Conflitti e traffici

Nel suo intervento, in un’aula pressoché vuota, il ministro della difesa Mario Mauro ha spiegato che non è possibile eliminare i rischi per i militari italiani impegnati nella missione di “stabilizzazione” in Afghanistan e confermato “l’intendimento del governo di proseguire la partecipazione alla missione dell’Isaf, il cui obiettivo ultimo è ormai prossimo, collocandosi a dicembre […]

Nel suo intervento, in un’aula pressoché vuota, il ministro della difesa Mario Mauro ha spiegato che non è possibile eliminare i rischi per i militari italiani impegnati nella missione di “stabilizzazione” in Afghanistan e confermato “l’intendimento del governo di proseguire la partecipazione alla missione dell’Isaf, il cui obiettivo ultimo è ormai prossimo, collocandosi a dicembre 2014, concludendola secondo i termini stabiliti”.

Ieri, sempre aFarah, dove sabato è stato ucciso il capitano Giuseppe La Rosa, un altro attentato ha riguardato, per fortuna senza vittime, un altro convoglio italiano.

Quella afgana è una guerra che non risparmia nessuno. Il 29 maggio, si è sparato anche sulla Croce Rossa, con un gruppo di miliziani che ne ha attaccato la sede a Jalalabad, uccidendo un agente di sicurezza non armato, per poi asserragiarsi nell’edificio e morire sino all’ultimo uomo nello scontro a fuoco con le forze di sicurezza.

Una volta completato il ritiro, si aprirà una feroce lotta per sggiudicarsi l’influenza sull’Afganistan ed il presidente Hamid Karzai, dopo gli incontri di maggio con il capo di Stato Pranab Mukherjee e il primo ministro Manmohan Singh, auspica che sia l’India a prendere il posto degli Stati Uniti.

Due anni fa i governi di Delhi e Kabul hanno firmato un accordo strategico che prevede il sostegno indiano all’addestramento delle forze di sicurezza afgane e l’India ha inoltre investito in Afgamnistan 2 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali, ospedali, autostrade.

Ma, secondo il politologo Wadir Safi, citato dall’Associated Press, una maggiore cooperazione militare con l’India contribuirebbe soltanto a creare ulteriori tensioni in un Paese già diventato teatro di battaglia per interposti attori, talebani da una parte e l’Alleanza del Nord dall’altra, della sfida tra Delhi e Islamabad.

Da anni Delhi accusa Islamabad di fomentare la rivolta nella regione del Kashmir, la cui sovranità è rivendicata da entrambi i Paesi e, di recente, afferma che ora anche il Punjab è divenuto un obbiettivo, citando come prova “la grande quantità di armi ed esplosivi” sequestrati l’anno scorso e contrabbandati
attraverso la frontiera pachistana. Negli anni Ottanta un’offensiva separatista della comunità sikh aveva provocato decine di migliaia di morti, ma le violenze erano poi cessate.

Tutto ebbe inizio nel 1947 quando il sub-continente indiano ottenne l’indipendenza dall’Impero britannico e si divise in due Paesi sovrani e indipendenti l’uno dall’altro, vale a dire l’India, uno Stato laico a maggioranza indù e la nuova Repubblica del Pakistan di confessione musulmana.

Al momento di questa separazione il territorio del Kashmir, situato al nord-ovest dell’India e confinante con Pakistan e Cina, divenne, come lo è tuttora, campo di battaglia e oggetto di conflitto.

A marzo 2012 sembrò che il dialogo fra i due Stati riprendese, con i capi delle rispettive diplomazie che affermarono la volontà di affrontare le questioni relative al terrorismo e al ghiacciaio dello Siachen, oltre che ad elaborare degli accordi commerciali al fine di promuovere una più ampia cooperazione reciproca tra i due Stati, per edificare una rapporto più amichevole e non più “ostaggio del passato”.

Dopo la sua elezione, a fine maggio, in neopresidente pakistano Nawaz Sharif ha subito messo mano alla pace con l’India e con i talibani, raccogliendo prontamente l’invito del primo minostro indiano per un colloquio tra per “discutere delle modalità per rilanciare il processo di dialogo in modo da affrontare questioni che sono motivo di preoccupazione per i due Paesi e per rafforzare l’amicizia e la cooperazione”.

Ma già il processo di pace tra Pakistan e India si è bruscamente interrotto, come successe nel 2008 in seguito ai sanguinosi attacchi terroristici di Mumbai e se ora l’India dovessa diventare il partner anche militare dell’Afganistan tutto tornare come prima.

Inoltre, ciò che ulteriormente preoccupa, è il dato, rivelato dallo Stockholm International Peace Reserch Institute (Sipri), secondo il quale, mentre le principali potenze nucleari riducono i loro arsenali, Cina, India e Pakistan aumentano le loro testate atomiche, con minaccia per la già fragile stabilità del continente medio-orientale, sconvolto dalla guerra in Siria e con, in Asia del sud, il confronto sempre aperto è solo parzialmente raffrteddato fra India e Pakistan.

A ciò si aggiunga che nell’ Asia del’Est la Corea del Nord proseguono con i test dei suoi missili balistici, che fanno paura ai Paesi confinanti e nel Mar Cinese meridionale  crescono le dispute sulle acque territoriali fra Cina, Giappone, Taiwan, Vietman e Filippine.

Oltre al rischio derivante da nuovi stati emergenti nel nucleare, Corea del Nord e Iran, vi è anche quello della crescita del traffico internazionale di armi, con la Cina che ha superato la Gran Bretagna, diventando il quinto esportatore al mondo, dopo Stati Uniti, Russia, Germania e Francia.

India e Pakistan spendono ciascuno 20 miliardi di dollari l’anno per la difesa ed entrambi hanno sei volte più militari che dottori e il Sudan ha dilapidato un terzo del suo Prodotto interno lordo in spese militari.

Il 10 giugno l’ONU ha firmato un accordo sulla limitazione del traffico di armi nel mondo e l’Ue si è detta pronta a ratificare il protocollo a seguito dell’adozione di nuove norme sulla vendita, la detenzione e il trasferimento di armi da fuoco all’interno e all’esterno dell’Europa.

Il fatto è, come già l’Onu aveva messo in chiaro a marzo, che quello delle armi è il terzo mercato illegale più lucrativo del mondo (dopo quello della droga e quello della prostituzione) ed è stimato intorno ai 1200 miliardi di dollari all’anno e, citando un sondaggio condotto nel 2001 da Small Arms Survey, si può quantificare che vengono fabbricate 15 armi da fuoco al minuto e che una persona viene uccisa ogni 60 secondi.

Il lungo discorso di Yuri Orlov, protagonista del film “Lord of War”, diretto da Andrew Niccol nel 2005, ci dice che nel mondo ci sono già tante armi da armare una persona ogni 12 e si chiede, cinicamente “come armare le altre 11”.

La globalizzazione dell’industria armiera ha aperto ampie scappatoie nelle norme che dovrebbero regolare l’esportazione delle armi, consentendo vendite verso Paesi che violano i diritti umani e quelli sotto embargo

Questa è la denuncia contenuta in un rapporto della campagna “Control Arms”, promossa nel 2003 dalle ONG (Organizzazioni Non Governative) Oxfam International, Amnesty International e IANSA (“International Action Network on Small Arms”), che rivela come aziende nordamericane ed europee siano tra coloro in grado di aggirare i controlli, attraverso la vendita di singoli componenti e il subappalto della produzione in altri Paesi.

Negli anni ’90, l’aumento dei conflitti regionali e la proclamazione di ben 13 embarghi tra il 1997 e il 2007, hanno avuto l’effetto di accrescere la domanda di armamenti leggeri spacciati illecitamente e, negli ultimi tempi, il Sudan e la Repubblica Democratica del Congo sono in testa per le richieste.

E’ anche accertato che numerosi conflitti sono stati alimentati dal mercato nero, come in Sierra Leone, Eritrea, Colombia, Libano, Niger, Ciad, Mauritania, Pakistan, Angola, Yemen, Afghanistan, Kenya, Somalia, Libia, Zimbabwe e in ex-Jugoslavia, dove l’eroe dell’indipendenza della Croazia, Franjo Tudman, era un noto trafficante.

E, per quanto riguarda l’Italia, dove tutto sembra negativo, il Bel Paese vanta una delle prime posizioni al mondo per la produzione di armamenti civili e da guerra, con la stragrande maggioranza acquistata da Emirati Arabi Uniti (437 milioni), Arabia Saudita (432) e Algeria (343) e armi per 147 milioni finiti in India, che negli ultimi anni si è classificato come importatore numero uno al mondo.

La guerra è uno dei costi maggiori che una nazione deve sostenere.

Il bombardiere B-3 costa 2.2 miliardi di dollari al pezzo e la sola guerra in è costata 2267 miliardi di dollari agli Stati Uniti, sicché è lecito chidersi come si fa in tempo di crisi a sostenere queste spese per guerre feroci ed inutili.

Uno dei miti che ancora resistono è quello per cui il commercio delle armi è importante per l’economia dei paesi produttori. In realtà, i contribuenti sovvenzionano pesantemente il settore (tremila miliardi di lire nella sola Gran Bretagna) e, nonostante questo, l’industria continua a perdere migliaia di posti di lavoro ogni anno.

Sicché la conversione delle fabbriche di armi alle produzioni civili è qualcosa di più di una semplice esigenza etica per una moderna versione del trasformare le spade in aratri. Aziende statunitensi del settore hanno cominciato a produrre con successo mountain bikes a partire dai materiali per missili ed aerei, incrementando fatturato e posti di lavoro.

Infine, l’attenzione sulle vendite di armi pesanti fa passare in secondo piano il commercio di quelle leggere che provocano oltre il 90% delle vittime dei conflitti, per non parlare degli omicidi e delle morti accidentali. Le armi leggere sono difficili da controllare e spesso vengono rivendute da un conflitto all’altro, portando ad una crescente militarizzazione del pianeta.

In Turchia, dove la festa dell’equinozio di primavera, che da 4mila anni nel calendario curdo, ma anche in quello iraniano e afghano, segna l’inizio del nuovo anno, ha segnato una data storica con l’annuncio della tregua venuto da Abdullah Ocalan, il capo della guerriglia separatista del Pkk rinchiuso dal ’99 con una condanna all’ergastolo nel carcere di Imrali, ora, da 123 giorni, si spara sui manifestanti, il premier Recep Tayyip Erdoga ha incrementato i fondi per gli armamenti, nonostante la crisi economica ed il ritiro di investimenti esteri e con la borsa di Istanbul che ha perso più del 10% la settimana scorsa, bruciando un miliardo di dollari.

Ha scritto un paio di settimane fa Tom Engelhardt che il sogno di gloria militare di Washington in Afghanistan e in Iraq si è arenato con una velocità impressionante e poi, dal 2007, il trascendentale impero del capitale rischiò anch’esso di implodere mentre un disastro unipolare finanziario contagiò tutto il pianeta.

Nel frattempo, nel Grande Medio Oriente scoppiarono proteste, ribellioni, guerre civili e il caos senza neanche l’ombra di una “Pax”, facendo sì che nella regione traballasse, il sistema di guerra fredda voluto da Washington.

Oggi si corre agli armamenti e alle guerre economiche, mentre procede a ritmo incalzante e ormai fuori controllo ad vorace utilizzo di energia, incluse le possibile future “bombe al carbonio” o la possibilità che il declino occidentale si arresti tramite l’utilizzo di nuovi metodi estremi per produrre energia (il fracking o fratturazione idraulica, l’estrazione di sabbie bituminose, le perforazioni in fondo all’oceano), metodi che, nonostante l’indubbia degenerazione ambientale locale, potrebbero effettivamente trasformare gli Stati Uniti (e probabilmente la Cina) nellnelle nuove “Arabie Saudite”, naturalmente a scapito dell’intero pianeta.

Due sere fa ho rivisto, su Iris, Syriana, bel film che il doppio con Traffic, con il duo Soderbergh/Gaghan che raccontano lontane che poi si ravvicinano, in una specie di Magnolia saltellante e convulsa, con la più em,blematica che è quella di svariati lavoratori pakistani, in un non precisato pese del Golfo Persico,che perdono il lavoro in seguito all’acquisto, da parte dei Cinesi, della compagnia petrolifera per la quale lavorano; con la complicità degli USA.

Nel film di Caghan, la musica minimale di Desplat ci dice che non dobbiamo stare all’inganno. Infatti è proprio all’interno di una di queste sequenze che avviene, attraverso una dimensione ludica, attraverso due o tre tiri ad un pallone, l’arruolamento dei due ragazzi pakistani in un’organizzazione terroristica, finanziata, di fatto, da mercanti di armi.

Carlo Di Stanislao

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