Astronomi dell’Osservatorio europeo australe grazie al supertelescopio Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) hanno ripreso, vicino a una giovane stella, la regione in cui le particelle di polvere possono aggregarsi e quindi crescere. È la prima volta che viene osservata chiaramente e modellata una simile “trappola” per i gas e le polveri presenti nei lontani sistemi solari alieni. Si risolve così un mistero, di lunga data, su come le particelle di polvere nei dischi stellari crescano fino a raggiungere dimensioni così grandi da formare, alla fine, comete, asteroidi, pianeti ed altri corpi rocciosi. I risultati del lavoro descritto nell’articolo “A major asymmetric dust trap in a transition disk“ di van der Marel ed altri, vengono pubblicati il 7 Giugno 2013 dalla rivista Science. Gli astronomi ora sanno che gli esopianeti si trovano in grande abbondanza intorno ad altre stelle nella nostra Galassia. Ma non comprendono ancora come essi si formino esattamente. Ignoti sono molti altri aspetti del processo di formazione di esocomete, esomondi, esoasteroidi. Ora le nuove osservazioni che dal Cile sfruttano la potenza del più grande radiotelescopio sulla Terra, Alma, stanno rispondendo a una delle più importanti ed affascinanti domande di sempre: come fanno i minuscoli grani di polvere nel disco intorno a un giovane astro a diventare sempre più grandi, da sassolini fino a massi ben più larghi di un metro, fino a creare gli esomondi alieni? Modelli numerici suggeriscono che i grani di polvere crescano quando entrano in collisione e rimangono legati tra loro. Ma quando questi grani più grandi si scontrano di nuovo ad alta velocità, spesso vengono distrutti e si torna al punto di partenza. Anche quando ciò non accade, i modelli mostrano che i grani più grandi si muovono velocemente verso l’interno a causa dell’attrito tra la polvere e il gas, e ricadono sulla stella madre eliminando ogni possibilità di ulteriore crescita. In qualche modo la polvere ha bisogno di un “rifugio” sicuro dove le particelle possano continuare a crescere finché sono abbastanza grandi per sopravvivere da sole. La causa dell’intrappolamento della polvere, in questo caso un vortice nel gas del disco, una specie di aspira-polvere naturale, ha una durata tipica di centinaia di migliaia di anni. Anche quando la trappola non funziona più, la polvere ivi accumulata impiegherebbe milioni di anni per disperdersi, dando perciò tempo ai grani di diventare più grandi. Tali trappole per la polvere erano già state proposte ma finora non c’era nessuna prova osservativa della loro esistenza. Nienke van der Marel, una studentessa di dottorato in Fisica al Leiden Observatory nei Paesi Bassi e prima autrice dell’articolo, stava usando il supertelescopio Alma insieme ai suoi collaboratori per studiare il disco di un sistema noto come Oph-IRS48. Il nome è tutto un programma perché indica sia la costellazione della zona di formazione stellare in cui si trova il sistema alieno sia il tipo di sorgente. “Oph” è la Costellazione di Ofiuco e “IRS” è la sorgente infrarossa. La distanza tra Terra e Oph-IRS48 è di circa 400 anni luce. Gli scienziati trovarono che la stella era circondata da un anello di gas con un foro centrale probabilmente creato da un esopianeta non visibile o da una stella compagna. Una ciambella aliena molto più interessante degli Ufo. Osservazioni precedenti con il Very Large Telescope dell’Eso avevano già mostrato che le piccole particelle di polvere formavano anch’esse un’analoga struttura ad anello. Ma la nuova visuale offerta dal radiotelescopio Alma della zona in cui si trovano le particelle di polvere più grandi, di dimensioni dell’ordine del millimetro, è apparsa molto diversa! “All’inizio la morfologia della polvere come appariva nell’immagine è stata una vera sorpresa – rivela Nienke van der Marel – invece dell’anello che ci aspettavamo di vedere, trovammo una struttura con la chiara forma di un anacardio! Abbiamo dovuto convincerci che la forma fosse reale, ma il segnale forte e la nitidezza delle osservazioni di Alma non lasciavano dubbi sulla struttura. Ci siamo quindi resi conto di quello che avevamo trovato”. Cioè una regione dove i grani di polvere più grandi sono rimasti intrappolati e possono crescere fino a diventare più grandi per mezzo di collisioni che li fanno rimanere incollati tra loro. “Questa è la trappola per la polvere cosmica, esattamente quello che i teorici stavano cercando. È probabile che stiamo guardando una sorta di fabbrica di comete aliene – dichiara Nienke van der Marel – poiché le condizioni sono adatte per far crescere le particelle da un millimetro alla dimensione di una cometa. La polvere non produrrà probabilmente oggetti di dimensione planetaria a questa distanza dalla stella. Ma nel prossimo futuro Alma sarà in grado di osservare questa sorta di cattura-polvere più vicino alla loro stella madre, dove sono in funzione gli stessi meccanismi. Queste trappole sarebbero veramente le culle dei pianeti neonati”. Le trappole per la polvere cosmica si formano quando le particelle più grandi si muovono in direzione delle regioni di pressione più alta. Modelli al computer hanno mostrato che queste regioni di alta pressione possono originarsi dal moto dei gas al bordo di un foro di una ciambella cosmica, proprio come quello trovato nel disco di Oph-IRS48. “La combinazione di un lavoro teorico sui modelli con le osservazioni di alta qualità che Alma ci fornisce rende questo un progetto unico nel suo genere – rivela Cornelis Dullemond dell’Institute for Theoretical Astrophysics di Heidelberg (Germania) del team di ricerca Eso, un esperto in materia di evoluzione della polvere cosmica nei dischi stellari – al tempo in cui queste osservazioni sono state ottenute, stavamo lavorando su modelli che prevedevano esattamente queste strutture: una coincidenza molto fortunata”. Le osservazioni sono state effettuate durante la fase di costruzione di Alma, utilizzando i ricevitori della Banda 9 del radiotelescopio, dispositivi costruiti in Europa che permettono ad Alma di creare le immagini finora più nitide di sempre. Alma può osservare in diverse lunghezze d’onda: la Banda 9 a lunghezze d’onda dell’ordine di 0.4 – 0.5 millimetri, è quella che fornisce le immagini più chiare. “Queste osservazioni mostrano che Alma è in grado di produrre scienza innovativa, anche usando meno della metà dell’intera schiera di antenne – fa notare Ewine van Dishoeck del Leiden Observatory, uno dei maggiori scienziati contributori al funzionamento del radiotelescopio Alma per più di 20 anni – il salto incredibile sia in sensibilità sia in nitidezza dell’immagine nella Banda 9 ci offre l’opportunità di studiare aspetti fondamentali della formazione dei pianeti in modi semplicemente non possibili fino ad oggi”. L’equipe è composta da Nienke van der Marel (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), Ewine F. van Dishoeck (Leiden Observatory; Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik Garching, Germania [MPE]), Simon Bruderer (MPE), Til Birnstiel (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Cambridge, USA [CfA]), Paola Pinilla (Heidelberg University, Heidelberg, Germania), Cornelis P. Dullemond (Heidelberg University), Tim A. van Kempen (Leiden Observatory; Joint ALMA Offices, Santiago, Cile), Markus Schmalzl (Leiden Observatory), Joanna M. Brown (CfA), Gregory J. Herczeg (Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics, Peking University, Beijing, Cina), Geoffrey S. Mathews (Leiden Observatory) e Vincent Geers (Dublin Institute for Advanced Studies, Dublin, Irlanda). Alma studierà anche i tanti buchi neri esistenti già fra le prime stelle dell’Universo perché almeno una protogalassia su cinque potrebbe contenere una stella nera. È quanto emerge da uno studio della Nasa, ottenuto combinando i dati dei telescopi spaziali Chandra e Spitzer, coordinato da Nico Cappelluti, ricercatore all’Inaf-Osservatorio Astronomico di Bologna. Essendo l’ultimo stadio dell’evoluzione di stelle massicce, gli scienziati credono che i buchi neri abbiano fatto la loro comparsa relativamente tardi, nella storia del Cosmo. Pare invece che non sia più tanto vero. La loro presenza era già rilevante anche fra le primissime stelle dell’Universo. È quanto ha scoperto un team internazionale di astronomi, guidato dall’italiano Nico Cappelluti, confrontando, per una stessa regione di cielo, il fondo a infrarossi con quello osservato ai raggi X. In pratica, una sorgente di raggi infrarossi su cinque, fra quelle risalenti all’Universo primordiale, è un buco nero. “Abbiamo impiegato quasi cinque anni per portare a termine questo studio – rivela Nico Cappelluti – ma i risultati sono sorprendenti” poiché “attribuiscono ai buchi neri almeno il 20 percento dell’emissione cosmica di fondo infrarossa”. Questo significa che “all’epoca delle prime stelle, i buchi neri già erano intenti a cibarsi di gas in modo frenetico” – spiega Alexander Kashlinsky, astrofisico del Goddard Space Flight Center della Nasa in Maryland (Usa). Tutto ebbe inizio nel 2005, quando Kashlinsky e colleghi stavano analizzando i dati del telescopio spaziale infrarosso Spitzer della Nasa. Notarono per la prima volta un bagliore residuo. Successive osservazioni hanno confermato la persistenza di un bagliore irregolare residuo, anche dopo un’accurata sottrazione del contributo di tutte le stelle e le galassie conosciute nella regione osservata. Da qui la deduzione che si trattava del fondo cosmico a raggi infrarossi (CIB), una luce risalente all’epoca in cui prendevano forma le prime strutture dell’Universo, fra le quali stelle e buchi neri primordiali. La medesima regione di cielo è stata osservata nel 2007 anche dal telescopio spaziale ai raggi X, il satellite Chandra della Nasa: elaborando i dati multibanda raccolti in quell’occasione, Cappelluti ha prodotto mappe X, rimuovendo tutte le sorgenti conosciute in tre lunghezze d’onda. Anche in questo caso, proprio come con i dati di Spitzer, è rimasto un bagliore di fondo, questa volta però in banda X. È il fondo cosmico a raggi X (CXB). Dal confronto fra le due mappe, è emerso che le fluttuazioni del bagliore residuo alle energie X più basse mostrano una coerenza significativa con quelle presenti nelle mappe a infrarossi. La scoperta non deriva da osservazioni puntuali. Prima di Alma, nemmeno i telescopi più potenti erano in grado di distinguere le stelle e i buchi neri più distanti come singole sorgenti. Ma l’analisi del loro bagliore complessivo, giunto fino a noi dopo un viaggio durato, dal nostro punta di vista, miliardi di anni luce, ha comunque permesso agli astronomi di estrarre i contributi relativi di stelle e buchi neri della prima generazione. “È un po’ come osservare da Milano uno spettacolo pirotecnico in corso a Palermo – spiegano gli autori dello studio per illustrare il metodo da loro seguito – i singoli fuochi d’artificio sono troppo deboli per essere visti, ma se si potessero rimuovere tutte le sorgenti luminose nel mezzo, sarebbe possibile rilevare un bagliore residuo. La presenza di fumo, poi, rafforzerebbe ulteriormente la conclusione che almeno parte di quel bagliore proviene proprio dallo spettacolo pirotecnico”. Nel caso delle mappe CIB e CXB, sia una parte dell’emissione infrarossa che di quella X sembrano provenire dalle stesse regioni del cielo. E le uniche sorgenti in grado di emettere in entrambe queste bande con l’intensità necessaria, spiegano gli scienziati, sono proprio i buchi neri. Le galassie normali, comprese quelle con i tassi di formazione stellare più elevati, non ci riuscirebbero. Non solo: per rimanere indistinte, le sorgenti alimentate dai buchi neri devono trovarsi a distanze estreme. La radiazione cosmica di fondo è un lampo di luce originato quando l’Universo primordiale si raffreddò a sufficienza per consentire a elettroni e protoni di formare i primi atomi. In essa sono presenti lievi fluttuazioni di temperatura che corrispondono a regioni di densità leggermente diversa: variazioni che costituiscono i “semi” di tutte le strutture cosmiche che vediamo e non vediamo oggi attorno a noi. Comprese l’Energia e la Materia Oscure. Poi l’Universo rimase buio per centinaia di milioni di anni, fino a quando iniziarono a brillare le prime stelle e i primi buchi neri cominciarono a far la loro comparsa. Parte dell’emissione infrarossi e X proveniente queste sorgenti si è conservato nel fondo cosmico CIB e CXB. Almeno il 20 percento delle strutture presenti in questi due fondi sembrano avere una correlazione, indicando che l’attività dei buchi neri nell’Universo primordiale, era centinaia di volte più intensa di quanto non sia oggi. Alma studierà questi oggetti primordiali, comprese le stelle di quark e neutroni, autentiche miniere di Supermateria. L’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array è un Osservatorio astronomico internazionale frutto della collaborazione fra l’Europa, il Nord America e l’Asia Orientale, in cooperazione con la Repubblica del Cile. In Europa, Alma è finanziato dall’Eso, in Nord America dalla U.S. National Science Foundation (NSF), in cooperazione con il National Research Council del Canada (NRC) e il National Science Council di Taiwan (NSC) e in Asia Orientale dagli Istituti Nazionali di Scienze Naturali del Giappone (NINS), in cooperazione con l’Accademia Sinica di Taiwan (AS). La costruzione e la gestione di Alma sono condotte dall’Eso per conto dell’Europa, dall’Osservatorio Nazionale di Radio Astronomia (NRAO) gestito dalle Associated Universities, Inc. (AUI) per conto del Nord America e dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (NAOJ) per conto dell’Asia Orientale. L’Osservatorio congiunto di Alma (JAO: Joint ALMA Observatory) fornisce la guida unitaria e la gestione della costruzione, del commissioning e delle operazioni di Alma.
© Nicola Facciolini
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