Una bella pagina di storia della Basilicata. 80 anni spesi per gli altri. Amico di tutti, dalla parte degli ultimi. Quando le parole sono storia di vita. E “Parole vissute”, il libro presentato domenica 21 luglio a Muro Lucano, nella parrocchia di San Marco Evangelista, racconta la vita di “prete dei giovani” intensamente vissuta da don Peppino Grieco. Un Testamento Spirituale dell’innovatore uomo della Chiesa. E’ il frutto di anni di battaglie in prima linea. Per il bene comune. Un “lavoro d’insieme” ben costruito da tre amici abruzzesi con i quali a partire dagli anni Sessanta ha cominciato a fare un prezioso cammino in comune, che non si è mai interrotto. Preti del dissenso. Costruttori del futuro. Per cambiare la Chiesa, liberandola dai paralizzanti intrecci con il potere corrotto. Una richiesta di pulizia, di onestà, di apertura al nuovo. Dal di dentro. Mario Setta, Pasquale Iannamorelli e Raffaele Garofalo sono stati fatti fuori dai poteri forti di una Chiesa che si opponeva a qualsiasi mutamento.
In occasione dell’ottantesimo compleanno del compagno di tante battaglie hanno reso omaggio alle “parole vissute” di don Peppino. Dice Mario Setta: “Io redattore, Raffaele correttore, Pasqualino editore”. E’ nato un libro di estrema attualità. Idee ieri avversate, oggi esaltate. Tante parole di speranza e di rinnovamento. Gli odierni gesti di umiltà di Papa Francesco vengono da molto lontano. Si aprono nuovi orizzonti. In Basilicata sono state ”l’idea-forza di un pastore che conosce le pecore, le chiama una per una, cammina innanzi ad esse, è disposto ad offrire la vita per loro”, sottolinea Setta. E poi riporta un pensiero di don Peppino: “Il “buon pastore” non è un eroe, ma semplicemente uno che ama e che l’amore sottrae alle trame fredde dell’interesse individuale. Ogni discepolo di Cristo è, nello stesso tempo, membro del gregge e suo pastore, per la responsabilità che lo lega a tutti gli altri”. Tante testimonianze riempiono le pagine di una missione d’amore senza fine”. Abbiamo pensato a questo lavoro corale – spiega Setta nella presentazione -, rifuggendo dalla pubblicazione di una brochure di circostanza con interventi elogiativi o adulatori. Si tratta di una raccolta, assolutamente ridotta e parziale, dell’immenso materiale accumulato da don Peppino. Un archivio orale e scritto, fatto di appunti e riflessioni. Alla luce della celebre affermazione di storici come Lucien Febvre e Fernand Braudel: “La storia è l’uomo”. L’uomo, come individuo e come società”.
Così vengono riportati “i passaggi che ci sono sembrati più significativi per delineare il suo percorso di vita e la sua elaborazione concettuale politico-teologico-pastorale: dagli stralci della tesi di licenza in Scienze Sociali alla Pontificia Università Gregoriana sulla religiosità in Basilicata all’Appello alle Forze vive che credono nel risveglio della Lucania del documento di Monticchio nel 1969; dal documento sulla funzione del prete nelle Acli, nella realtà lucana e nei rapporti col Vescovo del 1970 al Diario di operaio in fabbrica in Germania del 1977; da una silloge estremamente sintetica di “Temi di predicazione” fino al confronto-dialogo con l’arcivescovo emerito di Potenza, mons. Giuseppe Vairo. Infine, in Appendice, “Parole amiche”, l’omaggio a don Peppino per i suoi 80 anni, da parte di amici e confratelli che lo hanno frequentato, apprezzandone le scelte di vita, l’amicizia, il pensiero”.
Un lavoro davvero notevole, che merita molta attenzione, per le intense riflessioni che contiene. Lezioni di vita. Parole e fatti. Un “Testamento per i giovani” ai quali l’anziano parroco continua a dare concreti sostegni. Così come ha sempre fatto fin dall’inizio della sua missione pastorale. Intelligenze da valorizzare. Questa testimonianza di Cataldo Sabato è la conferma dell’attenzione di don Peppino: ”Era tardi quella sera quando un prete appena fatto prete entrò nella capanna, che si trovava a San Cataldo, Capanne “Nuove” (l’aggettivo “nuove” è sempre risuonato nella mia mente in senso ironico); non era tempo pasquale, eppure don Peppino entrò in quel tugurio, addossato ad una parete scavata nel tufo, appena illuminato dalla lampada a petrolio (o meglio a “scist”), il cui moccolo era anche corto. Sullo scranno vi era il grande piatto con la minestra e la carchiola (una focaccia di mais e acqua cotta sulla reticola). Il prete rifiutò con un cenno secco l’invito di sedersi a tavola con noi e poi chiese a mio padre se voleva mandare a studiare quel figlio intelligente (che ero io): ci avrebbe pensato lui a portarmi a Ponte Giacoio per prepararmi all’esame di ammissione alla Scuola Media. (…) Passò un anno. Ero stato scelto perché ero stato bravo al catechismo: avevo saputo ripetere alla perfezione la storia di Giuseppe e i suoi fratelli; era strano, riuscivo a capire l’italiano, anche se non parlavo nel codice linguistico ufficiale e così don Peppino aveva pensato che io ero intelligente. (…) Era l’inizio dell’estate 1959. E fu quell’anno che capitò a San Cataldo Ernesto De Martino, docente e ricercatore universitario di antropologia culturale, allora non ancora famoso e così don Peppino, fresco di seminario, decise di convertire al cristianesimo quell’uomo decisamente ateo, che veniva a discutere con lui del familismo amorale, del pianto rituale e della religione che si confondeva con la superstizione, anche se don Peppino intendeva per superstizione solo il malocchio, l’affascino e altre abitudini e tradizioni, che egli combatteva in modo feroce, rimproverando aspramente le pie donne di San Cataldo, che ricorrevano in modo innocente alle pratiche anti-magia contro l’affascino che faceva venire il mal di testa. (…)”
“Don Peppino operò una trasformazione profonda della frazione di San Cataldo, i cui abitanti si consideravano aviglianesi e facevano tutto ad Avigliano: battesimi, matrimoni, funerali … Don Peppino rese autonoma la Parrocchia, portando tutto a San Cataldo. Il tempo, che sembrava fermo da secoli, riprese il suo cammino, anche se, come i preti che lo avevano preceduto e quelli che vennero dopo di lui, non riuscì a rimuovere in modo deciso la pratica dei matrimoni consanguinei, che era una piaga di San Cataldo (…). Gli anni Sessanta segnarono la trasformazione profonda. Prima a Rapone e poi a Muro Lucano: don Peppino aveva la canonica sempre strapiena di giovani; il ´68 era arrivato a Muro Lucano prima che nel resto della Basilicata. E poi Vallombrosa, Cristiani per il Socialismo, Lavello, Monticchio, il Riscatto…, la lotta per i diritti umani, il divorzio, i difficili rapporti con una gerarchia sempre più lontana dall’uomo e dal Vangelo, e una mattina lo ritrovai in piazza San Marco, vestito da operaio con una carriola; insieme con un mastro provvedeva alla ristrutturazione della casa canonica e della Chiesa parrocchiale: erano passati secoli da quel “vanitas vanitatum….”, quando aveva deciso, contro la volontà del padre, di andare in seminario. Don Peppino viveva con coerenza, rigore e dignità il messaggio del Vangelo contro il danaro, mammona, dannazione dell’uomo, contro il potere e l’alleanza storica della gerarchia ecclesiastica con tutti i fascismi di questo mondo. Era alla ricerca delle verità fondamentali, che qualificano un uomo e un cristiano: “Da questo sarete giudicati…”, “Beati i poveri…”, la politica, il potere come autentico servizio, la lotta contro l’ingiustizia … E poi l’amarezza, la consapevolezza della lontananza della Chiesa ufficiale dalle radici evangeliche e di una maggiore vicinanza del marxismo al riscatto umano e cristiano. Ma questa è la storia che tutti conoscono, che va ripensata, approfondita; e quando verrà rimeditata, forse farà bene a qualcuno”.
Ripensare alla storia. Pasquale Iannamorelli, Mario Setta e Raffaele Garofalo hanno compiuto una efficace operazione-verità. In Abruzzo negli anni Settanta hanno ingiustamente e duramente pagato le conseguenze della loro coraggiosa e onesta azione per il rinnovamento della Chiesa. Il dissenso represso con assurda durezza. La volontà del popolo calpestata da vescovi retrogradi. Asserviti al potere. E in Basilicata anche don Peppino combatteva per il cambiamento. Luigi Sandri racconta: ”Avevo già incontrato don Peppino in qualche convegno della Comunità cristiane di base ma l’amicizia nacque quando, nel luglio – il 13 luglio – del 1974 ci trovammo insieme a Lavello, per esprimere solidarietà a don Marco Bisceglia che, per le sue scelte controcorrente, era sotto tiro del vescovo della diocesi locale. In quell’occasione, tra i diversi oratori che si susseguirono dal podio, ci fu, appunto, don Peppino. Egli iniziò il suo dire in modo calmo, con parole quasi sussurrate; ma via via, denunciando la repressione ecclesiastica e le compromissioni della gerarchia con il potere politico, la sua voce andò crescendo come un tuono”.
Ricordi personali che “fanno riflettere sull’influenza che ha avuto a Muro Lucano” dice Mario Melucci e su quanto “la sua lunghissima amicizia abbia segnato il mio percorso politico e personale.(…) Nel gennaio del 1973 fu pubblicato il primo numero della rivista “Il Riscatto”, come strumento che doveva contribuire al processo di liberazione da un potere gestito dai ceti dominanti. Con grande impegno don Peppino cercò, con altri, di dar vita a un movimento che non doveva limitarsi alla testimonianza, ma che doveva essere in grado di attivare processi politici e religiosi di liberazione e rinnovamento. Aggiungo che ho creduto allora, e credo ancora di più in questo momento, che don Peppino, in Basilicata, fu il più coerente interprete di tutta la fase post-conciliare.(…) Pur essendo promotore e protagonista fondamentale, riferimento imprescindibile, ha sempre svolto con discrezione e umiltà il suo impegno e ha sempre evitato di accusare chi si rendeva responsabile di comportamenti che confliggevano con gli impegni presi”. Spirito libero, che dava e dà spazio a tutti.
Ma per capire meglio chi è don Peppino, è opportuno rileggere le testimonianze dei suoi tre amici abruzzesi con i quali ha condiviso momenti di alto impegno sociale e culturale. Rinnovare la Chiesa che “è del popolo” come per anni ha ricordato ad un vescovo conservatore di Locri un cartello appeso all’esterno del Santuario di San Rocco a Gioiosa Jonica, in Calabria, occupato dai fedeli che si erano opposti al trasferimento ed alla sospensione “a divinis” di don Natale Bianchi. Come don Natale, furono costretti a lasciare la Chiesa anche Mario Setta, Pasquale Iannamorelli e Raffaele Garofalo. Il popolo sconfitto dal potere ecclesiastico. Setta ricorda l’incontro con don Peppino: ”Il ’68 da preti. All’ultimo banco di un’aula dell’Istituto di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana. Lui 35 anni, io 32. Primo giorno di scuola. Presentazioni.
«Mario Setta? Sei tu l’autore del libro “Cristo ha le mani sporche?”»
«Sì, sono io. E tu? »
«Don Peppino Grieco, parroco a Muro Lucano.»
Era appena iniziato un esperimento di collaborazione operai-studenti, in un appartamento di via In Selci e Peppino vi si stabilisce nei giorni in cui veniva a Roma per seguire le lezioni alla Gregoriana. C’erano insegnanti del calibro di Emile Pin per sociologia della religione e José Maria Diez-Alegria per Dottrina sociale della Chiesa. Con quest’ultimo, in particolare, siamo stati non solo alunni, ma amici stretti. Perché lui, prima e più di noi, ha sofferto terribilmente nella Chiesa, a causa delle sue posizioni teorico-pastorali che consistevano essenzialmente nell’opzione per i poveri. Diceva: “Non verremo giudicati per la nostra fede o per i nostri riti, ma per il fatto che avremo o non avremo dato da mangiare all’affamato … Penso che la Chiesa cattolica nel suo insieme abbia tradito Gesù. Questa Chiesa non è quello che Gesù ha voluto, ma quello che hanno voluto nel corso della storia i potenti di questo mondo”.
“Io ero cappellano del lavoro e mi occupavo dei lavoratori edili. Non prete-operaio, ma prete per gli operai. Avevamo creato in via Conte Verde una casa dell’edile Giovanni XXIII, per l’ospitalità e la cooperazione tra lavoratori. L’esperimento aveva ottenuto buoni risultati. E cercavamo di allargare la sperimentazione per risolvere i problemi dei lavoratori pendolari. Da qualche tempo io ero in crisi per una testimonianza che mi sembrava inutile, se non proprio dannosa. Controproducente. Promotore di interclassismo, pacificatore nella lotta di classe operai/imprenditori. Una assurdità. Un grottesco paternalismo clericale. E proprio in quella specie di romanzo-verità dal titolo “Cristo ha le mani sporche” avevo raccontato il mio disagio, la mia crisi. Con Peppino fu subito intesa. Due preti in crisi. Ma, senza disperare. Forse proprio questo ottimismo della volontà ha fatto da cemento alla più che quarantennale amichevole armonia. E gli amici di Peppino sono diventati i miei e gli amici miei i suoi. Evidentemente, in gran parte preti. Ma, anche molti laici. Tra i primi ad arrivare a Roma a via In selci fu un ragazzo, Pinuccio Giacomino. Gli piacque quella comunità di giovani sessantottini, tanto che ne divenne un leader trovando lavoro e sistemandosi definitivamente a Roma. Uno stile di vita libero e creativo. Letture e discussioni a non finire. Polemiche e arrabbiature. Si mangiava, si lavavano le stoviglie, si rassettavano i letti, si pulivano le stanze. La comunità funzionava. Ed ha funzionato per decine d’anni. Collaborazione perfetta”.
“Ma anche le cose belle non sono eterne. E ognuno deve seguire la sua strada. Io fui nominato parroco a Badia di Sulmona e ci andai, anche con la speranza che vi si potesse trasportare quell’idea di comunità. Salimmo le scale della casa parrocchiale cantando l’Internazionale. I problemi con la gente si risolvevano facilmente, ma quelli con il vescovo e gli altri preti divennero insormontabili. Ci ritrovammo nella diocesi di Sulmona tre preti, io Pasqualino e Raffaele, “malati” di Concilio Vaticano Secondo. Cercammo di coinvolgerne altri. Impresa impossibile. (…) Ci furono vescovi che tolleravano la contestazione e lasciavano libertà ai contestatori, senza ricorrere ai provvedimenti punitivi. Ma ci furono anche vescovi, e fu la maggioranza, che si rivestirono di autorità e ricorsero alle sanzioni canoniche. A noi ci capitò uno di questi. E fu una continua diatriba. Mi chiamava spesso a colloquio. Non gli andava bene niente. La casa parrocchiale doveva restare chiusa, i sacramenti amministrati sulla base delle tariffe, niente scuola ai ragazzi, nessuna diversità tanto meno concorrenza tra parrocchia e parrocchia. Fu la fine. Io sospeso a divinis, Pasqualino e Raffaele rimossi dalle parrocchie. Peppino divenne la nostra àncora di salvezza: amicizia, solidarietà, collaborazione tra Abruzzo e Lucania. In una parola, il nostro “vescovo”. Costretti a cercare altri percorsi di lavoro e di impegno, siamo rimasti sempre uniti. Ai miei 75 anni ho pubblicato un libro dal titolo “Il volto scoperto”, con la dedica: “A Pasqualino, Raffaele e Peppino, con i quali ho condiviso questo sogno”. Oggi, per gli 80 anni di Peppino, ci siamo assunti e divisi i compiti per realizzare quest’opera: io redattore, Raffaele correttore, Pasqualino editore. Un omaggio che non è solo la prova d’un amore condiviso, ma l’adempimento d’una missione per conservare e tramandare la memoria d’un passato da non dimenticare e d’un ideale da realizzare”.
Raffaele Garofalo aveva conosciuto don Peppino grazie a Mario Setta. “L’impatto più diretto – dice Garofalo – fu in occasione del sisma di Muro Lucano del novembre 1980. Fu una ulteriore occasione di vicinanza all’amico don Peppino e un’esperienza molto significativa per me. Conservo le foto di quella tragedia. Alla visione delle macerie del terremoto aquilano del 2009, nella mia mente si sovrapponevano ancora le immagini della sciagura di Muro Lucano quando la parrocchia si mobilitò per portare i primi soccorsi. Vivo è il ricordo delle montagne di indumenti ammucchiati in piazza davanti al Municipio. Non esisteva ancora la Protezione Civile né altra organizzazione analoga. All’indubbia impreparazione di fronte all’evento, facevano da contrappeso però l’entusiasmo e l’altruismo dei soccorritori, accorsi dalle diverse parti d’Italia. Molto efficienti si rivelarono le Associazioni di Volontariato dell’Emilia Romagna, della Toscana e della Liguria, ben attrezzate per rispondere alle necessità più immediate. Nell’esperienza aquilana avremmo visto maggiore abbondanza di mezzi, ma ci saremmo imbattuti anche con la speculazione in tempo reale delle ditte del nord, amiche del Cavaliere, con coloro che la notte del disastro se la ridevano pensando ai grossi guadagni della ricostruzione. Avremmo assistito, all’Aquila, ad una Chiesa che, nella persona del vescovo Molinari, elogiava le comparsate demagogiche del Cavaliere e portava in processione sant’Emidio, protettore dai terremoti. Lo ringraziava, forse, per non aver fatto perire l’intera città. Le case delle new town di Berlusconi sarebbero costate tre volte il prezzo reale per rivelarsi presto inadeguate, dormitori privi di punti di aggregazione e di servizi, di estrema emarginazione soprattutto per gli anziani”.
“Nelle tendopoli, ove si operava per riattivare un minimo di attività scolastica, regnava il regime militaristico di Bertolaso. Una situazione di eterno coprifuoco basata sulla retorica vuota del “lasciateci lavorare”, del “ghe pensi mi!”. Giovani e anziani erano frequentemente in preda a depressione sdraiati nelle brandine delle tende, spesso accorpati in modo casuale senza alcun riferimento a considerazioni di carattere affettivo. La televisione, perennemente accesa su banali programmi Mediaset, doveva dare l’illusione di una normalità di vita, distrarre dalla paranoia. La tragicità della situazione non risultava del tutto nuova a me, ma avvertivo l’atmosfera del campo di concentramento, della demagogia come risposta principale alla tragedia. A Muro Lucano lo spirito era diverso. La solidarietà e la collaborazione, la condivisione della sofferenza tra le grosse difficoltà, erano l’anima e la forza per il duro lavoro. Si faceva appello alla creatività di ognuno. Con alcuni parrocchiani sperimentammo una maggiore vicinanza a don Peppino, un parroco che rivelava subito la tempra di chi sa prendere in mano le situazioni quando gli altri sono in preda allo smarrimento. Scoprivamo inoltre le qualità di cuoco del prete, capace di improvvisare un pranzo per 50 e più persone”.
Pasquale Iannamorelli definisce don Peppino “un pastore che profuma di pecore”. E mette immediatamente in evidenza il senso dell’amicizia che “si nutre e vive di piccoli gesti, che riscaldano il cuore di chi li porge e di chi li riceve. Ogni anno, intorno alle sei del mattino, puntualmente, il 17 maggio, squilla il telefono: è Peppino che, nella festa di san Pasquale, si ricorda di augurarmi un buon onomastico: quella telefonata, più di tutte le sue altre sparse lungo l’anno, mi rinfranca. Ogni volta. Se è vero che ognuno di noi è l’insieme delle persone che abbiamo incontrato, da te, caro Peppino, ho appreso la difficilissima arte della semplicità e dell’accoglienza, condite sempre da una sconfinata passione”. Poi ricorda le sue scelte abruzzesi, rivolgendosi direttamente a don Peppino: ”Se con Mario ho deciso di tornare nel vespaio duro di Sulmona è anche perché da te ho imparato l’amore per la propria terra, fatto di attenzione e disponibilità. Quotidianamente. L’attenzione è il contrario del “vedi e vai”. È il non passare oltre, come il samaritano della parabola. La società si incattivisce ogni giorno di più perché l’atteggiamento che va dilagando è quello di passare oltre, di non prendere a cuore. Da te ho imparato che stare con i vinti, stare con gli umili, con le quattro vecchiette della tua messa quotidiana, è stare dalla parte dell’umanità intera”.
“Ricordo con gioia quella bellissima settimana passata a casa tua insieme a Pierre Tshimbombo, prete congolese che studiava a Roma. Il filo conduttore delle lunghe discussioni (aperte a chiunque entrasse) fu una bella espressione del giornalista Luigi Pintor, fondatore e animatore del “Manifesto”: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi». Discutevamo di questo a proposito del popolo africano, fratello di quello lucano e di tutti i Sud del mondo. Non temevi, non hai mai temuto le “contaminazioni” tra credenti e non credenti. Il tuo insegnamento, spesso sommesso, talvolta infuocato, da pastore che, come dice Francesco di Roma, “profuma di pecore”, ha tenacemente comunicato che la Chiesa dovrebbe educare a fare a meno della Chiesa perché trionfino tra gli esseri umani il primato dell’amore e quello della libertà. Pur essendo molto amato dalle tue “pecore”, non sei mai stato l’uomo delle piazze. Le piazze nascondono spesso una voglia di esibizione. Anche tra gli uomini di Chiesa. (…) Anche col passare degli anni hai conservato intatta la tua enorme passione e vitalità. Tutte le volte che ho avuto contatti con te, sia guardandoti negli occhi che ascoltandoti per telefono, chissà perché, mi è sempre venuta in mente la distinzione netta tra “inquieti” e “irrequieti”. Non si tratta di due sinonimi. Gli inquieti sono alla continua, infaticabile ricerca di una più alta verità, in qualunque ambito si trovino a operare. Sono mossi dall’esigenza di un alto rigore di pensiero e da una forte coerenza di vita. Gli irrequieti sono, invece, continuamente a caccia di nuove sensazioni, di emozioni soprattutto religiose, sempre effimere, da sostituire con altre più alla moda. Tu fai parte, senza ombra di dubbio, della prima categoria. E sono felice di avere te come compagno di viaggio in questa perenne inquietudine. Grazie, Peppino”.
Un grazie al quale non possono non unirsi quanti hanno creduto e credono in una Chiesa effettivamente al servizio degli ultimi e non fiancheggiatrice o complice del potere corrotto!
Domenico Logozzo
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