Romanzo sui generis, diario ed insieme apologo, poesia e prosa, frammenti e descrizioni, per recuperare un rapporto, quello fra padre e figlio, percorso ampiamente dalla letteratura (“Padri e figli” di Turgeniev, “Lettera al padre”, alcune pagine de “La coscienza di Zeno” di Svevo), composto di ammirazione ed idiosincrasia, che segue la linea archeologica, una stratigrafia che mette a nudo, scarnifica il dato memoriale. “Geologia di un padre” è uno scavo in se stessi, attraverso la figura scomparsa del padre, un’autobiografia che si estende, per singoli quadri, in potenza, a racconto condiviso, intensissimo, di un’inevitabile e quasi biologica identificazione, un sentimento d’orfananza, con lo sconcertante spaesamento che tutti, almeno una volta nella vita, siamo destinati a provare . Finalista al Super Mondello, edito da Einaudi, “Geologia di un padre” è un libro nel quale emerge la stoffa dotta e musicale del poeta, con intermezzi da domestico poema narrativo , con momenti di autocompiacimento ed altri di luminosa letteratura. Curioso notare, che, in simultanea, sullo stesso tema esce (più in sordina), “Vita e morte di un ingegnere” di Edoardo Albinati (Mondadori), che nel solco di un’autofiction di grande qualità, col tono diretto e affilato del memoriale (in vita e in morte), risponde al più letterario assemblaggio da Magrelli che, con il ritratto del padre Giacinto, completa la serie avviata nel 2003 da “Nel condominio di carne” (Einaudi) e proseguita con “La vice-vita” (Laterza, 2009) e “Addio al calcio” (Einaudi, 2010). I due “padri” descritti, a mezzo tra Freud e Musil, sono legami fattisi tanto sempre più forti e, nel contempo, vissuti come l’esito d’uno sgravarsi, un risalire in superficie, con padri-poliedrici che assomigliano, assunti nell’ordine della letteratura, a quelli di ognuno di noi e che divengono, insomma, divinità e personaggi a tutto tondo con cui misurare noi stessi. Padriutopici e grandi, amnche negli errori e nelle cadute, diversi dalle nostro distopie, che è la causa e non (come vorremmo per sgavarci le conoscenze), la corruzione che come una si è insinuata nell’organismo “sociale” e lo ha divorato dall’interno. Nel cinema la distopia è una “visione differente”, e al tema Stwefano Macera ha dedicato righe notetoli a partire dal film “Giaguaro” (1979) del filippino Lino Brocka, più vicino al nostro Giuseppe De Santis che non a Fassbinder, con una visione “populista” “che ci parla di Manila, delle sue bidonvilles (su cui si apre la sequenza iniziale), dei miti di successo e della necessità di denaro dei reietti e per farlo, egli adopera un linguaggio non solo diretto, ma fortemente legato alla cultura delle masse che sono l’oggetto e il referente del suo discorso. Se un Fassbinder raggela il melò alla Douglas Sirk e la suspense alla Hitchcock, modificando certi sistemi espressivi dall’interno, così da mutarne il senso di fondo, Brocka si serve di certi espedienti muovendo anche da altri intenti. L’impiego dei “materiali bassi”, gli è necessario ad evidenziare i riferimenti tipici dell’immaginario delle classi sociali subalterne. Il mondo del divismo di serie b – luogo delle speranze di giovani sottoproletarie lettrici di fotoromanzi – le risse e i divertimenti di gruppo alle spalle di qualcun altro, il cattolicesimo, fissato in una frase sul poster della parete di una catapecchia: sono tutti elementi che concorrono alla rilevanza sociologica del film.
Invece, nel caso di Magrelli e Albinati, i materiali sono alti, aulici, complessi, voluramente e sdegnosamente antipopulisti.
Soprattutto in Magrelli, potremmo, in definitiva, sciogliere noi lettori l’interrogativo che lo scrittore si pone nell’incipit di una delle sue poesie inserite in coda al romanzo, dicendo che, certamente, è “immagine di poesia” questa figura paterna che si nutre del figlio, e questo figlio che ce lo rende magnificamente trasfigurato nella luce della letteratura. Ma a patto di essere lettori colti.
Ciò che manca, allo coscienza distopica dell’oggi, sono una letteratura ed un cinema più fruibili, Ma questo di volti e di corpi, lontano da ogni psicologismo e legati all’idea che tutto ciò che è contenuto nell’inquadratura e nel racconto debba essere funzionale e priva discompensi.
Come notava Christian Caliandro, la differenza principale tra questo momento storico e il secondo dopoguerra è che la maggior parte degli italiani, oggi, sembrano preda di una specie di malattia spirituale, che ci fa tristi, avviliti, rabbiosi ed insieme inerti, frustrati e quasi totalmente negativi.
Questa la natura distopica del presente, sipuò verificare praticamente in ogni situazione pubblica, meglio ancora se di carattere culturale, con eventi-tipo con sul palco individui 50-60enni che sentenziano su problemi epocali che loro stessi hanno contribuito a creare e sproloquiano di argomenti che generalmente conoscono pochissimo, su cui hanno al massimo un’infarinatura obsoleta e un livello di informazione rudimentale e scadente.
Come scriveva Curzio Malaparte al suo ritorno dalla devastazione europea, incredulo di fronte all’ostinazione dei nobili e dei gerarchi nel negare ciò che avevano sotto gli occhi: “‘Nulla è cambiato in Italia, non è vero?’ mi domandò Paola. ‘Oh, tutto è cambiato,’ dissi ‘è incredibile come tutto è cambiato’. Paola disse: ‘È strano, io non me ne accorgo’. Guardava verso la porta, e a un tratto esclamò: ‘Ecco Galeazzo! Lo trovi cambiato anche lui?’. Io risposi: ‘Anche Galeazzo è cambiato. Tutti sono cambiati. Tutti aspettano con terrore il gran Koppȃroth, il Kaputt, il gran Gatto’. ‘Che cosa?’ esclamò Paola spalancando gli occhi” .
Ma nessuno cita Curzio Malaparte ed invece tutti Tommasi di Lampedusa. Sicché questa distopia che genera errore e crede di poterne essere giudice, continua anche nei pezzi migliori della mia generazione, anche in Magrelli che, infine, assolvendo l’accidia del padre assolve l’inerzia in se stesso e si purifica con la frase che, in fondo, “ci siamo morti entrambi, reciprocamente”.
Magrelli (nel 2011), nel pamplhet ispirandosi al Dialogue aux Enfers entre Machiavel et Montesquieu di Maurice Joly del 1864, si ri-racconta la favola di un Cavaliere Nero che, come il Pifferaio di Hamelin raffigurato in copertina, riesce con le trasmissioni magiche di Mediaset a ipnotizzare la maggioranza relativa del Paese, ma non sa propospettare alcuna possibilità di cambiamento. Insomma, Magrelli, come molti intellettuali (e politici) 50-60enni e di sinistra, quando i fatti mettono a repentaglio l’ideologia, reagiscono non cercando di correggere o adattare l’ideologia alla realtà, ma correggere la realtà negando i fatti.
E’ successo mille volte, talora con risvolti tragici (il partito comunista che nel 1956 si rifiuta di vedere i fatti d’Ungheria e Silone, soltanto, che se ne va), talora con risvolti meno drammatici ma non per questo privi di conseguenze (ad esempio con la negazione di dati socio-economici scomodi), talora, infine, con risvolti decisamente comici, come nel caso di Stefano Fassina sommerso di critiche per aver constatato un fatto – l’evasione da sopravvivenza – tanto evidente quanto indigesto al suo partito.
Per Orwell la società distopica non era una certezza ma una probabilità. Se le idee totalitarie possono farsi strada ovunque, persino tra gli intellettuali, allora è lecito aspettarsi il suo arrivo. La sua critica muove dunque all’intellighenzia di tutto il mondo, in particolare a quella inglese. La nuova generazione di intellettuali inglesi, radicali o di sinistra, fu a lungo bersaglio dei suoi attacchi. Secondo Orwell questi si abbandonavano troppo facilmente alle critiche verso il proprio paese, ma vivevano senza fatica all’interno della società che contestavano.
Giungendo, con un ampio balzo, all’Italia di oggi, se la rinuncia del partito decromatico a definire le sue coordinate sul piano del
pensiero filosofico, sociale, storico ed economico può aver fatto deperire il ruolo degli intellettuali “classici”, si potrebbe pensare che abbia
alternativamente dato spazio o trovato compensazione nel rapporto con altri intellettuali più legati alle scienze sociali, alle conoscenze tec-
niche e alla scienza dell’amministrazione. In un partito con una identità politico-programattica tutta l’attività politica in quanto tale pro- duce cultura. Ma una identità politico-programmatica ha stentato vistosamente a formarsi, mentre quella “classica” si è appiattita su idee trite, depressive e scontate.
Ciò che intendo denuciare è la scarsa opportunità di partecipazione di nuove leve intellettuali nel campo della proposta culturale, con modelli vecchi e che segnano largamebnte il passo, ma che ha fatto (e fa) comodo ad una classe politica niente affatto lucida nel disegno di integrazione e quindi capace di concepire una nuova prassi, nuove tecniche e nuova capacità di organizzazione, nonché capacità di imprimere assi culturali e programmatici meno empirici allo svolgimento delle proprie funzioni e, non ultimo, di concepire una rottura della separazione tra funzioni intellettuali e dirigenti. Sicché 8come esempio a me vicino, anzi vicinissimo), mentre Gabriele Lucci, intellettuale vivo, vigoroso ed intelligente, invia al sindaco Massimo Cialente e al’assessore per la ricostruzione del Comune de L’Aquila Di Stefano, affinché, da una parte, si abbiano maggiori elementi di memoria, per adottare un’azione a favore dell’Accademia, edall’altra si consenta una maggiore consapelezza in merito al pericolo di smatellamento di un “Bene Comune”, è già vidente la volontà politica di chiudere questa Accademia, rea di un passivo di bilancio che non si è voluto né capire né colmare e che con i suoi venti anni di storia, ha avuto il solo merito di indagare (e compensare”) nelle distopie trasmese da padri in figli.
Carlo Di Stanislao
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