Quando mi dicono “Tu fai di tutto, di più per il Festival della Valle d’Itria perché sei nato a Martina Franca, la Città del Festival” io non posso che rispondere “Certo, non vedo come potrebbe essere altrimenti”.
Volendo però articolare meglio la risposta, devo confessare che ci sono altre motivazioni che spingono il sottoscritto (inter alia di questi tempi relatore in conferenze dal titolo “Prepararsi al Default”) ad amare incondizionatamente il Festival della Valle d’Itria.
Le ha esposte brillantemente Alberto Triola, direttore artistico del Festival. “Tempi di crisi e di paure diffuse, di necessaria prudenza e di rinunce forzose, ma per un Festival, che sente l’alto richiamo del servizio pubblico alla Cultura, arretrare e chiudersi in difesa è una soluzione semplicemente non percorribile. Il Festival della Valle d’Itria accetta la sfida, nella convinzione che l’unica risposta possibile, per una società smarrita, sia stringersi intorno ai propri valori. E quindi rilancia, scommettendo sulla curiosità e qualità del suo pubblico, trovando coraggio nelle proprie radici e cercando di trasformarsi con sempre maggior convinzione in un laboratorio pubblico di idee, creatività, emozioni, dibattito”.
Al riguardo, l’immagine del manifesto del 39° Festival della Valle d’Itria, realizzato dal grande Rafal Olbinski, è quanto mai esplicita: i lineamenti di un viso femminile e lunare sono illuminati da due occhi ben aperti, serenamente assetati di vastità e lontananze. L’elemento acquatico conferisce una languida sensibilità. I due cigni, speculari, riportano a una simbologia di derivazione classica: purezza, capacità di preveggenza, piena realizzazione di sé. Gli occhi che ci guardano dal manifesto sembrano suggerirci delle direzioni, invitarci a delle scelte, a delle visioni.
Il tema del Festival di quest’anno è, appunto, quello delle “visioni”, intese come capacità di vedere oltre la realtà materiale e storica, ma anche quale tensione etica e spirituale orientata alla piena realizzazione di sé e dei propri ideali.
Visioni delle terre di Puglia, i cui paesaggi abbacinanti e mutevoli ti catturano e non ti lasciano più, in un continuo rimando a orizzonti che riconducono ad altri confini e ad ulteriori orizzonti, di mare, civiltà e radici millenarie.
Visioni come quelle che il vecchio, delirante Carlo Gesualdo avverte negli ultimi giorni di esistenza terrena, visitato dai fantasmi delle proprie vittime, nella Maria di Venosa di Francesco D’Avalos, lavoro provocatorio e visionario a sua volta, che vive a Martina Franca un significativo debutto italiano a vent’anni dalla prima esecuzione londinese, accettando la sfida di una prima, difficile versione scenica.
Maria di Venosa è una performance multimediale: musica, canto, video art, danza, prendono corpo sgorgando da un possente nucleo centrale, metafora dell’anima e della coscienza.
Maria di Venosa è un’opera particolarmente originale, che in ogni aspetto della sua composizione obbliga ad assumere una visione oltre il confine, costringe a stravolgere i canoni entro i quali si è soliti inquadrare un’opera.
La sua partitura offre la presenza di due differenti ensemble musicali, chiamati a fronteggiarsi e a rappresentare musicalmente le angosce e le tensioni di Carlo Gesualdo, genio musicale autore di madrigali incomparabili morto nel 1613, la cui storia, reale, è stata musicata da Francesco D’Avalos, rielaborando sonorità antiche ed alternandole a quelle più moderne, inserendo due madrigali originali dello stesso Gesualdo.
Francesco D’Avalos è anche autore del libretto, e non potrebbe essere diversamente considerando quanto musica e testo siano lo specchio del tormento di Carlo Gesualdo, reso pazzo dal rimorso per aver ucciso la sua amata, Maria D’Avalos, con il suo amante, Fabrizio Carafa.
Francesco D’Avalos ha scritto un’opera nella quale i personaggi principali non cantano: la musica si riconferma protagonista assoluta del lavoro entrando nella fisicità stessa dei personaggi e rendendosi essa stessa interprete, personaggio.
Il regista e coreografo Nikos Lagousakos mantiene i tre personaggi principali: Maria D’Avalos, Carlo Gesualdo e Fabrizio Carafa, affidando i ruoli a performer ballerini/attori.
A loro chiede di far vivere i personaggi attraverso il linguaggio corporeo, tenendo in conto che Francesco D’Avalos ha scritto quest’opera pensando che avrebbe potuto essere la colonna sonora di un film muto.
La messa in scena di Nikos Lagousakos prosegue il suo lavoro di contaminazione tra differenti discipline ed arti. Attraverso la danza il corpo accoglie la musica e racconta lo spettacolo, in maniera non descrittiva, entrando a far parte della scenografia che durante lo spettacolo si scompone, oppure offrendo la propria fisicità alle video proiezioni.
Per la scenografia e i costumi si affida al lavoro di Justin Arienti, che ha realizzato un blocco monolitico che domina la scena. Una scenografia-scultura che nel corso dello spettacolo accompagna in un viaggio nel tempo, dal passato ad oggi, rappresentando a volte la casa di gioventù di Carlo Gesualdo, a volte il manicomio nel quale vive il suo presente. Il monolite svela al suo interno forme, aperture, scale, passaggi che vengono movimentati dagli artisti stessi.
Sono parte integrante del lavoro scenografico le video installazioni di Matthias Schnabel: proiettate non solo sulla scenografia ma anche sugli stessi performer. Non rappresentano qualcosa di proveniente dall’esterno, ma qualcosa che scaturisce dall’interno della struttura, oppure dall’anima dei personaggi che si materializzano sulla superficie della scenografia, sui loro costumi o sulla loro pelle, come se trasudassero.
Sulla scena, tre ballerini/attori – Gloria Dorliguzzo, Marco Rigamonti e Riccardo Calia – danno corpo ai tre protagonisti del dramma.
Il soprano Liana Ghazaryan, il contralto Sara Nastos, il coro del Teatro Petruzzelli, il gruppo di madrigalisti dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” (Candida Guida, Minni Diodati, Amy Corkery, Francesco Castoro, Joonas Asikainen) preparati da Antonio Greco, completano il quadro dei performer, sostenuti dall’Orchestra Internazionale d’Italia e da un ensemble di strumenti antichi.
Maestro concertatore e direttore d’orchestra è Daniel Cohen.
Sia lode e gloria a Maria di Venosa, una performance multimediale affidata alla guida di Nikos Lagousakos, un giovane regista capace di sospingere lo sguardo oltre il confine, verso frontiere entusiasmanti: quelle del talento, suo e degli altri “Venosiani”.
Il talento….Ieri, nella discussione di una tesi presso l’Università Cattolica di Milano, è stato menzionato il motto del fondatore di una prestigiosa azienda italiana: “Lavorare, Creare, Donare”.
Ebbene, l’auspicio è che quest’opera, dopo la prima nella mia Martina Franca, varchi i confini della Puglia, diventando un meraviglioso dono per gli appassionati che frequentano i teatri del mondo intero.
Francesco Lenoci
Lascia un commento