettamente migliore rispetto ai paesi in crisi e anche rispetto alle altre grandi economie europee, ma la situazione cambia allorchè si guardi all’altro parametro di Maastricht, il rapporto fra debito e prodotto: un indicatore che colloca l’Italia tra i paesi che stanno peggio, Spagna inclusa”.
Come ha chiesto anche il presidente di Confindustria Squinzi, Gianpaolino ha raccomandato di trovare il modo di pagare i vari miliardi di debito accumulati dalla pubblica amministrazione, non solo per dare respiro agli imprenditori, ma anche per correggere un comportamento amministrativo la cui devianza patologica non trova riscontro in altri Paesi europei, “con tempi di pagamento che hanno superato in Italia, mediamente, i 180 giorni, a fronte dei 65 giorni della media europea”.
Anche oggi Squinzi, a proposito di risorse da liberare per la crescita, è tornato a chiedere il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione con le imprese. “Siamo in una situazione precisa e specifica di credit crunch, per alleviare le imprese la prima cosa che si dovrebbe fare è che la pubblica amministrazione metta mano al portafogli e paghi i propri debiti”.
Ed aggiunto che, secondo lui, c’è da mettere mano alla riforma della tassazione che è stata una delle grandi mancanze del governo Monti. “L’Italia si sta battendo contro un sistema fiscale iniquo e imprevedibile: serve un fisco amico del cittadino e dell’impresa, che non vuol dire lasciare campo libero al sommerso e all’evasione”. “Sistema fiscale iniquo a partire dall’Irap, che non permette il rilancio del settore manifatturiero – argomenta il presidente degli industriali -. Imprevedibile perché quello che va bene a Varese può non andare bene a Brescia: gli uffici sono giudicati sugli accertamenti che fanno, spesso non fondati”.
Con ogni probabilità, come abbiamo già detto, domani si chiuderà ufficialmente la procedura per deficit eccessivo aperta dal 2009, con il ritorno dell’Italia tra i Paesi ‘virtuosi’ e, prima con una lettera al presidente Ue Herman Van Rompuy, e poi in un vertice con Alfano e Saccomanni, il premier Enrico Letta ha già riaffermato l’esigenza di ammorbidire il rigore per chi, come l’Italia, ha risanato i bilanci come richiesto da Bruxelles ed ora ha bisogno dell’appoggio dell’Europa per trovare le risorse necessarie ad affrontare l’emergenza lavoro e a sbloccare la crescita.
E se l’Europa non risponderà, per Letta si condanna da sola a uno tsunami di antieuropeismo. Le risorse necessarie dovranno venire anche “dai bilanci nazionali”, scrive il premier, che propone anche di usare subito i sei miliardi stanziati dalla Ue, perché le casse dello stato sono vuote e dopo aver applicato per due anni una cura di rigore, l’Italia, sostenuta da Francia e Spagna, vorrebbe vedere il sostegno dell’Europa quantomeno sull’emergenza disoccupazione. Ma anche se Bruxelles dovesse spegnere i riflettori sul deficit italiano, questo non sbloccherebbe automaticamente nuove risorse: quello che cambierebbe da domani, sono le “macrocondizionalità economiche”, cioè la possibilità di accedere a risorse senza vincoli: non essendo più sorvegliati speciali, non dovremo più contrattare con Bruxelles ogni provvedimento che ha un impatto sui conti. Questo sbloccherebbe, ad esempio, tutti i pagamenti della pubblica amministrazione ed avremmo un margine di manovra di circa 0,1-0,2% di pil, ma per utilizzarlo in libertà, dovremo chiedere l’applicazione della ‘golden rule’, cioè la possibilità di scorporare gli investimenti produttivi dal computo del deficit.
I soldi veri, hanno detto sia Letta che il suo ministro economico Saccomanni, arriveranno solo nel 2014, ma intanto queste operazioni potrebbero garantire ossigeno per la sopravvivenza.
Secondo quanto riferito da alcuni presenti all’incontro Stato-Regioni a palazzo Chigi, durante il quale il presidente del Consiglio ha auspicato un dialogo “costante, proficuo e duraturo”, ha consento a Letta, ora più sereno per l’atteggiamento europeo ed anche per il risultato del voto interno che sembra premiare il governo, di illustrare le misure concrete per la lotta alla disoccupazione giovanile al Consiglio europeo di giugno e quelle per la lotta alla disoccupazione a dicembre, partendo dalla affermazione che “di sola austerità si va a sbattere”.
Letta ha fatto capire che prima delle elezioni in Germania a dicembre non cui saranno iniziative sulla occupazione perché il partito della Merckel potrebbe ricevere duri contraccolpi. Ma ha anche auspicato un via libera politico al piano di occupazione giovanile, lo ‘Youth Guarantee’, del valore di circa 6 miliardi per tutti i Paesi Ue.
Save the Children, la onlus impegnata a livello internazionale nella tutela dei bambini., in queste settimane, fino al 5 giugno, sta portando avanti una campagna dal titolo molto esplicito: “Allarme Infanzia”, con la pubblicazione di un dossier intitolato in modo altrettanto palese: “L’isola che non sarà”, in cui si dice che ai giovani, a partire dalla’infanzia, abbiamo rubato il futuro ed occore presto invertire la rotta.
L’Italia è agli ultimi posti in Europa circa la tutela di giovani e infanzia, seguita solo da Grecia e Bulgaria, con una diffusa”povertà di futuro” di bambini e adolescenti, deprivati di opportunità, prospettive e competenze. Il nostro paese è sette volte in fondo alla lista nell’Europa dei 27 sugli indicatori principali relativi all’infanzia, con il 25% di adolescenti che pensa che il proprio futuro sarà più difficile rispetto a quello dei propri genitori e un ragazzo su quattro (il 23%) che spera di andare all’estero per assicurarsi un’opportunità e l’80% che dichiara di aver fatto delle rinunce causa crisi.
Vi è poi un aumento delle disuguaglianze per l’accesso all’università: il 30% dei genitori non ce la fa a pagare la retta e per il 41% gli aiuti economici diretti alle famiglia dovrebbero essere la più urgente misura anti-crisi del governo.
Insomma un vero e proprio furto di futuro in corso ai danni di giovani, con le quattro principali e più pesanti ruberie rappresentate dal taglio dei fondi per minori e famiglia (con l’Italia al diciottesimo posto in Europa per spesa per l’infanzia e famiglia, pari all’1,1% del Pil); la mancanza di risorse indispensabili per una vita dignitosa, dunque il “furto” di cibo, vestiti, vacanze, sport, libri, mensa e rette scolastiche e universitarie (quasi il 29% di bambini sotto i 6 anni, pari a 950.000 unità, vive ai limiti della povertà, e il 23,7% vive in stato di deprivazione materiale) ed infine il furto d’istruzione, con il Paese che è al ventiduesimo posto in Europa per giovani in base al livello d’istruzione e all’ultimo posto per il tasso di laureati.
Infine, ci dice il dossier, allarmante è la povertà culturale che appare dilagante, con il 12% dei che dichiara che i propri figli non sono interessati alla lettura e che solo il 29 va ogni tanto al cinema.
Molte volte negli ultimi tempi e da varie direzioni, si è ricordato che crescita senza cultura, ricerca, innovazione, equivale a offrire ai nostri giovani un futuro da consumatori senza prospettive.
Un documento fra i meno conosciuti, varato dalla Ue a luglio 2012, intitolato Europa Creativa 2014-2020 – prevede per questo periodo investimenti per un valore di 1,7 miliardi di euro – partendo dall’idea che il settore culturale “rappresenta un formidabile deposito di speranze, idee e nuove prospettive di crescita economica”, affermando che è necessario “creare ponti solidi e stabili tra la comunità artistica, le industrie creative e altri settori come l’educazione, il mondo degli affari, la produzione e la ricerca, ma anche la politica estera e lo sviluppo economico”.
Ma naturalmente, a parte l’investimento insufficiente, l’Italia non ha richiesto, in quasi un anno, neanche un euro.
E se è vero che la cultura non è una questione di soldi è altrettanto vero che può muoverli quei soldi in una direzione piuttosto che un’altra. Infatti, contrariamente al’idea molto rozza e scolastica di economia che ha la cultura tedesca, altre cultura hanno partorito modelli in cui in caso di crisi è proprio su formqazioni e giovani che si deve investire.
Ma probabilmente le mie sono fatue parole, vox clamantis in deserto, perché, come notava Giuseppe Franci su Suddidiario.net, la cultura non è più un fatto che sappia stabilire nessi stringenti con la vita. Non riesce più ad esser un fatto di popolo, come lo era stata in tanti periodi della nostra storia. Forse perché il popolo non c’è più, o forse perché non lo si sa più ascoltare.
Molti anni fa, ma non meno gravosi di questi sotto il profilo economico, Enrica Pagella, direttrice di palazzo Madama, splendido museo comunale di Torino, da cui ci si poteva aspettare la legittima geremiade sulla mancanza di mezzi e di risorse, disse invece che è compito dei funzionari pubblici adibiti alla cultura e dei governi è quello di “farsi attraversare dalla domanda del pubblico”, sapendola comprendere ed indirizzare, perché la cultura rende liberi e migliori e non solo come uomini, ma anche come cittadini e lavoratori.
Si prenda l’esempio dei nostri padri, resi migliori, dal dopoguerra al cosidetto boom, dai film di Rossellini, De Sica, Pasolini e Fellini, uomini di cultura che sapevano migliorare le attese della gente, che sapevano parlare a tutti, senza far sconti sulla qualità e sull’”altezza” dei loro lavori e costringendo tutti ad elevarsi per capirlio fino in fondo, quando troppo complessi erano gli scritti di Pavese, Levi o Fenoglio e troppo dotte le “lettere” di Gramsci o le “teorie” di Bobbio.
Carlo Di Stanislao
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