Sono stati chiesti allo Stato 100 milioni per pagare i dipendenti publici siciliani, quelli che vengono assunti dal 118 per restarsene a casa e prendere anche il premio di produttività per non lavorare; o quelli che, a Catania, sono assunti come autisti di mezzi pubblici senza avere neanche la patente necessaria e ancora quelli che vengono incendivati per opere di “spalatura neve” in agosto, a Palermo.
Gianluca Buonanno, parlamentare della Lega Nord, in risposta alla richiesta, ha detto che: “in Sicilia ci sono più dipendenti pubblici che tombini” e rincarato sostenendo che “i secondi almeno servono a qualcosa”.
Dati Eurispess ci dicono che non è vero che in Italia vi sono troppi dipendenti pubblici (ne abbiamo meno della Svezia e in numero pari alla Germania), ma il fatto è che da noi la pubblica amministrazione per lo più non funziona.
A fine maggio scorso, una ricerca di Forum PA, basandosi sui dati ufficiali italiani confrontati con le analisi ufficiali sul settore del pubblico impiego realizzate in Francia e Gran Bretagna, ci dice che gli impiegati pubblici da noi non sono troppi, né costano in assoluto troppo, ma che tutto il pubblico impiego soffre di disfunzioni croniche che nessuna riforma è riuscita ad intaccare. Così sono troppo vecchi, meno qualificati, mal distribuiti, pagati in modo troppo difforme e con troppi dirigenti.
Giacomo Vaciago, economista e politico, intervistano qualche tempo fa da Elena Comelli, ricordava i motivi che portano gli investitori stranieri a starsene lontani dalle nostre sponde.
Il Paese non cresce perché non è attraente, in quanto nessuno ha voglia d’investire i suoi soldi dove la macchina pubblica non funziona la giustizia è incivile.
E facciamo di tutti per irritare e far fuggire anche i nostri imprenditori che, se da un lato fanno il loro mestiere nel creare profitto, non possono certo essere tacciati impunemente di essere evasori (come Dolce e Gabana) e neanche ricevere schiaffi da chi ha un ruolo istituzionale (si pensi alla vicenda Boltrini Marchionne, che ha indignato non solo il Giornale, ma anche Repubblica e Fassino).
Dopo che la presidente della Camera ha declinato l’invito dell’ad per la presentazione dei nuovi investimenti negli impianti Fiat in Val di Sangro (lo stabilimento Sevel), si sono ancor più evidenziati i limiti esistenti nelle relazioni (o acquiscenti o negative) fra politica ied industria: un nervo scoperto del sistema non meno patologico del pubblico impiego e della burocrazia.
L’invito a Boldrini da parte di Fiat venn inviato il 28 giugno a firma Sergio Marchionne, nel giorno in cui, in coincidenza della fine dello sciopero Fiom, il presidente della Camera ha ricevette i delegati della formazione sindacale in rotta con l’industria.
La risposta è giunta il 4 luglio e, accanto alla giustificazione di rito, al garbo istituzionale, vi faceva spicco la frase sui diritti e sulla gara al ribasso sul costo del lavoro, argomenti che non erano in discussione, nello specifico.
E mentre Di Pietro e il Manifesto plaudono alla Boltrini, deve scendere in campo Fassino per terntare di ricucire ed affermare che è “evidente la sottovalutazione che in Italia è stata fatta dei successi ottenuti da Marchionne”, il quale sarà anche andato all’estero, ma che, alleandosi con Chrysler: ”ha trasformato la Fiat da azienda internazionale in azienda globale”.
Adesso, dopo la sentenza della Consulta, una nuova tegola grava sul rapporto fra Italia e Fiat e Marchionne, da Amsterdam, dice che non è da escludere uno spostamento della sede legale in Olanda.
”La Fiat si riserva di valutare se e in che misura il nuovo criterio di rappresentatività, nell’interpretazione che ne daranno i giudici di merito, potrà modificare l’attuale assetto delle proprie relazioni sindacali e, in prospettiva, le sue strategie industriali in Italia” è stato il commento del gruppo, una reazione che sa di ricatto ma anche di stizzita reazione per una Nazione che nei suoi politici e giudici non sa trovare persone di mediazione ed equilibrio.
E’ chiaro ormai che la proprietà Fiat vuole andarsene dall’Italia, spostarsi in paesi con costo del lavoro minore ed è certo che, perdurando un certo tipo di atteggiamento o feroce o arrendevole e mai di contrattazione intelligente, tutto questo avverrà, in tempi brevi.
Così il made in Italy si accorcia e non pasa giorno in cui non si legga, come in un bollettino di guerra, di grandi aziende italiane che vengono con i loro brand acquistate da colossi esteri, con pomodori pelati che diventano giapponesi, panettoni che si fanno in Svizzera, la Star che diviene spagnola, la Coin francese, l’Algida anglo – olandese, la Pernigotti turca, la Benelli cinese ed il marchio Bulgari francese, passando nelle mani di Lvmh.
Certo non mancano i casi di aziende nostrane che fanno shopping all’estero acquisendo altri marchi, come ha fatto per esempio Barilla comprando la francese Harry’s e la svedese Wasa, o Luxottica acquisendo lo storico marchio americano Ray-Ban. Ma si tratta di rare eccezioni in un mare di cessioni.
Un Paese che non possiede una propria industria diventa terreno fertile per invasioni e spogliazioni ed in questo modo, come sanno gli esperti, non si dispone del mercato ma se ne subiscono le dinamiche.
Ma, come si vede, mancono le risposte anche adesso, anche con il governo difeso da Napolitano (che oggi sostiene le sue ragioni anche per iscritto), che rinvia Imu, Imu, legge elettorale ed interventi sul lavoro a fine estate, al solito autunno prospettato caldo e sempre rinviato.
E mentre spunta l’ennessima appendice scandalosa del caso Monte Paschi con quello che tecnicamente poteva essere definito il “riciclaggio perfetto”, operato da una organizzazione con base a Roma che procurava clienti facoltosi con il problema di far uscire i capitali all’estero per sfuggire alle tasse e, una volta ricevuto il denaro, lo spediva nei paradisi fiscali e da qui il contante prendeva la via dei conti correnti nei paesi off shore per rientrare nella disponibilità dei clienti con accrediti bancari a San Marino; si teme un nuovo, grave crack bancario, quello della Banca Delle Marche, che a causa della politica finanziaria dissennata condotta in questi ultimi anni, rischia di collassare trascinando con sé l’economia della regione, alla quale è legata a filo doppio.
Il presidente dellagiunta Spacca ha chiesto aiuto agli imprenditori per coprire un buco, pare, da 80 milioni, entro il 30 luglio, altrimenti sarà commissariamento.
Nata 19 anni fa, dalla fusione di Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata e quella di Pesaro, a cui si è unita, in un secondo momento, anche la Cassa di Risparmio di Jesi, il tutto nel contesto della riorganizzazione del sistema delle Casse di Risparmio conseguente alla Legge Amato, ha accumulato una serie di perdite economiche, tanto che il quotidiano Milano Finanza, dopo che Replubbica l’aveva considerta, nel 2007, un piccolo gioiello, l’ha equiparata a MPS.
“Il frequente e facile ricorso a elezioni politiche anticipate” è “una delle più dannose patologie italiane”, scrive sulle colonne del Corriere della sera il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in una lettera risponde agli interrogativi sollevati ieri sul medesimo quotidiano dall’ex leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti.
Certo ha ragione il Presidente che sembra essere l’unico con senso politico in una classe allo sbando. Ma, aggiungo, non mi pare l’unica patologia di questa ammalatissima nazione.
Carlo Di Stanislao
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