“La grande bellezza” è una sceneggiatura scritta con la stessa verve e fantasia che Sorrentino aveva dimostrato nel suo primo romanzo, “Hanno tutti ragione”, presente anche nella sceneggiatura di “This Must Be the Place”, scritta a quattro mani, anche in quel caso, col padovano (classe 1958) Umberto Contarello, David di Donatello come migliore partitura nel 2012.
L’armosfera è la stessa del film, crepuscolare e melanconica, con sullo sfondo Roma, di una bellezza incantevole e tragica, attraversata da personoggi che passano da una festa all’altra, da un vuoto al’altro e sognano di svegiarsi, al mattino e per incanto, puri come gigli (come ebbe a dire di Truman Capoti la sua amica scrittrice Haper Lee).
L’inizio è identico al film, con finale diverso e una mezza dozzina di scene, alcune struggenti e bellissime, non portate in pellicola: la morte di Ramona, le frecce tricolori nel cielo della Capitale, l’addio notturno e tristissimo di Romano alla “ragazza esangue”, la conversazione fra Orietta e Claudio Lippi, mentre il protagonista guarda da lontano.
Si chiedeva tempo fa su una rivista letteraria Mauro Covacich: “Com’è possibile dar corpo all’anima? Com’è possibile assemblare pezzi di cadavere e cavarne fuori la vita? Com’è possibile un essere umano partorito dalla scienza, prima della biogenetica, prima della clonazione? Com’è possibile un mostro per troppa bontà? Tutte domante sul capolavoro di Mary Shilley ma che si attagliano a Jep Gambardella, artista sensibile e dotato, che ha dissipato, in una vita di vuoto mondano, il suo talento e la sua sensibilità e prosegue con le parole ed i modi della Wollstonecraft Godwin (attraversati da Proust e Flaubert), che lo rendono simile a Frankestein, che vede, a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta, la “cosa” che ha messo insieme, fatta di brandelli di sensibilità e di bellezza, cuciti fra orrende brutture ed imperfezioni.
Il libro-racconto ancor più del film, richiama Flaubert, con un prortagonista che a vent’anni ha scritto un unico libro di grande successo (La fabbrica umana), che è poi diventato il dominus della vita mondana della capitale, colui che decreta la fortuna o il fallimento di una festa alla quale partecipa un variopinto campionario di vip di ogni età e classe sociale, accomunati solo dalla voglia di ballare, di esibirsi e di esibire una diffusa amoralità e una totale incultura.
E se il film ricorda le astrattezze soggettive di Fellini e di Terence Malick, il libro, scritto come detto con Umberto Contarello (quello della sceneggiatura de “La lingua del santo”, “Ovunque sei”, Marrakesch Express”, “Vesna va veloce”, “This Must Be the Place”, “Io e te”, ecc.), è la dolente confessione di un uomo che potrebbe dire di aver ballato sui bordi del vuoto, di aver intravisto “la grande bellezza”, il senso della vita, magari nei suoi ritorni a casa dalle feste, all’alba, quando la città eterna si sveglia, e di non averla né rappresentata né descritta.
Dopo gli applausi di Cannes, il film è stato ben accolto in Italia con 2 milioni 300mila euro di incassi (2.262.228, nel weekend 1.887.7739), conquistando così il secondo posto del box office.
Io spero che altrettanti comprino il libro che, invece di piani sequenza mimetici e sinuosi come le spire di un boa, dei primi piani incredibili ed intensi, usa sensazioni e parole, accurate, per stanare la mostruosità del quotidiano e l’ambiguità della bellezza, all’interno di una società entrata ormai in un vicolo cieco di cinismo e di vuoto.
Se il film è una via di mezzo (ma originale e nuova), fra Fellini e Antonioni, “un’esperienza emotiva inedita”, come ha scritto Walter Veltroni sul Messaggero, lo è ancor di più (io credo), il libro: che si aggira, una botta e via, tra terrazze, performance, spogliarelliste piene di umanità, cardinali senza fede e sante ieratiche che hanno “sposato la povertà” e comunicano con i fenitoccheri. Fra intellettuali falliti e alla deriva, chirurghi plastici trattati come guru, principesse decadute e femministe con vite disastrose.
E mentre la Roma descritta, con poetica, innamorata maestria da Sorrentino regista, è qualcosa a metà tra la Berlino de Il cielo sopra Berlino e la “Zona” di Stalker di Tarkovskij, con architetture che sembrano fondersi coi corpi che le attraversano, ed i personaggi che abitano davvero le scene; nel romanzo Roma è una città più autentica ed emblematica, fondale e protagonista di una storia morale in cui, senza l’affollamento delle immagini e le suggestioni tanto di Fellini, quanto di Von Trier e Aronofsky, quanto di Scola e della commedia intelligente e profonda, e di Lynch inquietante ed ellittico, tutto procede speditamente come un teorema alla ricerca di un se stesso perduto, ovvero di ciò che si è diventati e di cosa sia rimasto del talento di un tempo.
Certo il film è un capolavoro immortale anche solo per la prima inquadratura cha fa paio con l’ultima e per Serena Grandi, completamente “sfatta”, che esce da un’enorme torta e sniffa coca in cucina.
Ma, io credo, che anche il romanzo-sceneggiatura lo sia, per l’evocazione dell’automatismo di Breton: “automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero”, un pensiero in cui q viaggiano parallelamente, in simbiosi ed in opposizione, con eventi psichici e fenomenici, con natura sincronica, cvome in “Eventi Paralleli”, dando vita ad una narrazione in cui emergono assieme e senza divisioni la dimensione onirica e quella meditativa.
Paraddosalmente, anche se con più scene rispetto al film, è nel romanzo che i due autori hanno lavorato per sottrazione, per dare rilievo alle sfumature più impercettibili della vicenda, facendoci vivevere in diretta la deriva del protagonista, come ha fatto, ad esempio ma nel cinema, Bennett Miller per “A sangue freddo”, rendendo essenziale la sceneggiatura di Dan Futterman, che si concentra sulla genesi del romanzo-verità di Capoti, quello stesso che col suo estremo,incompleto e postumo “Preghiere esaudite”, mandava a gambe all’aria l’intero jet-set newyorkese, con Truman che disse, come in fonda sembra dire alla fine Jep, :”Che cosa pensavano che fossi un giullare? Io sono uno scrittore!”.
L’immagine emblema, più nel libro che nel film, è “La fornarina”, ritratto privato dipinto da raffealo nel 1520, del quale modell, come lo era sta quattro anni prima per Roma e la Velata, e lo sarà poi per la Madonna Sistina, il Trionfo di Galatea e la Madonna della seggiola, Margherita Luzzi o Luzi, di cui scrive (guarda caso), Flaubert, nel suo “Dizionario delle idee ricevute”, affermando che ella è “l’archetipo dell’artista-modello di relazione della tradizione occidentale”.
Secondo il Vasari, la Fornarina era , Margherita Luti figlia di Francesco fornaio senese trasferitosi a Roma e dice che, secondo il racconto, Raffaelo se ne innamorò, dopo averla vista fare il bagno a piedi nudi nel Tevere, nel giardino accanto alla sua casa, in Trastevere, ed aver scoperto che: “la sua mente era bella come il suo corpo”.
La bellezza che vive come un baluginio nel libro (e nel film, ma in modo diveso), non è e non potrebbe mai essere innocente, poiché non è come quella postmoderna e dunque piatta e mediata del rifacimento del “Grande Gatsby”, ma pervasa da un luce bruno-dorata che vive di una cosa soltanto, non del proprio splendore, non della propria audacia, ma della pietà verso se stessi.
E mentre il film di Baz Luhrmann è un’idea democratica di arte da svilire e regalare al grande pubblico, spazzatura che proprio perché inconsapevolmente camp, è innocente, il libro (ed il film) di Sorrentino-Contarello è privo di ogni sogno di splendore gatsbiano, un bagliare di musice diegetiche e baluginii di candelabri, che però generano nel lettore (e nello spettatore) una fonte di luce diretta e difficile da sostenere.
E nel film si intuiva, nel libro si vede benissimo che “la grande bellezza” funziona perché sceglie di stare dentro il mondo che rappresenta, si immerge nell’orrore per affermare la propria singolarità, con una bellezza inseguita e vagheggiata, nonostante l’universo sembri sancirne la fine.
Carlo Di Stanislao
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