“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”(Genesi, 1,27). Il Matrimonio è l’istituto divino tra un Uomo e una Donna sulla Terra. Tutto il resto, a meno di voler prefigurare uno scenario di invasione aliena mitigata ma in piena regola da altri mondi dove forse è normale l’unione di persone dello stesso sesso per formare una famiglia naturale, è perversione etica, morale, politica, spirituale e culturale, instillata dal Diavolo nell’Uomo per “terraformare” la Terra a immagine di quell’inferno dantesco scatenato dal generale Zod, pervertito e pervertitore, nel kolossal Man of Steel del geniale regista Zack Snyder. Cosa c’entrano i “nuovi” diritti gaii civili e il principio di eguaglianza? Possibile che tremila anni di Diritto e Civiltà non abbiano insegnato proprio nulla? Lo vadano a spiegare ai Padri della Patria, Abraham Lincoln e JFK, in occasione della Festa Nazionale del 4 Luglio negli Usa. Il loro sacrificio è forse stato vano? Per cosa e per chi sono morti? Per questo scempio etico, giuridico, morale e politico? Così si dividono l’America e il mondo. Nessuna Civiltà sulla Terra ha mai osato tanto al cospetto di Dio. Credere laicamente che l’Altissimo stia semplicemente a guardare impassibile, non è saggio. Al Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Hussein Obama ed agli Onorevoli membri della Corte Suprema Usa, con amicizia e deferente stima, forse vale la pena di ricordare il significato autentico del sommo Sposalizio verginale di Maria Santissima e San Giuseppe, i “genitori” terrestri di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità, l’Onnipotente, vero Dio vero Uomo. Il matrimonio ebraico tra Maria e Giuseppe ci ricorda che i cristiani e gli ebrei, come l’Italia e Israele, sono legati indissolubilmente al medesimo Progetto di Dio nell’Economia della Salvezza. Quando la vita di Maria e quella di Giuseppe si uniscono siamo ormai giunti alla pienezza dei tempi. Il loro sacro Sposalizio è un esempio per le coppie moderne che intendono fondare la loro “unione” e l’autentica Famiglia sulla totale definitiva unità sponsale “perfetta” dell’uomo e della donna nella Benedizione del Signore (Genesi 1, 28). La Famiglia Naturale è soltanto questa, Signor Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Hussein Obama, e signori politici europei italiani. Per i Cattolici il vero Matrimonio è quello contratto in Chiesa al cospetto di Dio, non altrove. Nessuno osi separare chi Dio ha unito sulla Terra: un Uomo e una Donna per la Famiglia Naturale. In effetti, l’unione “celebrata” sacramentalmente dagli sposi nella fede di Gesù Cristo trasmessa dagli Apostoli nella Sua Chiesa, resta indissolubile fino alla morte naturale degli sposi, indipendentemente dalle leggi dei codici (Catechismo della Chiesa Cattolica, Articolo 7, nn. 1601 e seguenti) civili e dalla giurisprudenza infangata, dopo tremila anni di civiltà del Diritto, dalle assurde mode oggi in voga nelle multinazionali dominanti ma senza futuro. Il concetto ebraico di Matrimonio esprime la Santificazione dell’unione di un Uomo e di una Donna, perché i fidanzati, con l’atto medesimo, siano come le mura di un piccolo tempio (“mikdash me’at”) in onore di Dio all’interno del quale siano sempre attuati i precetti biblici della procreazione, dell’educazione dei figli, del soccorso reciproco e sia osservato ogni obbligo previsto dalla “ketubàh”. Nel contesto della Creazione della prima donna si comprende sia come essa sia parte dell’uomo, perché tratta da lui, sia come l’uomo e la donna siano destinati a formare nuovamente nel Matrimonio una “persona sola”. Viene quindi sottolineato il bisogno reciproco che hanno l’uno dell’altra. Come insegna il Talmud e come riportato in molti testi di varie epoche, Dio creò l’uomo e solamente in un secondo tempo (“Non è bene che l’uomo sia solo”, Genesi 2,18) divise una parte di Adamo per creare l’uomo e la donna come entità separate. “La famiglia naturale, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna – afferma Benedetto XVI – è culla della vita e dell’amore e la prima e insostituibile educatrice alla pace. Proprio per questo la famiglia è la principale ‘agenzia’ di pace e la negazione o anche la restrizione dei diritti della famiglia, oscurando la verità dell’uomo, minaccia gli stessi fondamenti della pace. Poiché poi l’umanità è una “grande famiglia”, se vuole vivere in pace non può non ispirarsi a quei valori sui quali si fonda e si regge la comunità familiare”. Gli Ebrei hanno dedotto la natura “non completa” dell’uomo e della donna dall’analisi fraseologica della Genesi. Da un’attento studio dei testi si evince che l’essere umano è un “mezzo uomo” e che solo attraverso l’unione matrimoniale, e la conseguente unione fisica e psichica, ritrova la sua primigenia forma compiuta. L’Ebreo osservante deve, pertanto, assolutamente sposarsi. Per adempiere fino in fondo al precetto biblico “siate fecondi e moltiplicatevi”, una coppia ebrea deve mettere al mondo almeno un bambino ed una bambina. Questa “mitzvah” è comunemente sentita come la più importante tra le “mitzvot” bibliche. Nel “Sefer Hachinnukh”, un compendio di precetti del Tredicesimo Secolo, è scritto:“Il fine di questa mitzvah è che il mondo, che Dio crea disabitato, potrà essere in verità popolato. Come è scritto:“Egli non ha creato il mondo perché sia vuoto; Egli l’ha modellato perché sia abitabile. E questo è il Suo più importante precetto, attraverso il quale tutti gli altri comandamenti possono essere onorati e non solo dagli angeli”. Il filosofo medioevale ispano-portoghese Rav Don Isaac Abravanel (1437-1508) si riferisce a coloro che rifuggono il matrimonio, come persone non completamente realizzate ed inopinatamente felici. Nessun uomo, giovane o vecchio, è scusato dal non aver adempiuto fino in fondo ai precetti di procreare e di mettere al mondo un maschio ed una femmina. Anche se un uomo è stato sposato e ha già procreato dei figli, gli è vietato di rimanere solo nel mondo ebraico. Il Talmud insegna che “se un uomo è sposato nella sua giovinezza, fa che si sposi anche nella sua vecchiaia. Se un uomo ha procreato nella sua giovinezza, fa che procrei anche nella sua vecchiaia”. Il testo di Maimonide riporta questo detto nei suoi codici:“Anche se un uomo può aver adempiuto fino in fondo alla mitzvah della procreazione, questa è ciò nondimeno una mitzvah dei Saggi che egli non può smettere di procreare per tutto il tempo che rimane virile, poiché colui il quale aggiunge un solo spirito a Israele è come se abbia creato un intero mondo. Ed è un comando dei Saggi che nessun uomo possa rimanere senza una moglie”. Il diritto ebraico ha elaborato un sistema di diritti e doveri reciproci tra i coniugi, che solitamente si attua con il matrimonio, salvi diversi accordi tra le parti. In sintesi la regola prevede che l’uomo abbia dieci doveri nei confronti di sua moglie: fornire gli alimenti, che comprendono anche contributi per ogni spesa corrente; fornire i vestiti (in questa dizione sono compresi anche l’arredamento domestico ed i cosmetici); garantire un regolare rapporto sessuale, dovere per l’uomo e diritto della donna, con una frequenza il cui minimo dipende dal lavoro dell’uomo; garantire una somma di danaro per la donna in caso di divorzio o morte del marito; pagare le spese mediche; pagare il riscatto, nel caso venga rapita; pagare le spese per la sepoltura; per i figli, mantenere la vedova con le sostanze del marito e farla abitare in casa sua, per tutta la durata dello stato vedovile; per i figli, mantenere le figlie che la donna ha avuto dal marito, dopo che questi è morto; garantire il diritto dei figli della donna di ereditare la ketubàh, oltre la parte di eredità spettante. Il marito in cambio riceve dalla donna: il ricavato che la donna svolge secondo le leggi locali; ogni oggetto che la donna trova; gli interessi sui beni della donna; l’eredità dei suoi beni. L’intera materia è regolata da una complessa casistica che si propone di raggiungere un equilibrio, che protegga ognuna delle parti in rapporto alle proprie necessità. Ad esempio, il diritto del marito a godere del guadagno del lavoro della moglie è contemperato dall’obbligo di corresponsione degli alimenti, che il marito è tenuto a fornirle. Può essere che la donna sia svantaggiata in questo scambio, così è stato deciso che essa possa rinunciare agli alimenti e tenere per sé i proventi del proprio lavoro. In altri casi più delicati, la libertà di contrattazione è stata volutamente limitata: ad esempio l’obbligo per il marito di pagare un eventuale riscatto nel caso di rapimento della consorte, non è in alcun modo modificabile, ed è la contropartita per la donna al diritto di usufrutto, che il marito ha sui suoi beni. Il diritto del marito di ereditare i beni della propria consorte è stato messo più volte in discussione: il Talmud parla di diverse fattispecie legali, attuate dalle donne per rendere possibile e certo il passaggio in eredità dei propri beni alle figlie. Alcune comunità, per semplificare i procedimenti, hanno adottato decisioni per limitare l’automatismo di tale regola. La “halakhàh” disciplina dettagliatamente altre questioni particolari, come i rapporti morali ed il rispetto reciproco tra i coniugi, il problema del domicilio (compreso il diritto di rifiutare la coabitazione con i parenti). È considerato gravissimo picchiare la propria moglie, ancor più che nel caso di una persona qualunque, perché si ha l’obbligo di onorare la propria consorte e per colui che si sarà macchiato di un tale atto è prevista la scomunica. Anche per ciò che riguarda l’obbligo di procreare non bisogna confondere: il dovere è del marito e la donna si può rifiutare; chiaramente in questo caso se non si viene ad un accordo il matrimonio si può sciogliere. Tra i 613 precetti previsti dal diritto ebraico ve n’è un gruppo alla cui osservanza sono tenute solo le donne ebree: la “niddah”. Durante il suo ciclo mensile e dopo il parto, una donna è ritualmente impura (niddah). Nel periodo del Tempio veniva evitato persino il contatto con gli oggetti che erano stati toccati da lei; ci sono, peraltro, testimonianze che la donna vivesse in una casa separata, usanza ancora viva presso i Falasha. A una donna niddah non è permesso avere rapporti sessuali con il marito, né con altri, durante le mestruazioni; una settimana dopo il termine della mestruazione ella si purifica immergendosi in un “mikveh”. Quando le relazioni sessuali vengono riprese, è come se il matrimonio si rinnovasse (taharat ha-mishpachah). Secondo la tradizione ebraica, il sangue mestruale è la punizione di Eva per aver tentato Adamo col frutto proibito. Osservare le regole mestruali è uno dei precetti specifici che riguardano le donne, e chi non li osserva potrebbe – si dice – essere punita con la morte di parto. La determinazione della natura delle secrezioni vaginali, per essere considerate sangue, occupa gran parte della letteratura della niddah. La parola mikveh appare nella Torah nella frase “mikveh mayim” (una vasca di acqua), ed è citata soltanto un altra volta. Gli archeologi hanno scoperto “mikveh” databili prima del periodo del Secondo Tempio: queste sono collocate all’esterno del Tempio e precisamente a sud e ad ovest del muro perimetrale. Probabilmente erano usate per la purificazione dei pellegrini prima di salire al Tempio ed è, quindi, facilmente comprensibile il ritrovamento fatto nei pressi della cittadella fortificata di Masada, nel deserto vicino al Mar Morto, da parte dell’archeologo Yigael Yadin, confermato in seguito da un sopralluogo di alcuni saggi di Gerusalemme. L’immersione rituale prima del compimento di atti di natura religiosa denota insieme una rinascita ed un’elevazione dello spirito verso Dio. La originale consacrazione di Aronne e dei suoi figli a sacerdoti si attua, come primo passo, con l’immersione nel “mikveh”, attraverso la quale sono rinati ed hanno elevato il proprio status. Il rabbino Samson Raphael Hirsch assimila l’immersione della donna nel “mikveh” prima di riprendere le relazioni sessuali con il marito, all’immersione rituale del sacerdote prima di entrare nel Santuario del Tempio di Gerusalemme. Infatti, in occasione della festa dello “Yom Kippur” il climax del rituale del “mikveh” si amplifica con l’ingresso del Gran Sacerdote nel Sancta Sanctorum: in questo, prima e dopo di ognuno dei cinque atti sacrificali servizio, deve immergersi nel “mikveh”. La “halakhàh” descrive la donna come un soggetto indipendente di diritto, responsabile per le proprie azioni, sia che siano meritorie sia che siano negative. Esse rientrano nelle medesime categorie dell’uomo. Queste tradizioni, tuttavia, non sono più in vigore. Oggigiorno una donna ebrea, nonostante sia legalmente responsabile per sé, è generalmente condotta sotto il patronato di un uomo, che sarà prima suo padre o suo fratello e poi eventualmente suo marito. Come figlia è tenuta a rispettare il padre, indipendentemente dall’età e sarà poi lo stesso che si occuperà di trovarle marito: il Talmud raccomanda di chiedere sempre alla figlia se la scelta sia di suo gradimento, e ciò dimostra come quella del padre sia soprattutto opera di supervisione e procacciamento, opera questa compiuta in tempi più recenti da una figura ben precisa, lo “shadkhan”. La donna non si trova in una situazione di parità giuridica con l’uomo, circa la propria capacità di agire, nelle testimonianze processuali ed in tutti gli atti o le transazioni, sia rituali che civili. Le poche eccezioni a questa regola si hanno quando essa testimonia per liberare una “agunah”, oppure quando sono in gioco particolari normative, come quelle della “niddah” ed in altri casi minori. La “agunah” è un tipico caso di compressione dei diritti della donna: quello di una moglie il cui marito sia scomparso, senza lasciare prova della sua morte, oppure di abbandono da parte del marito, che rifiuta, altresì, di concederle il divorzio. Ella è, pertanto, posta nell’impossibilità di sposarsi. Un uomo nella medesima condizione si troverebbe in una posizione molto più favorevole: per i sefarditi, che non proibiscono la poligamia, l’uomo può sposarsi legalmente un’altra volta, mentre per gli aschenaziti, che insistono invece sulla monogamia, l’uomo può, in queste circostanze, risposarsi, se cento rabbini danno il loro assenso. Una guerra o un pogrom sono di solito seguiti da questi casi di donne vincolate, chiamate anche vedove bianche, che si appellano ai tribunali rabbinici al fine di veder chiarita la loro posizione. Poiché è un dovere aiutare una “agunah”, un “bet din” può permetterle di sposarsi anche sulla base di prove indiziarie circa l’effettiva morte del marito, quali la testimonianza della stessa donna, quella di un apostata, o anche solo sulla base di una prova documentale. Il fondamento logico giuridico di questa tesi è che se il marito fosse ancora in vita, si rischierebbe di avallare una falsa testimonianza, dato che egli potrebbe reclamare la moglie in qualsiasi momento. Tra l’altro, cosa assai più grave, nel caso di errore, la ricomparsa del primo marito rende tutti i figli nati dal nuovo matrimonio “mamzerim”, e la donna è costretta a lasciare il secondo marito, dato che hanno commesso adulterio. Molti tentativi sono stati compiuti per introdurre una clausola ad hoc nella “ketubàh”, rendendo possibile così l’annullamento retroattivo del matrimonio, nel caso la donna divenisse una “agunah”. Tuttavia questi sforzi si sono sempre infranti dinanzi ai pareri del rabbinato ortodosso, negando di fatto alla donna l’acquisto di un ulteriore margine di capacità giuridica. In questo quadro la “ketubàh” si propone di fare da contrappeso nei rapporti tra uomo e donna all’interno della famiglia. È necessario sottolineare come sia il celibato sia il nubilato vengano accoratamente sconsigliati e disincentivati. Gli obblighi del marito sono pubblicamente resi noti durante la cerimonia mediante la lettura della “ketubàh”, che essendo prima di tutto un contratto è strettamente vincolante per l’uomo. I contenuti di tale contratto sono strutturati in modo da garantire la moglie nelle fasi salienti della vita matrimoniale, ivi compresi i casi di morte o divorzio, occupandosi anche ed in modo dettagliato della parte patrimoniale. Nel diritto ebraico si può sostenere che il divorzio sia tollerato, ma caldamente sconsigliato, se non in casi estremi in cui il rabbino non sia riuscito in alcun modo a conciliare gli sposi. Il divorzio, come il matrimonio, è nel diritto ebraico un contratto: è necessario, perciò, il consenso di entrambe le parti per giungere alla chiusura della vertenza. Tuttavia il marito può concedere il divorzio alla moglie, ma non viceversa e potrebbe, secondo il diritto talmudico, comunque risposarsi. A queste condizioni si è posto rimedio, mettendo il marito in una condizione tale da non poter rifiutare il divorzio alla moglie, minacciandolo con pene detentive e, addirittura, con la fustigazione. Mentre la “halakhàh” nulla specifica circa le cause di divorzio, essa è estremamente esaustiva nel fornire ogni dettaglio della procedura. Sono tre i casi in cui una donna può pretendere dai tribunali un intervento nei confronti del marito: nel caso in cui il marito sia affetto da non meglio precisate malattie o difetti che lo rendano invincibilmente sgradito alla moglie; nel caso in cui il marito abbia violato o trascurato i suoi obblighi essenziali; nel caso di una invincibile incompatibilità sessuale. Circa l’ultima possibilità, le autorità sono molto attente nel verificare che non sia una scusa per “l’aver messo gli occhi su altro uomo”. In molti sistemi legislativi è la Corte che decide quando un divorzio è legittimo. Nel diritto ebraico non è la Corte a decidere, ma la concertazione delle parti: il mutuo consenso, l’accordo tra le parti è sufficiente. La funzione della Corte è quella di intervenire quando non sia possibile un accordo tra le parti, per garantire che siano rispettate le condizioni previste dalla legge e dalla “ketubàh” per il divorzio. In mancanza di questo accordo le Corti rabbiniche sono impegnate a valutare se vi siano le basi legali per costringere il marito a concedere il “get” o la donna a riceverlo. Nei casi previsti dalla “halakhàh” la Corte può costringere coattivamente il coniuge recalcitrante: questi metodi sono particolarmente usati quando è in pericolo il sostentamento delle mogli. Il Maimonide stesso afferma che “se uno è obbligato dalla legge a divorziare da sua moglie e rifiuta di fare ciò, una corte ebraica in qualunque luogo ed in qualunque momento può sottoporlo a fustigazione fino a che non dichiari: Io voglio. Egli poi scrive il get di suo pugno e questo è un contratto di divorzio valido”. Nei casi in cui la moglie rifiuti di ricevere il divorzio, il marito può concluderlo unilateralmente, alle seguenti condizioni: la moglie si converte ad altra religione o coscientemente trasgredisce alle regole di vita del diritto ebraico; la moglie commette adulterio o il marito produce due testimoni che possono giurare ciò in maniera inequivocabile; la moglie è colpevole di comportamenti indecenti o smodati; la moglie insulta pesantemente e pubblicamente il marito o il suocero; la moglie rifiuta relazioni sessuali per più di un anno; la moglie soffre di disturbi o malattie che impediscano i rapporti sessuali; la moglie è sterile trascorsi dieci anni di matrimonio; la moglie ingiustificatamente rifiuta di seguire il marito in un altro domicilio nello stesso stato dove lo standard di vita non è inferiore; la moglie rifiuta di emigrare in Israele. Ugualmente la moglie può costringere il marito a concederle il divorzio, in ognuna delle seguenti circostanze: il marito cambia religione o forza la moglie a non osservare le norme ben sapendo che ella è osservante; il marito è un libertino o ha commesso adulterio; il marito soffre di gravi deficienze fisiche; la moglie ha un’invincibile repulsione per il marito che le impedisce di avere rapporti con lui; il marito rifiuta di avere relazioni sessuali con lei; il marito insiste di avere relazioni sessuali mentre è vestita; il marito diventa invalido fino al punto che, per un periodo di più di sei mesi, le relazioni sessuali non sono possibili; la moglie afferma che il marito è impotente; la moglie vuole dei figli, ma il marito non è in grado di darglieli; il marito puzza; il marito fa un mestiere disgustoso; il marito è usualmente un piantagrane e la butta abitualmente fuori di casa; il marito abitualmente la picchia; il marito manca di essere di sostegno a sua moglie; il marito inspiegabilmente le impedisce di visitare i suoi genitori abitualmente; il marito le impedisce di andare ad un matrimonio o di far visita di cordoglio a chi è in lutto; il marito insiste a vivere coi genitori quando è chiaro che le sono contro; il marito le impedisce di farsi bella; la moglie vorrebbe lasciare un vicino indesiderabile ed il marito inspiegabilmente rifiuta; la moglie desidera trasferirsi in Israele, ma suo marito rifiuta. Ai tempi biblici, quando era ancora in uso il concubinato, non era necessaria la stesura del “get”, per ripudiare una delle concubine, ma era già in uso per il ripudio della propria moglie o di una delle proprie mogli. La Torah descrive questo documento come un “libro di separazione”, che il marito deve scrivere per la moglie e darle in mano prima di mandarla fuori casa. Il “get” deve essere concesso dal marito volontariamente e senza riserve mentali, altrimenti risulta invalido. Per essere certi di questo e per ovviare ad ogni tipo di dubbio che il libello sia stato concesso con qualche riserva mentale o scritta, così da risultare contrario alla legge, prima che il “get” venga scritto, il marito deve dichiarare di aver annullato qualunque patto, scritto o verbale, precedente. La moglie ha diritti simili a quelli del marito e deve consapevolmente con la piena volontà, senza riserve, accettare il “get”. Il marito, quindi, non può divorziare contro la volontà della moglie; questo anche al fine di scoraggiare, la poligamia. Oggi si risolve tutto in un problema di accordo tra le parti, poiché, visto che ben difficilmente si continua a convivere con una persona che si sa non volerci, la questione si sposta facilmente sul piano patrimoniale. Comunque in caso di disaccordo tra i coniugi entra in gioco il “bet din”, che ha come primo compito quello di tentare una conciliazione e come secondo quello di incanalare le parti verso una soluzione di compromesso. La procedura relativa alla stesura di questo documento, visto il rischio intrinseco di cadere nell’adulterio in caso di errori, è assai puntigliosa. Ai giorni nostri il “get” è, in realtà, scritto da uno scriba nominato dal “bet din”: il testo in aramaico contiene un’esposizione, che deve essere priva di ambiguità, dei nomi del marito e della moglie, della localizzazione (compresi i punti di riferimento quali fiumi, laghi, montagne), la data in cui è stato scritto, le generalità dei due testimoni, nonché soprannomi o altri appellativi a cui eventualmente rispondessero le parti in causa. Purtroppo sono sorti grossi problemi, a proposito dei matrimoni misti, nei rapporti tra comunità ortodosse e comunità riformate, non riconoscendo le prime la validità dei divorzi compiuti dalle seconde. Si ritiene che il “get” abbia avuto origine nell’antichità, e si presume che Abramo stesso abbia dato il “get” alla sua schiava Hagar, quando la cacciò dietro le insistenze della gelosa Sarah. Difatti in origine una certa forma di “get” non era usata solamente per ripudiare la propria moglie, ma anche per dare la libertà agli schiavi in occasione per esempio del giubileo. Ma le sacre nozze di Maria Santissima e San Giuseppe furono davvero speciali. “La pienezza dei tempi è vicina – scrive J.A. Loarte – Colei che è stata predestinata a diventare la Madre di Dio, ancora non lo sa. È cresciuta e si è fatta donna; ma la SS. Trinità le prepara un santo matrimonio che salvaguarderà la sua verginità. Il Figlio di Dio fatto uomo, Messia di Israele e Redentore del mondo, deve nascere e crescere in seno a una famiglia. È molto probabile – tutti gli indizi convergono in questa direzione – che a quel tempo i genitori della Madonna fossero già morti. Maria probabilmente viveva in casa di qualche parente, che si era preso cura di Lei quando era rimasta orfana. Avvicinandosi l’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio, intorno ai quindici anni, il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, dovette occuparsi della questione. E fu concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe, l’artigiano di Nazaret. Poche sono le notizie che i Vangeli ci danno sullo sposo di Maria. Sappiamo che anche lui apparteneva alla casa di Davide e che era un uomo giusto (Mt 1, 19), vale a dire, un uomo che – come afferma la Scrittura – si compiace della Legge del Signore, e la sua Legge medita giorno e notte (Sal 1, 2). La liturgia applica a lui alcune frasi ispirate: il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano (Sal 91 [92], 13). Il vangelo di San Luca narra che quando l’Arcangelo Gabriele le annuncia, da parte di Dio, il concepimento di un figlio, Maria risponde: Come è possibile? Non conosco uomo (Lc 1, 34). Questa risposta, quando era già promessa a Giuseppe di Nazaret, ha una sola spiegazione: Maria aveva il fermo proposito di rimanere vergine. Non vi sono motivi umani che giustifichino questa decisione, piuttosto rara a quei tempi. Ogni ragazza israelita, e ancor più se faceva parte della discendenza di Davide, coltivava nel suo cuore la gioia di essere annoverata fra gli antenati del Messia. Il Magistero della Chiesa e i teologi spiegano questo fermo proposito come frutto di una specialissima ispirazione dello Spirito Santo, che stava preparando Colei che sarebbe stata la Madre di Dio. Il medesimo Spirito le fece incontrare l’uomo che sarebbe stato il suo sposo verginale. Non sappiamo come Maria e Giuseppe s’incontrarono. Se la Madonna, come è probabile, abitava a Nazaret – un piccolo villaggio della Galilea -, si conoscevano da tempo. In ogni caso, prima della celebrazione dello sposalizio, Maria dovette comunicare a Giuseppe il suo proposito di rimanere vergine. E Giuseppe, preparato dallo Spirito Santo, dovette scoprire in questa rivelazione una voce del Cielo: molto probabilmente anche lui si era sentito spinto interiormente a dedicarsi anima e corpo al Signore. Deve essere stata straordinaria l’armonia che si stabilì immediatamente tra questi due cuori, così come la pace interiore che traboccava dalle loro anime. Tutto è molto soprannaturale in questo episodio della vita di Maria e, nello stesso tempo, tutto è molto umano. La stessa semplicità – tanto caratteristica delle cose divine – caratterizza la leggenda che subito si formò sullo sposalizio di Maria e Giuseppe; un racconto pieno di episodi meravigliosi, che l’arte e la letteratura hanno immortalato. Secondo queste fonti, quando Maria arrivò all’età di contrarre matrimonio, Dio mostrò miracolosamente ai sacerdoti del Tempio di Gerusalemme e a tutto il popolo chi era l’eletto quale sposo di Maria. Il fatto storico dovette essere molto più semplice. Il luogo dello sposalizio poté anche essere Nazaret. Quando la famiglia di Maria raggiunse un accordo con Giuseppe, fu celebrato lo sposalizio, che per la Legge mosaica aveva la stessa forza del matrimonio. Trascorso un certo tempo, lo sposo doveva condurre la promessa sposa nella propria casa. In questo lasso di tempo ebbe luogo l’Annunciazione. Questo episodio della vita di Maria riveste una grande importanza. Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine – Figlio di Dio – il titolo legale di figlio di Davide, adempiendo così le profezie. A Giuseppe, nobile di sangue e ancor più nobile di spirito, la Chiesa applica l’elogio che la Sapienza divina aveva fatto di Mosè: fu amato da Dio e dagli uomini:[…] il suo ricordo è benedizione (Sir 45, 1). Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un uomo giusto che l’ama e la protegge. Giuseppe sa solo che il Signore vuole che protegga Maria in vista delle nozze divine della Vergine con lo Spirito Santo. Israele ignora questa coppia di novelli sposi: Giuseppe sempre in silenzio, Maria sempre discreta. Dio, però, si compiace e gli angeli si meravigliano”. Il Magistero, i Padri della Chiesa, i Santi, gli artisti e i poeti, nel corso dei secoli, si sono soffermati sulla scena del matrimonio della Madonna con Giuseppe. Scrive il Beato Giovanni Paolo II nella sua Catechesi mariana nell’udienza del 21 Agosto 1996:«Presentando Maria come “vergine”, il Vangelo di Luca aggiunge che era “promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe” (Lc 1, 27). Queste informazioni appaiono, a prima vista, contraddittorie. Occorre notare che il termine greco usato in questo passo non indica la situazione di una donna che ha contratto il matrimonio e vive pertanto nello stato matrimoniale, ma quella del fidanzamento. A differenza di quanto avviene nelle culture moderne, però, nel costume giudaico antico l’istituto del fidanzamento prevedeva un contratto e aveva normalmente valore definitivo: introduceva, infatti, i fidanzati nello stato matrimoniale, anche se il matrimonio si compiva in pienezza allorché il giovane conduceva la ragazza nella sua casa. Al momento dell’Annunciazione, Maria si trova dunque nella situazione di promessa sposa. Ci si può domandare perché mai abbia accettato il fidanzamento, dal momento che aveva fatto il proposito di rimanere vergine per sempre. Luca è consapevole di tale difficoltà, ma si limita a registrare la situazione senza apportare spiegazioni. Il fatto che l’Evangelista, pur evidenziando il proposito di verginità di Maria, la presenti ugualmente come sposa di Giuseppe costituisce un segno della attendibilità storica di ambedue le notizie. Si può supporre che tra Giuseppe e Maria, al momento del fidanzamento, vi fosse un’intesa sul progetto di vita verginale. Del resto, lo Spirito Santo, che aveva ispirato a Maria la scelta della verginità in vista del mistero dell’Incarnazione e voleva che questo avvenisse in un contesto familiare idoneo alla crescita del Bambino, poté ben suscitare anche in Giuseppe l’ideale della verginità. L’angelo del Signore, apparendogli in sogno, gli dice: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt 1, 20). Egli riceve così la conferma di essere chiamato a vivere in modo del tutto speciale la via del matrimonio. Attraverso la comunione verginale con la donna prescelta per dare alla luce Gesù, Dio lo chiama a cooperare alla realizzazione del suo disegno di salvezza. Il tipo di matrimonio verso cui lo Spirito Santo orienta Maria e Giuseppe è comprensibile solo nel contesto del piano salvifico e nell’ambito di un’alta spiritualità. La realizzazione concreta del mistero dell’Incarnazione esigeva una nascita verginale che mettesse in risalto la filiazione divina e, al tempo stesso, una famiglia che potesse assicurare il normale sviluppo della personalità del Bambino. Proprio in vista del loro contributo al mistero dell’Incarnazione del Verbo, Giuseppe e Maria hanno ricevuto la grazia di vivere insieme il carisma della verginità e il dono del matrimonio. La comunione d’amore verginale di Maria e Giuseppe, pur costituendo un caso specialissimo, legato alla realizzazione concreta del mistero dell’Incarnazione, è stata tuttavia un vero matrimonio. La difficoltà di accostarsi al mistero sublime della loro comunione sponsale ha indotto alcuni, sin dal II secolo, ad attribuire a Giuseppe un’età avanzata e a considerarlo il custode, più che lo sposo di Maria. È il caso di supporre, invece, che egli non fosse allora un uomo anziano, ma che la sua perfezione interiore, frutto della grazia, lo portasse a vivere con affetto verginale la relazione sponsale con Maria. La cooperazione di Giuseppe al mistero dell’Incarnazione comprende anche l’esercizio del ruolo paterno nei confronti di Gesù. Tale funzione gli è riconosciuta dall’angelo che, apparendogli in sogno, lo invita a dare il nome al Bambino: “Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1, 21)». Altrettanto forte è la voce dei Padri della Chiesa. Scrive San Gregorio di Nissa (IV secolo) nell’Omelia sulla Natività del Signore:«Quando la bambina crebbe, tanto da non dover essere più allattata, i suoi genitori si affrettarono a portarla al tempio per offrirla a Dio, adempiendo così la promessa che avevano fatto. I sacerdoti la educarono nel santuario, allo stesso modo in cui era stato educato Samuele (1 Sam 1, 24 ss). Poi, quando raggiunse l’età dell’adolescenza, tennero consiglio per stabilire cosa fare di quel corpo santo senza offendere il Signore. Sembrò assurdo farla sottostare alle leggi della natura dandola come sposa a un uomo; pensavano che fosse un sacrilegio che un uomo diventasse il padrone di ciò che era stato consacrato al Signore. In effetti, era conforme alla legge che l’uomo diventasse il padrone della propria sposa. D’altra parte, la legge non permetteva che una donna abitasse nel tempio insieme ai sacerdoti e si mostrasse all’interno del santuario, cosa contraria anche al decoro e alla dignità della legge. Dopo aver discusso di questi problemi, presero una decisione veramente ispirata: affidarla, sotto la figura di un matrimonio, a un uomo che offrisse tutte le garanzie di rispettare la sua verginità. L’uomo adatto a quella situazione fu trovato in Giuseppe. Del resto, era della stessa tribù e della stessa famiglia della Madonna. Seguendo il consiglio dei sacerdoti, Giuseppe sposò la ragazza, ma ogni rapporto coniugale restò escluso da quelle nozze». Sant’Ambrogio (IV secolo) nel Trattato sul Vangelo di San Luca (libro II, n. 1) scrive:«Non c’è dubbio che i misteri divini sono occulti e, come ha detto il profeta, non è facile per l’uomo, chiunque esso sia, arrivare a conoscere i disegni di Dio (cfr. Is 40, 13). Per questo l’insieme delle azioni e degli insegnamenti di nostro Signore e Salvatore ci fanno capire che un disegno ben ponderato ha fatto scegliere, come Madre del Signore, Colei che si era sposata con un uomo. Ma, perché non fu resa madre prima dello sposalizio? Probabilmente perché non si potesse dire che si trattava di un concepimento adulterino. Non per nulla la Scrittura ha dato queste due indicazioni: Ella era sposa e vergine. Vergine, affinché non apparisse macchiata dalla relazione con un uomo; sposata, per sottrarla alla reputazione infamante di una verginità perduta, dato che la gravidanza sarebbe potuta essere la manifestazione di una sua caduta. Il Signore ha preferito permettere che alcuni dubitassero dell’origine della gravidanza piuttosto che della purezza di sua Madre. Egli sapeva quanto sia delicato l’onore di una vergine, quanto sia fragile la fama del pudore; non giudicò conveniente provare la verità della sua origine a spese di sua Madre. Così fu preservata la verginità di Santa Maria, senza pregiudizio per la sua purezza e senza violare la sua reputazione». La voce dei Santi esalta il mistero delle nozze tra Maria e Giuseppe. San Bernardino da Siena (XV secolo) nel Sermone Secondo su San Giuseppe (7. 16. 27-30) scrive: «È regola generale di tutte le singole grazie comunicate a una creatura razionale che, quando la grazia divina sceglie qualcuno per un ufficio speciale o per uno stato molto elevato, conceda a quella persona tutti i carismi necessari per il ministero che deve adempiere, e di essi l’adorni a profusione. Questo si è realizzato in modo eccelso nella persona di san Giuseppe, che ha fatto le veci di padre di nostro Signore Gesù Cristo e che è stato vero sposo della Regina dell’universo e Signora degli angeli. Giuseppe è stato scelto dall’eterno Padre come protettore e custode fedele dei suoi principali tesori, vale a dire, di suo Figlio e della sua Sposa, e ha adempiuto il suo ufficio con assoluta fedeltà. Per questo il Signore gli dice: Bene, servo buono e fedele […]; prendi parte alla gioia del tuo Padrone (Mt 25, 21). Se esaminiamo la relazione che ha Giuseppe con la Chiesa universale, non è questo l’uomo scelto con particolare cura attraverso il quale e sotto il quale Cristo fu introdotto nel mondo in modo ordinato e plausibile? Pertanto, se tutta la Chiesa è in debito con la Vergine Madre, perché per mezzo suo ha ricevuto Cristo, in modo simile deve a Giuseppe, dopo che a Maria, una gratitudine e una reverenza speciali. Giuseppe rappresenta il fermaglio che chiude l’Antico Testamento, perché in lui la dignità patriarcale e profetica raggiunge il frutto promesso. Inoltre, egli è l’unico che ha posseduto fisicamente ciò che la benevolenza divina aveva promesso ai patriarchi e ai profeti. Dobbiamo supporre, senza alcun dubbio, che la familiarità, il rispetto e l’altissima dignità che Cristo tributò a Giuseppe mentre viveva qui sulla terra, come un figlio al proprio padre, non gli saranno stati negati in cielo; al contrario, l’avrà colmato e consumato». Santa Teresa di Gesù (XVI secolo) nel Libro della mia vita (cap. 6, nn. 6-8) scrive: «Io presi per mio avvocato e patrono il glorioso San Giuseppe, e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nella necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi in cui era in gioco il mio onore e la salute dell’anima mia. Ho visto chiaramente che il suo aiuto mi fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare. Non mi ricordo finora di averlo mai pregato di una grazia senza averla subito ottenuta. Ed è cosa che fa meraviglia ricordare i grandi favori che il Signore mi ha fatto e i pericoli di anima e di corpo da cui mi ha liberata per l’intercessione di questo santo benedetto. Ad altri santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso San Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte. Con ciò il Signore vuol darci a intendere che, a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, altrettanto gli sia ora in cielo nel fare tutto ciò che gli chiede […]. Per la grande esperienza che ho dei favori di San Giuseppe, vorrei che tutti si persuadessero ad essergli devoti. Non ho conosciuta persona che gli sia veramente devota e gli renda qualche particolare servizio senza far progressi in virtù. Egli aiuta moltissimo chi si raccomanda a lui. È già da vari anni che nel giorno della sua festa io gli chiedo qualche grazia, e sempre mi sono vista esaudita. Se la mia domanda non è tanto retta, egli la raddrizza per il mio maggior bene. Se la mia parola potesse essere autorevole, ben volentieri mi dilungherei nel narrare dettagliatamente le grazie che questo Santo glorioso ha fatto a me e ad altri, ma per non varcare i limiti che mi furono imposti, in molte cose sarò più breve di quanto vorrei, e in altre più lunga del bisogno: insomma, come colei che ha poca discrezione in tutto ciò che è bene. Chiedo solo per amore di Dio che chi non mi crede ne faccia la prova, e vedrà per esperienza come sia vantaggioso raccomandarsi a questo glorioso Patriarca ed essergli devoti. Gli devono essere affezionate specialmente le persone di orazione, perché non so come si possa pensare alla Regina degli angeli e al molto da lei sofferto col Bambino Gesù, senza ringraziare San Giuseppe che fu loro di tanto aiuto. Chi non avesse maestro da cui imparare a far orazione, prenda per guida questo Santo glorioso, e non sbaglierà». San Josemaría Escrivá (XX secolo) nel suo “È Gesù che passa”(n. 40) scrive: «Non sono d’accordo con il modo tradizionale di raffigurare san Giuseppe come un vecchio, anche se riconosco la buona intenzione di dare risalto alla verginità perpetua di Maria. Io lo immagino giovane, forte, forse con qualche anno in più della Madonna, ma nella pienezza dell’età e delle forze fisiche. Per praticare la virtù della castità non c’è bisogno di attendere la vecchiaia o la perdita del vigore. La purezza nasce dall’amore, e non sono un ostacolo per l’amore puro la forza e la gioia della giovinezza. Erano giovani il cuore e il corpo di Giuseppe quando contrasse matrimonio con Maria, quando conobbe il mistero della sua Maternità divina, quando le visse accanto rispettando quell’integrità che Dio affidava al mondo come uno dei segni della sua venuta tra gli uomini. Chi non è capace di capire tale amore vuol dire che sa ben poco del vero amore e che ignora totalmente il senso cristiano della castità». Altrettanto significativa è l’analisi offerta da Paolo Farinella nel suo libro “Bibbia, parole, segreti, misteri”(Gabrielli Editori 2009, 37-47) in riferimento alle “altre” nozze, quelle di Cana. “La Mishnàh (Qiddushìn – Matrimonio 1,1) insegna: «Una donna è acquistata (ebr.: qanàh;) in tre modi: con denaro, con contratto e con rapporti sessuali»; allo stesso modo si acquista uno schiavo (cf Mishnàh, Qiddushìn 3,1). È importante sottolineare il senso che gli Ebrei davano al matrimonio come «acquisto» della donna, perché la riprenderemo nell’esegesi che faremo del nome della cittadina dove «avvenne» lo sposalizio, cioè «Cana» che, etimologicamente, deriva dal verbo ebraico «qanàh» che significa «acquistare», da cui si capisce perché la Mishnàh parla di «donna acquistata». Con le nozze la donna diventa «una proprietà» dell’uomo che, appunto, al momento di prenderla in casa, la compra versando il «prezzo» concordato alla famiglia di lei. In alcune parti, specialmente in campagna e nei villaggi c’era l’usanza che la dote versata dal fidanzato fosse corrispondente al «peso» della donna che, quindi, la famiglia faceva ingrassare l’anno di fidanzamento precedente il matrimonio. In ebraico «essere pesante» si dice «kabèd», che deriva dal sostantivo «kabòd» che vuol dire «gloria»; una persona gloriosa è una persona «pesante», cioè consistente, stabile, solida. Una persona magra, un capo, una donna, hanno poca consistenza e quindi valgono poco. Fin dalla creazione il matrimonio è parte integrante del disegno di Dio, che crea un uomo e una donna perché insieme, uniti sessualmente, siano «immagine di Dio». In Genesi 1,27 infatti si legge che «Dio creò Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: “zakàr weneqebàch” li creò», dove l’espressione ebraica significa propriamente «pungente e perforata» che apre una prospettiva straordinaria sulla personalità «nuova» che realizza il matrimonio perché è nel rapporto sessuale che si manifesta in piena compiutezza l’immagine di Dio. È qui che trova il suo compimento e la sua maturità la «chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11) che nell’intima unione degli sposi esprime e rivela profeticamente l’unità indissolubile del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Non solo, ma il matrimonio monogamico è un richiamo costante al matrimonio di Dio e Israele, la nazione che Dio «si è acquistata» tra tutte le nazioni della terra (cf Es 15,16; Dt 7,6; 14,2; Os 2,21-22), allo stesso modo che la Chiesa, sposa di Cristo, è stata «acquistata» con il sangue di Cristo (cf At 20,28; Ef 5,23-24.32). Sul tema della nuzialità esclusiva, è sufficiente rimandare al Cantico dei Cantici che è l’inno esplosivo dell’amore senza fine. Nella tradizione giudaica odierna, che affonda le sue radici in quella antica del midràsh (cf Genesi Rabbà 11,9), il venerdì sera, al tramonto, quando lo Shabàt entra nel tempo e nello spazio d’Israele, il popolo radunato nella sinagoga, intona il canto «Lekhàh Dodì – Vieni, Amore mio», mentre tutta l’assemblea si volta verso la porta d’ingresso per accogliere lo «Shabàt» che incede come una fidanzata, una sposa che va alle nozze, accolta dall’Israele orante come una regina. Il giorno del Signore, segnato dalla nuzialità, permea e pervade ogni respiro, il tempo, lo spazio e anche l’anelito di ogni israelita. Questa personificazione della nuzialità sabatica è antica ed è testimoniata dal Talmud di Babilonia (cf Shabàt 119a)2. Il matrimonio è talmente importante per Israele che il sommo sacerdote non sposato non poteva presiedere la liturgia del giorno di «Yom Kippùr» (ddj, Marriage, 701). Non è un caso che la tradizione giudaica chiama il matrimonio «qiddushìn – santificazione» perché in esso si santifica il Nome di Dio, creatore e tre volte Santo (cf Is 6,3). Non è solo un contratto tra un uomo e una donna, ma l’attuazione del comandamento di Dio che dona, «conduce» Eva ad Adam, il quale la riconosce «carne e osso» di se stesso (cf Gen 2,22-23). Nulla può essere anteposto al matrimonio che ha la precedenza anche sulla sicurezza di Israele, perché la Toràh stabilisce che il giovane appena sposato è esentato anche dal dovere militare: «Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato» (Dt 24,5; cf 20,7)”. Il matrimonio ebraico, dunque, è un evento sociale. “Di norma, il matrimonio si celebra al compimento della maggiore età, che al tempo di Gesù avveniva a 12 anni compiuti (quindi all’inizio del 13°) sia per la donna che per l’uomo, comunque mai prima della pubertà (Talmud, Sanhedrìn 76b), anche se i genitori potevano promettere i figli in sposa o sposo subito dopo la nascita. Il matrimonio non era una scelta personale, ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (cf Gen 24,35-53; 38,6). I figli minori non potevano rifiutarsi di sposare i contraenti scelti dalle rispettive famiglie, mentre la donna maggiorenne aveva voce in capitolo e poteva anche rifiutarsi. Al tempo del secondo Tempio, quindi anche al tempo di Gesù, in due sole occasioni i giovani potevano scegliersi la moglie tra le ragazze: nella festa popolare del 15° giorno del mese di Av (agosto-settembre) e nella festa di Yom Kippùr (Mishnàh, Taanit – Digiuno 4,8): le ragazze, tutte vestite di bianco (per evitare che le povere fossero discriminate), andavano a danzare nei vigneti sotto lo sguardo attento dei ragazzi che potevano così scegliersi la moglie.
Una volta accettata la proposta di matrimonio da parte del padre della donna o, in sua assenza del fratello più anziano, si contrattava il prezzo (la dote), il mohàr, cioè la somma che lo sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella «era acquistata» e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo”. La legge giudaica mette in rilievo che nel matrimonio è l’uomo che sposa la donna, non viceversa. Il matrimonio ebraico è una festa popolare. “Il matrimonio si celebrava, di solito, dopo un anno di fidanzamento (cf 1Sam 18,17-19; Mishnàh, Ketubòt 5,2) senza alcuna cerimonia religiosa, trattandosi di un evento civile che solo i libri tardivi chiamano «alleanza» (cf Ml 2,4; Pr 2,17). Lo sposalizio era, ieri come oggi, l’occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d’amore in onore degli sposi (cf Ct 4,1-7) a cui seguiva un banchetto (cf Gen 29,27; Gdc 14,10) che di norma durava sette giorni. Al tempo di Gesù, il matrimonio era considerato ancora uno strumento di alleanze tra famiglie, per cui gli inviti erano fatti con molta attenzione. Alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l’intero parentado. Poiché nulla doveva essere fuori posto, un ruolo importante avevano «gli amici dello sposo» (shoshbinìm) i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati (shoshbinùt). I regali erano importanti: venivano in un certo senso catalogati perché in occasione del matrimonio della famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto doveva restituirlo nella stessa entità; in caso di inadempienza si poteva esigerlo per via legale. In questo senso non si tratta veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera «partita di giro» che finiva per costituire una leva potente della economia dell’epoca. Le provviste di cibo e bevande, tra cui troneggia naturalmente il vino, non rientrano tra i regali, ma appartengono alla regola della cortesia parentale o del vicinato. Il Talmùd (Babà Bathrà 144b) però, tra i doni nuziali descrive giare piene di vino o di olio. La durata della festa nuziale è di una settimana come avviene per Giacobbe e Lia (cf Gen 29,22. 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh prescriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del banchetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo vestito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto”. Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare. “La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il motivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a settimana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accusarla di adulterio e pretenderne la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì. Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ) invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo «jus primae noctis». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mercoledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» (Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (martedì) e i saggi non vi si opposero» (Mishnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c). Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Genesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703)”. Il matrimonio è la benedizione d’Israele. “La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nuziale e le coprivano il volto con un velo che le nascondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva togliere il velo e sciogliere la cintura che simboleggiava la sposa «ornamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11). Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un contratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa paterna per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa paterna, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, intonava canti di lamentazione per il dispiacere di abbandonare la sua famiglia. Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali maschili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per tenere caldo e far maturare il seme maschile. Essere benedetti significa, quindi, ricevere la capacità generativa; una donna, infatti, senza figli è una maledizione per la famiglia e per il popolo e viene considerata alla stessa stregua di una lebbrosa. Terminata la benedizione settenaria, il fidanzato consegna alla promessa sposa un anello o del denaro, mentre pronuncia queste parole: «Ecco, ora tu sei santificata per me, secondo la religione di Mosè e di Israele» (cf Tb 7,12-14). Il termine «santificato/a» è importante. In ebraico «santo» si dice «qadòsh» ed è un attributo di Dio, proclamato in cielo e in terra: «Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh – Santo, Santo, Santo» (Is 6,3; Ap 4,8); anche il tempio, che simboleggia la Presenza-Shekinàh nel suo insieme si chiama «Miqdàsh – santuario» (da santità), mentre la parte interna pubblica si chiama «Qadòsh/Qodèsh – Santo», e quella più interna del tempio, separata da un velo, dove è custodita l’arca dell’alleanza, si chiama «Qadòsh haqqadashìm – Santo dei Santi» (Es 26,33). Questa santità che promana da Dio e dal luogo della sua presenza, almeno nel senso delle parole, è trasferita anche nel matrimonio che in ebraico si dice «Qeddushìm – santificazione/consacrazione» e come tutte le realtà «santificate», al momento delle nozze la sposa diventa consacrata al marito, cioè separata da tutto il resto per essere esclusività sua. Da qui nasce il senso dell’unicità e indissolubilità del matrimonio che nel Nuovo Testamento diventerà esplicito (Mc 10,9; Mt 19,6). Il matrimonio è così importante che per la tradizione ebraica del post-esilio cancella tutti i peccati dell’uomo e ha la precedenza sullo stesso studio della Toràh (cf Dej, Marriage, 707). Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la donna fosse veramente vergine. A questo scopo, gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo venisse fuori con «i segni della verginità» (betulìm): un panno bianco macchiato del sangue della sposa, che veniva conservato gelosamente da ogni donna. Se la sposa non era vergine veniva immediatamente denunciata al tribunale, il mattino seguente e ripudiata: l’uomo poteva esigerne la lapidazione per adulterio”. La descrizione dello svolgersi dello sposalizio al tempo di Gesù, in un contesto sociale centrato esclusivamente sulla figura maschile, riguarda la storia di Israele. “Oggi non potrebbe essere più così perché la concezione della donna non è di pura appartenenza all’uomo, ma donna e uomo, insieme, sono immagine di Dio e insieme alla pari esprimono il mistero di Dio che è Amore perché nella nostra cultura la donna è andata acquistando in secoli di lento e costante processo una parità, almeno formale, che resta comunque sempre una meta, perché mai realizzata appieno. Tutti questi fatti esterni dicono però che il matrimonio per gli Ebrei era un dovere duplice sul piano strettamente religioso: obbedire al comando di Dio che chiama la coppia alla fecondità generativa (cf Gen 1,28) e aumentare figli per la casa di Israele. Partecipare alla festa nuziale era sentito come un dovere religioso «obbligatorio» perché veniva inteso come una partecipazione all’atto creativo di Dio che associava a sé creatore, la nuova coppia chiamata a generare nuovi figli. È logico e naturale pensare che sul matrimonio come evento sociale e fondamento del futuro di Israele si sviluppasse una teologia profonda basata sui simboli. Lo sposalizio tra un uomo e una donna diventa istintivamente il simbolo delle nozze di alleanza tra Dio e Israele. Dio è lo sposo e Israele è la sposa. I profeti utilizzeranno molto questa simbologia, specialmente il profeta Osea che addirittura ne fa una parabola della sua vita come profezia vivente dell’agire di Dio così innamorato del suo popolo che lo ama anche quando si prostituisce nell’idolatria (cf Os 1,2-3,5). L’amore di Dio è un amore senza contropartita perché egli non ama per suo interesse, ma ama perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8). Le nozze di Cana sono state un fatto vero a cui fu invitata la madre di Gesù e probabilmente Gesù vi prese parte con i suoi discepoli perché di passaggio per la sua regione, un passaggio che come vedremo, l’autore legge in modo simbolico perché non va solo lui, ma si porta dietro «gli amici dello sposo», i suoi discepoli. Forse la famiglia degli sposi aveva un qualche rapporto di parentela con quella di Gesù. Nulla sappiamo di certo. Sappiamo solo che in queste nozze, così importanti per la vita di un villaggio ebraico del primo secolo, manca del tutto la sposa e lo sposo è citato due volte per mettere in evidenza la sua improvvida organizzazione. È evidente che Giovanni partendo dal fatto storico ordinario nella sua consuetudine, vuole portare il lettore ad un livello di senso più profondo e più grande: ad approfondire il significato simbolico delle nozze dell’alleanza che con Gesù assume un valore nuovo ed eterno (cf Ger 31,31). Crediamo che al racconto dello sposalizio di Cana si possano attribuire le parole con cui il midràsh presenta il Cantico dei Cantici: «Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricàvane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta. Poi tornò e gli disse: “Dalle dieci staia ricàvane sei”. E Poi: “Dalle sei, ricàvane quattro”. Così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Toràh scelse i profeti, dai profeti gli agiografi, e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici». Come il Cantico, anche il racconto dello sposalizio di Cana è il succo del succo di tutta la salvezza che entra nella storia ed esprime nella sua densità il cuore stesso dell’intera rivelazione: l’amore di Dio per il suo popolo, segno dell’amore a perdere di Dio per l’umanità intera, di cui il simbolo è la relazione uomo donna, l’esperienza umana più radicale di conoscenza che esiste in natura”. Perchè tutto è possibile a Dio. Il sommo matrimonio verginale di Maria Santissima, allora, è anche una bella poesia di Giovanni Costantini:“Nel Matrimonio Di Verginità. Quell’Uomo che Sacrifica la potenza e il dominio, perché più Ama senza possedere. Lo Sposo Verginale nell’incenso del quotidiano Offrirsi. E l’incontrarsi delle Due Umiltà: Luogo in cui Dio s’Incarna. L’Amore di Giuseppe Rigenerato tutto dallo Spirito Santo. E nel proprio Olocausto si dà Sponsale. La Carità fiammeggia nel Morire incessante dentro la Notte che lo Dispone al Padre”. Allora, tutto è compiuto. Non vi sono e non vi possono essere altre “famiglie” naturali agli occhi del Signore, come insegna la Santa Madre Chiesa che celebra i 30 anni del Codice di Diritto Canonico, frutto del Concilio Vaticano II.
Nicola Facciolini
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