Il Comune di L’Aquila, in barba a qualsiasi programmazione di una ricostruzione, ha deciso di realizzare una centrale a biomasse a Bazzano, alle porte della città.
Con il termine biomasse ci si riferisce a tutte quelle sostanze di origine animale e vegetale che non hanno subito processi di fossilizzazione e vengono usate per produrre energia. Esistono diverse tipologie di biomasse; le principali sono i residui forestali e quelli delle industrie che trasformano il legno. Altre tipologie di biomasse di una certa importanza sono gli scarti provenienti dalle zootecniche e dai i rifiuti solidi urbani.
Pare che in questo frangente una centrale a biomasse rappresenterebbe un’opportunità di lavoro, eppure esperienze analoghe, (carte alla mano) indicano che sarebbero necessari al massimo quindici lavoratori nella filiera, più due per la gestione dell’impianto: un numero a dir poco irrisorio di posti di lavoro per giustificare una tale opera.
L’impianto aquilano avrà una potenza di 4,9 mega watt e come ha spiegato l’Assessore Moroni, non utilizzerà il legno di pioppo, come previsto in una prima fase del progetto, bensì sottoprodotti agricoli.
L’Aquila non è il primo caso di impianto energetico a biomasse e come Movimento Arancione, incuriositi, abbiamo cercato di capire cosa accade nel resto d’Italia intorno a queste controverse strutture.
Detto fatto: in Piemonte è in corso una forte polemica sulle centrali a biomasse legnose dopo che la sentenza del TAR di Torino ha fatto bloccare la centrale di Luserna S.Giovanni, valutando che l’interesse all’uso di energia rinnovabile non può oltrepassare la tutela della salute dei cittadini. Lo stesso pronunciamento dell’ASL Cuneo 1 ha qualificato “industria insalubre di prima classe” la centrale (pirogassificatore) da 400mW progettata presso le scuole di Paseana (in piena valle del Po). Caso analogo in Lombardia, dove il Comitato Spontaneo Salute e Ambiente della ValTrompia è impegnato da tempo nella denuncia dei danni alla salute e all’ambiente delle suddette centrali.
Il professor Corti, docente presso l’Università degli Studi di Milano e presidente di “Terre Nostre”, sostiene che questi impianti, ancorché reclamizzati come installazioni efficienti e rispettosi dell’ambiente, abbiano in realtà un impatto devastante sulla qualità dell’aria e sulla salute della popolazione a causa delle grandi quantità di PM 10 che scaturiscono dalle loro emissioni.
A queste emissioni dirette – Aggiunge Corti – vanno sommate quelle indirette dovute ai mezzi di trasporto che portano il cippato verso la centrale.
Questa stessa tecnologia, definita “virtuosa” dall’Uncem (Unione comuni comunità montane) pur consentendo di abbattere (almeno sulla carta) le emissioni rispetto ad impianti a combustione totale, fa fronte ai costi elevati di un sistema di filtri e a manutenzioni molto lunghe e costose (5-10€Cent/kWhel), da eseguire a cura di personale estremamente qualificato.
Infine, tornando a L’Aquila, la questione si presenta ancora più oscura proprio a causa delle suddette dichiarazioni dell’Assessore Moroni. Dove reperire qui i tanto declamati sottoprodotti dell’agricoltura? Quanti terreni vengono utilizzati per colture nell’aquilano considerando che ultimamente assistiamo ad un imperdonabile consumo di territorio con terreni sottratti ai contadini per costruire centri commerciali, capannoni (ed Edimo ne è l’esempio più eclatante) e parcheggi?
Pur volendo ipotizzare una centrale che utilizzi scarti provenienti da tutta la regione, sappiamo benissimo che l’agricoltura in Abruzzo rappresenta appena il 3 percento di Pil.
Tali dati appaiono sufficienti a capire che siamo di fronte alla realizzazione dell’ennesima opera che danneggerebbe la collettività, avvantaggiando i pochi, noti tessitori delle trame oscure.
Movimento arancione L’Aquila
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