Nel 1984, l’allora cardinale Ratzinger, nel libro “Rapporto sulla fede”, , scritto con Vittorio Messori, affermava che “il limbo non è mai stato una verità definita di fede” e, tre lustri dopo, Raniero Cantalamessa scriveva: “dimentichiamo l’idea del limbo, come il mondo dell’irrealizzato per sempre”.
Ma se il limbo non vi è in cielo, certo esiste in terra e soprattutto in terra Iitaliana, un limbo senza vie d’uscita consacrato alla violenza e alla bruttezza, descritto dalla narrativa e dal cinema, disperatamente superficiale e vuoto, come quello di Sorrentino ne “La grande bellezza”, oppure violento e senza speranze come nel Gassman di “RazzaBastarda”, che parla di rumeni e malavita, ma declina l’Italia ed i suoi dis-valori.
“Siamo alla disperazione” scrive Medioli, uno dei più importanti sceneggiatori del nostro cinema (e poi anche della televisione) e non solo nella rapprsentazione, tanto che, come sempre, la realtà supera la finzione, come dimostrano i casi Calderoli-Kyenge e il caso sempre più intricato di Alma Shalabayeva, che nei suoi 65 giorni di permanenza sul nostro suolo, è stata ospite in una villetta del quartiere romano di Casal Palocco, in un’area residenziale tra l’Eur e Ostia, dove di solito venfgono mimetizzati collaboratori di giustizia e personalità rintenute degne di protezione dal ministero dell’Interno.
Secondo Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto affari internazionali e profondo conoscitore di quegli ‘arcana imperii’ che da sempre caratterizzano le zone d’ombra del potere statuale, la vicenda ne ricorda un’altra, dimenticata ma recente (poiché proverbialmente rapida è l’amnesia italiana): quella del 1998 in cui il leader del Pkk curdo Abdullah Ocalan fu portato a Roma e inizialmente protetto dallo Stato italiano, ma quando la Turchia minacciò consistenti rappresaglie economiche venne prontamente spedito a Nairobi, in Kenya, dove fu catturato dai servizi segreti turchi.
Che l’ambasciatore kazako a Roma, Adrian Yelemessov, fosse di casa al Viminale è ormai noto e il suo muoversi così a proprio agio tra i funzionari del ministero dell’Interno denota una collaborazione di antica data e l’abitudine italiana al’ambiguità e all’inciucio.
Sulla vicenda Letta torna a dire che si farà piana luce, soprattutto dopo che oggi il capo della polizia Pansa riferirà in Parlamento. Ma intanto cresce il rischio che la storiaccia faccia cadere il governo e che la cosa sia favorita dal gruppo di “Repubblica” per far scendere in lizza Renzi che intanto, con piglio da premier, scalda i motori e ripete slogan in tutta Italia.
La Bonino si dice “convinta che, a livello politico, i ministri non fossero informati, il che è ancora peggio per certi aspetti, soprattutto quando dichiara (A “Repubblica” e “il Messaggero”) che evidentemente “la pressione da parte del Kazakhstan è stata fortissima, ma si è scaricata ai livelli più bassi”.
Ed aggiunge che “può darsi che abbiano approfittato del vuoto di potere al vertice degli apparati prima del 31 maggio”.
Tutti, nel governo, vorrebbero chiudere in fretta un caso che non solo ha creato imbarazzo a livello internazionale, ma che rischia anche di provocare progressivi cedimenti strutturali nella maggioranza già molto vacillante.
Pur di salvarsi Alfano (e il governo), sono pronti a sacrificare una intera linea di comando del Viminale, a partire dal capo di gabinetto del ministero Giuseppe Procaccini, che il 27 maggio ha ricevuto l’ambasciatore kazako a Roma, che sollecitava l’arresto di Mukhtar Ablyazov, ex banchiere accusato di reati fiscali ma pure leader del principale partito di opposizione.
Dopo l’incontro, Procaccini avrebbe sollecitato la pratica presso la Polizia di stato e in particolare con il capo della segreteria del Dipartimento, Alessandro Raffaele Valeri, che a sua volta avrebbe coinvolto il capo della Criminalpol Francesco Cirillo e il direttore della sezione Interpol, addetto alla verifica delle segnalazioni, Gennaro Capoluongo.
E tutti questi, ora, sono sotto giudizio e a fortissimo rischio, anche se, con la solita trovata italiana, pare che Pansa, nella sua relazione, provvederà a suggerire una soluzione che accontenti tutti: l’avvicendamento di alcune figure chiave che, si dirà, era allo studio da tempo, anche in vista dei pensionamenti, con Valeri che deve lasciare l’incarico a settembre, Francesco Cirillo a febbraio e Procaccini entro la prossima primavera.
Stasera, al Roseto Film Festival “Opera Prima”, è la volta de “La città ideale” di Luigi Lo Cascio, un film talmente contemporaneo da avere anticipato paradossalmente la realtà, perché arroccata nella sua perfetta idealità è una città come Siena, nel frattempo precipitata in uno scandalo bancario che non sta facendo prigionieri.
E, sullo sfondo, le macerie di un Paese che di sotterfugi e scorciatoie non può fare a meno, schiavo della burocrazia e del cupio dissolvi, con un registro grottesco, a tratti onirico, fortemente simbolico, che è lo stesso usato da Garrone e Sorrentino e Ospeteck e dai migliori autori del cinema italiano.
Daltra parte anche nel più sereno e speransoso “Ci vediamo domani”, che ha aperto la kermese rosetana, i vecchi protagonisti si “salvano” lasciando l’Italia per Panama e chi resta dovrà ancora vederserla con lestofanti variamente travestiti.
Nel luglio 2011 furoreggiò un gioco, chiamoto appunto “Limbo”, realizzato dai ragazzi danesi di PlayDead Games, in cui viene affidato il controllo di un ragazzino, partito alla ricerca della sorella scomparsa in una sorta di mondo onirico e nel corso del gioco, si devono risolvere enigmi basati sulla fisica e sulle modifiche della gravità.
Il gioco è difficile ma, in cinque intense ore, può anche riuscire a chi si impegna. Ma non vediamo vie d’uscita per il gioco “Limbo-Italiano” che nella vita e non su piattaforma, nopi stessi cui stiamo costruendo.
Così non sopprende che, oltre che al cinema, l’oscura angoscia del presente animi libri e romanzi diversi: di Carlotto, Lucarelli, Siti e via dicendo, con protagonisti che ricordano tutti noi e che richiamano quello dell’ultimo romanzo di Thomas Hardy: “Jude l’Oscuro”, un disgraziato ai limiti della società che non riesce ad appartenere ad alcun ceto e, per questo motivo, non si sente “abitante né tra gli uomini né tra i fantasmi”, perso in un limbo senza speranza e senza dimensione.
Carlo Di Stanislao
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