Il Pil in negativo per il ventesimo mese consecutivo, la caduta libera dell’astensionismo alle recenti amministrative, con precipizio delle Cinque Stelle anche in Sicilia, il problema del controllo in rete che fa tremare l’amministrazione USA e, per noi aquilani, le riflessioni su Facebook del sindaco Cialente, pieno di speranze sui soldi che avremo ad ottobre, ma prontamente tamponato da Enrico Letta che, sullo stesso mezzo, dice che di tempistica non si è parlato e che, comunque, L’Aquila paga le conseguenze di un errore politico che ha fatto gestire lo straordinario come ordinario; mettono sotto tono il 53° caduto italiano in Afganistan ed una tragedia a Giulianova, avvenuta nella di domenica, con un rumeno di 46 anni che si è impaccato, perché ormai privo di ogni speranza.
A Santa Maria Maggiore, come in tutti gli altri casi, alle 18 di lunedì, ha fatto il suo ingresso la bara ricoperta dal tricolore al suono della marcia In pace per la pace, suonata dalla Banda nazionale dell’esercito dedicata a tutti i militari caduti nelle missioni.
E c’erano tutti per l’estremo saluto al capitano Giuseppe La Rosa, del terzo reggimento bersaglieri della Brigata Aosta, ucciso sabato scorso per una bomba a mano lanciata da un ragazzino di solo 11 anni, dentro al blindato Lince in cui era di pattuglia, assieme ad altri tre uomini.
Portato in spalla da sei bersaglieri, seguito da un settimo con un cuscino su cui era poggiato il copricapo d’ordinanza, il cappello delle 600 piume del suo Corpo, il capitano La Rosa è stato accolto all’ingresso della chiesa da un picchetto d’onore e, dentro,o salutato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, dal ministro della Difesa Mario Mauro, dai presidenti di Camera e Senato Laura Boldrini e Pietro Grasso, dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano,dal vicepresidente del Csm, Michele Vietti, e dai vertici delle forze armate e della polizia.
Nella sua omelia, monsignor Vincenzo Pelvi, ordinario militare, ha detto che il dono della vita è un “evento incancellabile nella storia della pace”, ma senza consolare i genitori ed i congiunti, che ancora sono a chiedersi di che pace si tratti, se toglie la vita per mano di un bambino, in un territorio oggi come ieri dilaniato.
Enrico Letta, nel suo messaggio di cordoglio, ha ricordato che ce ne andremo con gli altri alleati nel 2014, senza dire però che lasciamo una scia si cadaveri ed un territorio tutt’altro che normalizzato.
Come ha scritto Massimo Ragnedda, dopo dieci anni e migliaia di morti, tutto è come prima in Afganistan, con soltanto le casse delle multinazionali di armi a gioire e non solo negli USA ed il nostro governo, che reclama credibilità, che spende 27 miliardi di euro in armi e taglia 8 miliardi alla scuola e ai servizi sociali, mentre padre e Zanotelli, sull’Espresso, si chiede: “Vorrei sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari, come Finmeccanica, sul Parlamento per ottenere commesse di armi e quali percentuali prendono i partiti”.
Dopo dieci anni di inutile guerra, le vittime sono 67 mila vittime (secondo le stime ufficiali fornite da Onu, Nato, Crocerossa) e, solo negli ultimi 5 anni, 730mila sono gli sfollati (stimati dall’agenzia Onu per i rifugiati, Unhcr), con la povertà assoluta che è passata dal 23 al 36% e la mortalità infantile dal 147 al 149 per mille, con una aspettativa scesa da 46 a 44 anni ed un tasso di alfabetizzazione passato dal 31 al 28 per cento.
Un altro dato interessante è l’esplosione della produzione di oppio, che ha superato quella prodotta ai tempi dei talebani: dagli 82mila ettari coltivati nel 2000 ai 123mila di oggi.
Intanto, c’è un’altra tragedia per così dire minore che bussa alle porte delle nostra coscienze, mentre ci ingegniamo per la dieta migliore e più rapida ed indolore prima della prova costume.
Il cadavere è stato rinvenuto alle 7 di ieri e la morte fatta risalire alla notte precedente, per impiccagione, nei bagni il della stazione ferroviaria di Giulianova, in provincia di Teramo.
In tasca al rumeno di 46 anni, i documenti, in regola e cento euro che, si è appreso, aveva ricevuito dalla moglie, badante in Italia, che aveva anche pagato il biglietto per l’autobus che lo aveva portato fin lì, alla ricerca di un lavoro.
Era falegname K.L. ed anche bravo, ma nel suo paese, divorato dalla crisi, non riusciva più a trovare lavoro ed i soldi che la moglie mandava non bastavano per mantenere loro stessi ed i due figli.
Ha telefonato col suo cellulare infinite volte ad un numero che è risultato inesistente, un numero che gli era stato fornito con la promessa che avrebbe consentito di trovare un lavoro.
Non sapeva il povero disgraziato che in Italia i tempi d’oro sono finiti e che da tempo anche gli italiani si uccidono perché senza lavoro o per i debiti o perché vi è una totale mancanza di prospettive.
Solo a guardare le cronache delle ultime settimane vi sono cinque suicidi avvenuti fra nord e profondo sud e solo nei primi tre mesi di quest’anno, ci sono stati 39 casi nel nord e 27 nel nord-est, capaci un tempo di dare lavoro a tutti.
Ed altri drammi procedono in silenzio, senza copertura mediatica, con una comunità internazionale cinica e distratta e le coscienze assopite dall’alibi della lontananza e dall’estraneità.
Un esempio nel sangue che scorre nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), un conflitto catacombale che si consuma senza volto, in un girone infernale senza telecamere né cronache e senza nessuna azione diplomatica per costringere i vicini dello stremato Paese a smettere di cannibalizzare le sue ricchezze e con esse la sua popolazione, decimata da tanti – troppi – anni di guerra; senza meccanismi severi e controlli per vietare e, all’occorrenza, punire con rigore, il traffico di materie prime “insanguinate”; senza nessuna azione umanitaria in grado di traghettare progetti di emergenza di sviluppo; con la sola preoccupazione, retorica ed ipocrita, per un generico rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ma senza che questo conferisca senso all’espressione “comunità internazionale”.
Come in Siria di cui si parla ad intermittenza, ma senza insistere troppo su un dramma che in fondo dobbiamo vedere come estraneo e lontano.
“Come voi avete occhi per vedere la luce, e orecchie per sentire i suoni, così avete un cuore per percepire il tempo. E tutto il tempo che il cuore non percepisce è perduto, come i colori dell’arcobaleno per un cieco o il canto dell’usignolo per un sordo”, ha scritto in “Momo” Michael Ende.
E queste parole hanno ispirato i quadri di Generoso D’Alessandro, con una umanità fatta di volti senza occhi né coscienza, volti anonimi e monocromi, come i manichini di De Chirico, come i Signori Grigi di Ende, incapaci di vedere i drammi umani, le crisi economiche, le guerre, le tragedie, la politica corrotta, segno di anime senza più pensieri né generosi né positivi.
Società dai ritmi frenetici e spersonalizzate, in cui i meno giovani sono timorosi del futuro e i giovanissimi bruciano le tappe senza comprendere il significato delle proprie azioni, non riuscendo a confrontarsi con l’Altro che è poi un altro noi stesso, che si dibatte, per non sprofondare.
Carlo Di Stanislao
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