Ecco il vostro biglietto per le stelle attraverso gli occhi dei più potenti telescopi al mondo, per la prima volta sul grande schermo e in 3D. Se ET esiste per davvero da qualche parte là fuori, non ci sfuggirà: astronavi e civiltà aliene saranno certamente visibili dai telescopi Alma, VLT e E-ELT. Le nuove osservazioni del super radiotelescopio ALMA in Cile hanno offerto agli astronomi dell’Osservatorio europeo australe la miglior veduta di sempre su come la formazione stellare vigorosa possa spazzar via il gas da una galassia e privare le successive generazioni di stelle del carburante di cui hanno bisogno per formarsi e crescere. Le immagini straordinarie mostrano enormi deflussi di gas molecolare espulso dalle regioni di formazione stellare nella vicina galassia dello Scultore. Questi nuovi risultati servono a spiegare la strana penuria di galassie molto massicce nell’Universo visibile. Lo studio, pubblicato dalla rivista Nature, conferma che le galassie, sistemi astrali simili alla nostra Via Lattea che contiene fino a qualche centinaio di miliardi di astri, sono le strutture di base per lo sviluppo della vita nel Cosmo. Una meta ambiziosa dell’astronomia contemporanea è di comprendere in che modo le galassie crescono ed evolvono. Una domanda chiave è la formazione delle stelle: che cosa determina il numero di nuovi astri che si formeranno in un sistema stellare? La galassia dello Scultore, nota anche come NGC 253, è una spirale posta dal nostro punto di vista terrestre nella costellazione australe dello Scultore. A una distanza di circa 11,5 milioni di anni luce dal Sistema Solare, è una delle nostre vicine intergalattiche più strette e la più vicina galassia “starburst” visibile dall’emisfero meridionale della Terra. Le galassie “starburst” producono nuove stelle a un tasso eccezionalmente alto. Poiché NGC 253 è uno degli esempi più vicini di questo tipo di galassie, è l’oggetto ideale per studiare l’effetto che questa crescita parossistica provoca sulla galassia ospite. Grazie all’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array dell’Eso, alcuni astronomi hanno scoperto fluttuanti colonne di gas freddo e denso in fuga dal centro del disco della galassia. “Con la superba risoluzione e sensibilità di Alma possiamo chiaramente vedere per la prima volta le enormi concentrazioni di gas freddo rilasciate bruscamente dai gusci di intensa pressione in espansione creati dalle giovani stelle – rivela Alberto Bolatto della University of Maryland (Usa), primo autore dell’articolo “The Starburst-Driven Molecular Wind in NGC 253 and the Suppression of Star Formation”, di Alberto D. Bolatto et al., pubblicato su Nature – la quantità di gas che misuriamo ci dà la prova che alcune galassie durante la crescita gettano fuori più gas di quello che entra. Potrebbe essere un esempio attuale di un fenomeno molto comune nell’Universo primordiale”. Questi risultati aiutano a spiegare perché gli astronomi hanno trovato stranamente poche galassie di alta massa nel Cosmo. Modelli al computer mostrano che le galassie più vecchie e rosse dovrebbero avere molta più massa e un maggior numero di stelle di quello che osserviamo oggi. Sembra che i venti galattici o le fuoriuscite di gas siano così forti da deprivare la galassia del carburante che serve per la formazione della successiva generazione di stelle. Osservazioni precedenti avevano mostrato gas più caldo ma molto meno denso che defluisce dalle regioni di formazione stellare di NGC 253. Ma, da solo, questo avrebbe un impatto limitato o nullo sul destino della galassia e sulla sua abilità di formare future generazioni di astri. Questi nuovi dati di Alma mostrano il gas molecolare molto più denso nell’atto di ricevere il “fiat” iniziale dalla formazione di nuove stelle, per poi essere trascinato via insieme al gas più tenue e caldo verso l’alone galattico. “Queste caratteristiche formano un arco quasi perfettamente allineato con il brodo del flusso di gas caldo e ionizzato in uscita dalla galassia che era stato osservato in precedenza – spiega Fabian Walter, ricercatore del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg (Germania), co-autore dell’articolo – possiamo ora vedere passo per passo la progressione della formazione di stelle che diventa deflusso”. I ricercatori dell’Eso hanno determinato che vaste quantità di gas molecolare, ogni anno almeno dieci volte la massa del Sole, vengono espulse dalla galassia a velocità comprese tra i 150mila e i quasi 1.000.000 di chilometri all’ora. Anche se queste velocità sono elevate (per ora irraggiungibili dalle attuali navette spaziali terrestri) potrebbero non essere sufficienti per espellere il gas dalla galassia: rimarrebbe così intrappolato nell’alone galattico per molti milioni di anni, per poi ricadere sul disco producendo nuovi episodi di formazione stellare. La quantità totale di gas espulso è maggiore di quella che contribuisce alla formazione delle stelle della galassia nello stesso periodo di tempo. A questo ritmo, la galassia potrebbe consumare tutto il gas in appena 60 milioni di anni. “Secondo me questo è un esempio lampante di come nuovi strumenti possano plasmare il futuro dell’astronomia – fa notare Fabian Walter – abbiamo studiato la regione di formazione stellare di NGC 253 e di altre galassie starburst vicine per almeno dieci anni. Ma prima di Alma non avevamo alcuna possibilità di vedere questi dettagli”. Lo studio ha utilizzato la configurazione iniziale del radiotelescopio Alma con le prime 16 antenne. “È entusiasmante pensare che cosa potrà farci vedere per questo tipo di deflussi la versione completa di Alma con le 66 antenne!” – rivela Walter. L’equipe è composta da A. D. Bolatto (Department of Astronomy, Laboratory for Millimeter-wave Astronomy, and Joint Space Institute, University of Maryland, USA), S. R. Warren (University of Maryland), A. K. Leroy (National Radio Astronomy Observatory, Charlottesville, USA), F. Walter (Max-Planck Institut für Astronomie, Heidelberg, Germania), S. Veilleux (University of Maryland), E. C. Ostriker (Department of Astrophysical Sciences, Princeton University, USA), J. Ott (National Radio Astronomy Observatory, New Mexico, USA), M. Zwaan (European Southern Observatory, Garching, Germania), D. B. Fisher (University of Maryland), A. Weiss (Max-Planck-Institut für Radioastronomie, Bonn, Germania), E. Rosolowsky (Department of Physics, University of Alberta, Canada) e J. Hodge (Max-Planck Institut für Astronomie, Heidelberg, Germania). Nuovi studi con la schiera completa del super radiotelescopio Alma aiuteranno a determinare il fato ultimo del gas trasportato dal vento, per svelare se i venti prodotti dallo starburst stanno effettivamente riciclando o veramente rimuovendo il materiale che serve per la formazione delle stelle. Alma è capace di tutto grazie al suo spiccato senso per la neve aliena presente sugli altri esomondi. La “linea delle nevi” è stata infatti immortalata per la prima volta in un sistema esoplanetario neonato. La cosiddetta linea della neve che segna il limite delle nevi perenni, pare sia stata osservata dagli astronomi dell’Eso nel disco intorno alla stella TW Hydrae, simile al nostro Sole. Lo studio promette di regalare all’Umanità nuove preziose informazioni sulla formazione di esopianeti ed esocomete, sui fattori che decidono la loro composizione e sulla storia del nostro Sistema Solare. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista Science Express. Alcuni scienziati dell’Eso utilizzando l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, hanno scattato la prima fotografia in assoluto del “limite” delle nevi perenni in un sistema solare alieno. Sulla Terra, il limite delle nevi si forma ad alta quota, dove le basse temperature convertono l’umidità dell’aria in neve. La linea è chiaramente visibile sulle montagne, dove termina la cima coperta di neve e inizia la parete rocciosa. Il limite della neve si forma in modo simile nello spazio, intorno a una giovane stella, nelle lande remote del disco da cui si formano i sistemi planetari alieni abbondanti nell’Universo. Partendo dalla stella e spostandosi verso l’esterno, la preziosa acqua (H2O) è la prima a congelare, formando la prima linea della neve. Più in là, la temperatura cala ancora, si congelano e diventano neve molecole più esotiche come l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e il monossido di carbonio (CO). Queste diverse nevi (sempre bianche ma chimicamente distinte e con diverso limite di congelamento) coprono i grani di polvere con un rivestimento appiccicoso che svolge un ruolo fondamentale nell’aiutare i grani a superare la loro naturale tendenza a rompersi nelle collisioni. Diventano così i mattoni fondamentali di esopianeti ed esocomete, quindi della probabile vita aliena. La neve aumenta anche la quantità di materia solida disponibile e potrebbe velocizzare drasticamente il processo di formazione degli esopianeti. Ciascuno di questi “limiti” di neve per l’acqua, l’anidride carbonica, il metano e il monossido di carbonio, potrebbe essere legato alla formazione di un particolare tipo di esopianeta con differenti condizioni ambientali adatte a qualsiasi forma di vita. Ad esempio i pianeti rocciosi si formano all’interno del “limite” della neve d’acqua, più vicini alla loro stella madre, dove solo la polvere sopravvive. All’altro estremo si trovano i pianeti giganti, ghiacciati, che si formano al di là del “limite” della neve di monossido di carbonio. Intorno a stelle simili al Sole, in un sistema planetario come il nostro, la linea della neve di acqua potrebbe corrispondere alla distanza tra le orbite di Marte e di Giove, mentre il limite della neve di monossido di carbonio all’orbita di Nettuno. Il limite della neve individuato da Alma è il primo sguardo sulla linea della neve di monossido di carbonio intorno a TW Hydrae, una giovane stella a 175 anni luce dalla Terra. Gli astronomi pensano che questo sistema esoplanetario nella sua infanzia condivida molte delle caratteristiche del nostro Sistema Solare quando aveva solo pochi milioni di anni. “Alma ci ha dato la prima vera immagine del limite della neve intorno a una giovane stella, cosa entusiasmante per quello che ci racconta dei primi periodi della storia del Sistema Solare – spiega Chunhua “Charlie” Qi dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge (Usa), co-autore principale dell’articolo, insieme a K. I. Öberg, presentato sulla rivista Science Express – ora possiamo vedere dettagli prima nascosti delle gelide lande esterne di un altro sistema planetario simile al nostro”. La presenza del limite della neve di monossido di carbonio potrebbe avere conseguenze ben maggiori rispetto alla formazione degli esopianeti. Il ghiaccio di monossido dei carbonio serve per formare il metanolo, uno dei mattoni delle molecole organiche più complesse, essenziali per la vita che conosciamo benissimo sulla Terra. Se le comete trasportano queste molecole su pianeti alieni in formazione simili alla Terra primordiale, questi risultano di conseguenza dotati degli ingredienti necessari alla vita semplice e, forse, complessa. Senza scomodare le ipotesi fantascientifiche elaborate dal regista Ridley Scott nel suo film “Prometheus”, potremmo essere molto più vicini alla soluzione definitiva del rebus cosmico: chi o che cosa ha portato la vita sulla Terra? In definitiva, siamo o no anche noi Umani degli Extraterrestri ospiti del pianeta azzurro? Prima d’ora il limite della neve non era mai stato fotografato direttamente nel Cosmo perché si forma nella zona centrale relativamente ristretta del piano di un disco protoplanetario e perciò la sua precisa posizione ed estensione finora non poteva essere determinata. Al di sopra e al di sotto della regione in cui si forma la neve, la radiazione della stella impedisce la formazione del ghiaccio. La concentrazione di gas e polvere nel piano centrale isola l’area dalla radiazione così che il monossido di carbonio e gli altri gas possono raffreddarsi e congelare. L’equipe responsabile dell’osservazione è composta da C. Qi (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, USA), K. I. Öberg (Departments of Chemistry and Astronomy, University of Virginia, USA), D. J. Wilner (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, USA), P. d’Alessio (Centro de Radioastronomía y Astrofisica, Universidad Nacional Autónoma de México, Messico), E. Bergin (Department of Astronomy, University of Michigan, USA, S. M. Andrews (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, USA), G. A. Blake (Division of Geological and Planetary Sciences, California Institute of Technology, USA), M. R. Hogerheijde (Leiden Observatory, Leiden University, Paesi Bassi) e E. F. van Dishoeck (Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, Germania). Gli astronomi sono riusciti a sbirciare nel disco, dove la neve si era formata, sfruttando un abile trucco: invece di cercare la neve che non può essere osservata direttamente, hanno cercato una molecola nota come Diazenilio (N2H+) che emette radiazione nella banda millimetrica dello spettro ed è perciò un bersaglio perfetto per le antenne di Alma. La fragile molecola viene distrutta facilmente in presenza di monossido di carbonio gassoso e perciò appare in quantità misurabili solo nelle zone in cui il monossido di carbonio è ghiacciato e non può più aggredirla. Così la chiave di volta per trovare il limite della neve di monossido di carbonio sta nell’osservare il Diazenilio. La sensibilità e la risoluzione uniche di Alma hanno permesso agli astronomi dell’Eso di tracciare la presenza e la distribuzione del Diazenilio e di trovare un confine ben delineato a circa 30 Unità Astronomiche dalla stella, cioè trenta volte la distanza tra la Terra e il Sole. Questo dà, in effetti, un’immagine in negativo della neve di monossido di carbonio nel disco che circonda TW Hydrae: foto che può essere usata per vedere il limite della neve di monossido di carbonio esattamente dove la prevede la teoria, cioè all’interno dell’Anello di Diazenilio. “Per queste osservazioni abbiamo usato solo 26 antenne delle 66 finali di Alma – rivela Michiel Hogerheijde del Leiden Observatory (Paesi Bassi) – indicazioni della presenza del limite della neve si vedevano già con Alma intorno ad altre stelle e siamo convinti che future osservazioni con la schiera completa di antenne troveranno molti altri casi e forniranno emozionanti approfondimenti sulla formazione ed evoluzione dei pianeti extrasolari. Aspettate e vedrete”. Nel frattempo nuove osservazioni del Very Large Telescope dell’Eso mostrano per la prima volta una nube di gas fatta a brandelli dal buco nero supermassiccio al centro della nostra Galassia. La nube è così allungata che la parte anteriore ha superato il punto di minima distanza dal buco nero e si sta allontanando ad una velocità di oltre 10 milioni di chilometri all’ora (molto al di là delle capacità disponibili sulle sonde automatiche della Nasa lanciate nel Cosmo e sui razzi chimici terrestri) mentre la coda sta ancora cadendo verso il buco nero. Nel 2011 il VLT ha scoperto una nube di gas pesante parecchie volte la massa della Terra in accelerazione verso il buco nero posto al centro della Via Lattea, che con la sua massa stimata di circa quattro milioni di volte quella del Sole, è conosciuto con il nome di Sgr A* (Sagittario A star). È di gran lunga il più vicino buco nero supermassiccio che si conosca e perciò il miglior ambiente per studiare in gran dettaglio e in tempo “quasi” reale questi spaventosi mostri gravitazionali con le loro stelle dalle strane orbite. Lo studio del buco nero supermassiccio al centro della Galassia e del suo ambiente è considerato la prima nella classifica delle dieci scoperte astronomiche più importanti dell’Eso. Questa nube sta “ora” raggiungendo la minima distanza dal buco nero e nuove osservazioni del VLT mostrano che si sta palesemente allungando sotto l’influsso dell’estremo campo gravitazionale del buco nero. “Il gas in testa alla nube si estende ora su più di 160 miliardi di chilometri vicino al punto di minima distanza dell’orbita dal buco nero – spiega Stefan Gillessen del Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics di Garching (Germania) a capo dell’equipe osservativa, co-autore dell’articolo “Pericenter passage of the gas cloud G2 in the Galactic Center”, pubblicato dalla rivista Astrophysical Journal – e questo limite è solo a poco più di 25 miliardi di chilometri dal buco nero stesso, appena abbastanza per non caderci dentro. La nube è così allungata che raggiungere la minima distanza non è possibile con un evento singolo ma piuttosto grazie a un processo che dura almeno un anno”. Poiché la nube è allungata, la sua luce diventa sempre più difficile da osservare. Ma osservando la regione vicina al buco nero per più di 20 ore in totale con lo strumento SINFONI montato sul VLT (l’esposizione più profonda di quest’area mai ottenuta con uno spettrografo a campo integrale) l’equipe è riuscita a misurare le velocità delle diverse parti della nube mentre saetta vicino al buco nero centrale. La distanza di massimo avvicinamento al buco nero è circa cinque volte la distanza del pianeta Nettuno dal Sole, pericolosamente vicino per un buco nero con una massa di quattro milioni di volte quella del nostro luminare! In uno spettrografo a campo integrale, la luce registrata da ogni pixel viene distribuita nei suoi colori componenti e così viene misurato uno spettro per ogni pixel. Gli spettri possono essere poi analizzati individualmente e usati per creare mappe delle velocità e delle proprietà chimiche di ogni punto dell’oggetto. L’equipe spera anche di osservare la prova dell’interazione della nube in moto rapido con il gas dell’ambiente che circonda il buco nero. Finora non è stato trovato nulla, ma altre osservazioni sono in programma per cercare proprio tali effetti. Lo spaziotempo prossimo ai buchi neri è molto diverso dal nostro. Anche il tempo scorre in maniera molto differente. Chi si avvicina troppo all’imbuto cosmico finisce spaghettizzato! “Il fatto più entusiasmante che vediamo nelle nuove osservazioni è la testa della nube che sta tornando verso di noi a più di 10 milioni di chilometri all’ora lungo l’orbita, a circa l’1 per cento della velocità della luce – rivela Reinhard Genzel, a capo del gruppo di ricerca che ha studiato questa regione per quasi vent’anni – ciò significa che l’estremità anteriore della nube ha già superato il punto di massimo avvicinamento al buco nero”. L’equipe è composta da S. Gillessen (Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, Garching, Germania [MPE]), R. Genzel (MPE; Departments of Physics and Astronomy, University of California, Berkeley, USA), T. K. Fritz (MPE), F. Eisenhauer (MPE), O. Pfuhl (MPE), T. Ott (MPE), M. Schartmann (Universitätssternwarte der Ludwig-Maximilians-Universität, Munich, Germania [USM]; MPE), A. Ballone (USM; MPE) e A. Burkert (USM; MPE). L’origine della nube di gas rimane ignota, anche se non mancano le idee a proposito. Gli astronomi pensano che la nube di gas potrebbe essere stata creata dai venti stellari degli astri in orbita intorno al buco nero. Potrebbe anche essere il risultato di un getto proveniente dal centro galattico. Un’altra possibilità è che una stella si trovi al centro della nube: in questo caso il gas sarebbe il prodotto del vento dell’astro o di un disco protoplanetario di gas e polvere intorno alla stella. Le nuove osservazioni aiutano a restringere le possibilità. “Come uno sfortunato astronauta di un film di fantascienza, vediamo che la nube viene stirata così tanto che sembra un fascio di spaghetti. Ciò implica che probabilmente non contiene una stella – fa notare Gillessen – al momento pensiamo che il gas provenga dalle stelle che vediamo in orbita intorno al buco nero”. Il culmine di quest’evento unico che sta avvenendo sotto i nostri occhi al centro della Galassia, viene costantemente monitorato dagli astronomi di tutto il mondo. Questa campagna osservativa così intensa produrrà una quantità di dati notevole che non solo ci darà nuove informazioni sulla nube di gas, ma permetterà di sondare le regioni prossime al buco nero che non sono state studiate in precedenza e di valutare gli effetti della gravità estrema sullo spaziotempo anche in previsione dei futuri viaggi interstellari dell’Umanità. Mentre si sviluppa quest’evento al centro della Galassia, gli astronomi si aspettano di osservare che l’evoluzione della nube passi da puramente gravitazionale e mareale a una “idrodinamica” complessa e turbolenta. Le nuove osservazioni con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter array hanno anche offerto la miglior visione di sempre di una stella gigantesca durante il processo di formazione a partire da una nube oscura. È stato scoperta una “placenta stellare” di massa pari a più di 500 volte quella del Sole, la più grande mai vista nella Via Lattea, ancora in crescita. La stella in embrione all’interno della nube si nutre voracemente della materia che cade verso l’interno. Si pensa che la nube darà alla luce una stella brillante di massa fino a 100 volte quella del nostro luminare. Le stelle più brillanti e massicce della Galassia si formano all’interno di nubi fredde e scure, ma il processo rimane avvolto dalla polvere e dal mistero. Gli astronomi usano l’espressione “stelle massicce” per indicare quelle di massa pari a circa dieci volte o più di quella del Sole. La massa, infatti, non va confusa con le dimensioni. Un’equipe internazionale di astronomi ha usato il radiotelescopio Alma dell’Eso per effettuare una sorta di “ecografia” prenatale con l’obiettivo di osservare meglio la formazione di una di queste stelle gigantesche, distante circa 11mila anni luce dalla Terra, in una nube nota come la Nube Oscura di Spitzer (Spitzer Dark Cloud). Esistono oggi due teorie sulla formazione delle stelle più massicce. Una suggerisce che la nube oscura si frammenti, creando diversi nuclei che collassano individualmente per formare delle stelle. L’altra è decisamente più drammatica: l’intera nube inizia a collassare verso l’interno, con la materia che precipita verso il centro per formare uno o più oggetti giganteschi. Un team di astronomi guidato da Nicolas Peretto del CEA/AIM Paris-Saclay (Francia) e della Cardiff University (UK), ha subito capito le potenzialità di Alma, un sistema di antenne davvero perfetto per capire cosa sta succedendo là fuori. La Nube Oscura di Spitzer è stata inizialmente individuata come un ambiente drammatico di filamenti densi e scuri di gas e polvere, grazie a osservazioni effettuate con i telescopi spaziali Spitzer della Nasa ed Herschel dell’Esa. L’equipe di astronomi, utilizzando la sensibilità unica di Alma, ha osservato in dettaglio sia la quantità di polvere sia il moto del gas che si muove nella nube oscura, riuscendo a stanare un oggetto veramente mostruoso. “Le notevoli osservazioni di Alma ci hanno permesso di guardare per la prima volta in profondità quello che stava accadendo all’interno della nube – rivela Nicolas Peretto – volevamo vedere come le stelle-mostro si formano e crescono, e in questo abbiamo raggiunto il nostro scopo! Una delle sorgenti che abbiamo trovato è un vero gigante, il nucleo protostellare più grande mai individuato nella Via Lattea”. Il ventre cosmico che contiene la stella in embrione, il nucleo in questione, ha una massa pari a 500 volte quella del nostro Sole che turbina all’interno. Questa regione di formazione stellare sta producendo molte stelle. Il nucleo è il più massiccio tra i tanti del Cosmo. E le osservazioni di Alma mostrano che molto altro materiale sta ancora fluendo verso l’interno, così aumentando ancora di più la massa. Questo materiale alla fine collasserà per formare una giovane stella che peserà fino a 100 volte la nostra. Una vera bestia rara. “Anche se già sospettavamo che la regione fosse una buona candidata ad essere una nube di formazione stellare massiccia, non ci aspettavamo di trovare una stella in embrione così grande all’interno – fa notare Peretto – quest’oggetto formerà una stella che sarà probabilmente 100 volte più massiccia del Sole”. Solo una su diecimila stelle della Via Lattea raggiunge questo Guinness Universal Record! “Queste stelle non solo sono rare, ma la loro nascita è anche molto rapida e la loro giovinezza molto breve, e perciò trovare un oggetto così massiccio in una fase evolutiva cosi precoce è un risultato spettacolare” – spiega Gary Fueller dell’University of Manchester (UK). “Le osservazioni di Alma – dichiara Ana Duarte Cabral del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux (Francia) – rivelano i dettagli spettacolari del moto della rete di filamenti di gas e polvere, e mostrano che una quantità di gas enorme sta ancora scorrendo verso la regione compatta centrale”. Questo fenomeno è di supporto alla teoria di un collasso globale per la formazione di stelle massicce, più che alla frammentazione. Le osservazioni sono parte della fase “Early Science” di Alma e sono state effettuate con solo un quarto dell’intero schieramento di antenne che dal 2013 è pienamente operativo. Questa ricerca è stata presentata nell’articolo “Global collapse of molecular clouds as a formation mechanism for the most massive stars”, pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics. L’equipe è composta da N. Peretto (CEA/AIM Paris Saclay, Francia; University of Cardiff, UK), G. A. Fuller (University of Manchester, UK; Jodrell Bank Centre for Astrophysics and UK ALMA Regional Centre Node), A. Duarte-Cabral (LAB, OASU, Université de Bordeaux, CNRS, Francia), A. Avison (University of Manchester, UK; UK ALMA Regional Centre node), P. Hennebelle (CEA/AIM Paris Saclay, Francia), J. E. Pineda (University of Manchester, UK; UK ALMA Regional Centre node; ESO, Garching, Germania), Ph. André (CEA/AIM Paris Saclay, Francia), S. Bontemps (LAB, OASU, Université de Bordeaux, CNRS, Francia), F. Motte (CEA/AIM Paris Saclay, Francia), N. Schneider (LAB, OASU, Université de Bordeaux, CNRS, Francia) e S. Molinari (INAF, Roma, Italia). “Siamo riusciti a ottenere queste osservazioni così dettagliate usando solo una frazione del potenziale finale di Alma che – rivela Peretto – rivoluzionerà definitivamente la nostra conoscenza della formazione stellare, risolvendo alcuni dei problemi odierni e di sicuro proponendone di nuovi”. Altri astronomi, usando il Very Large Telescope, hanno identificato una galassia lontana che sta avidamente nutrendosi del gas circostante in caduta verso la galassia. Una scena degna del film “Pitch Black”. Il gas crea un flusso in grado di alimentare la formazione stellare e, al tempo stesso, di incrementare la rotazione della galassia. Questa è finora la miglior evidenza osservativa della teoria che le galassie inglobino e divorino il materiale circostante per crescere e formare stelle. I risultati sono pubblicati dalla rivista Science. Gli astronomi hanno sempre sospettato che le galassie crescano attirando materia dai dintorni, ma questo processo si è dimostrato molto difficile da osservare direttamente. Ora il Very Large Telescope dell’Eso è in grado di studiare un raro allineamento tra una galassia distante e un quasar ancora più lontano, il nucleo luminosissimo di una galassia alimentato da un buco nero supermassiccio. Il quasar di fondo si chiama HE 2243-60 e la galassia si trova a un redshift di 2,3285. Il che significa che la stiamo osservando “indietro nel tempo” quando l’Universo aveva appena due miliardi di anni rispetto agli attuali 13,7. La luce del quasar, prima di raggiungere la Terra, passa attraverso la materia che circonda la galassia, rendendo possibile studiare in dettaglio le proprietà del gas intorno alla galassia. Quando la luce del quasar-sonda passa attraverso le nubi di gas, alcune lunghezze d’onda vengono assorbite. Lo schema di queste “impronte” di assorbimento può dare agli astronomi molte informazioni sul moto e sulla composizione chimica del gas. Senza il quasar sullo sfondo si sarebbero ottenute molte meno informazioni: le nubi di gas non risplendono e non sono visibili nelle immagini dirette. Questi nuovi risultati offrono la migliore visione di una galassia nell’atto di nutrirsi senza tanti complimenti. “Questo tipo di allineamento è molto raro e ci ha permesso finora di effettuare osservazioni uniche – rivela Nicolas Bouché del Research Institute in Astrophysics and Planetology (IRAP) di Tolosa (Francia) primo autore dell’articolo “Signatures of Cool Gas Fueling a Star-Forming Galaxy at Redshift 2.3”, pubblicato dalla rivista Science – abbiamo potuto usare il Very Large Telescope dell’Eso per osservare sia la galassia stessa sia il gas circostante. Ciò ci ha permesso di affrontare un nodo importante della teoria della formazione delle galassie: come fanno le galassie a crescere ed alimentare la formazione stellare?”. L’equipe è composta da N. Bouché (CNRS; IRAP, Francia), M. T. Murphy (Swinburne University of Technology, Melbourne, Australia), G. G. Kacprzak (Swinburne University of Technology, Australia; Australian Research Council Super Science Fellow), C. Péroux (Aix Marseille University, CNRS, Francia), T. Contini (CNRS; University Paul Sabatier of Toulouse, Francia), C. L. Martin (University of California Santa Barbara, USA), e M. Dessauges-Zavadsky (Observatory of Geneva, Svizzera). Le galassie consumano rapidamente la loro riserva di gas per creare nuove stelle e in qualche modo devono essere continuamente rifornite di nuova materia gassosa per andare avanti. Gli astronomi sospettavano che la risposta a questo problema stesse nella raccolta di gas freddo dai dintorni, grazie all’attrazione gravitazionale del sistema stellare. In questo scenario una galassia attira gas verso l’interno e questo poi si mette a girare intorno alla stessa galassia, ruotando con essa prima di cadere. Anche se qualche prova di questo tipo di accrescimento era stata già osservata nelle galassie, il moto del gas e le altre sue proprietà non erano state ben capite finora. Gli astronomi hanno usato due strumenti noti come SINFONI e UVES entrambi accoppiati al VLT dell’Osservatorio Paranal nel Cile settentrionale. SINFONI è lo spettrografo a campo integrale per osservazioni nel vicino infrarosso. UVES è lo spettrografo nel visibile e nell’ultravioletto. Il primo ha scoperto il moto del gas nella galassia mentre il secondo gli effetti del gas intorno alla galassia sulla luce che proviene dal quasar più lontano. Le nuove osservazioni hanno mostrato come la galassia stessa ruoti e rivelato la composizione e il moto del gas all’esterno della galassia. “Le proprietà di quest’enorme volume di gas intorno alla galassia erano esattamente quelle che ci saremmo aspettati di trovare se il gas freddo fosse attratto dalla galassia – conferma Michael Murphy della Swinburne University of Technology di Melbourne (Australia), co-autore della ricerca – il gas si muove come previsto, nella quantità giusta e con la composizione adatta ai modelli teorici. È come il pasto dei leoni allo zoo: questa particolare galassia ha un vorace appetito ed abbiamo scoperto come si nutre per crescere così in fretta”. Gli astronomi hanno già trovato l’evidenza della materia presente intorno alle galassie nell’Universo primordiale, ma questa è la prima volta che sono stati in grado di mostrare chiaramente che la materia si muove verso l’interno, e non verso l’esterno, e di determinare la composizione chimica del carburante che alimenta le nuove generazioni di stelle. Senza la luce del quasar che funge da sonda cosmica, il gas circostante non sarebbe osservabile. “Siamo stati fortunati in questo caso – fa notare Crystal Martin della University of California di Santa Barbara (Usa) – infatti il quasar si trovava esattamente al posto giusto perché la luce passasse attraverso il gas in caduta. La prossima generazione di telescopi veramente grandi consentirà studi con diverse linee di vista per ogni galassia e ci darà una visione più completa del problema”. Ma l’Eso è anche grande Cinema d’Autore. Non meravigliamoci più di tanto, quindi, se nelle prossime pellicole di fantascienza saranno le immagini del nuovo film in 3D “L’Universo Nascosto” le protagoniste assolute dello spazio vero già fruibile in presa diretta dagli abitanti degli altri mondi! Uscito nei teatri IMAX® e nei cinema a schermo gigante in tutta la Terra, con anteprime mondiali il 28 Giugno 2013 al Great Lakes Science Center di Cleveland in Ohio (Usa), e il 29 Giugno al Planetario Tycho Brahe di Copenhagen in Danimarca, il film dell’Eso “Hidden Universe” mostra i telescopi più avanzati in filmati “time-lapse” ad alta risoluzione, affascinanti versioni tridimensionali di strutture celesti con una simulazione 3D dell’evoluzione dell’Universo. Per visitare di persona la maggior parte dei telescopi all’avanguardia bisogna viaggiare in luoghi remoti come le Ande cilene ad altitudini fino a 5000 metri. Ora c’è un modo più semplice e sicuro per sperimentare questi viaggi estremi. Per la prima volta in IMAX® 3D si può esplorare sullo schermo la “nave” ammiraglia dell’Eso, il Very Large Telescope, e si può quasi toccare con mano il più grande progetto astronomico esistente, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, un impianto astrofisico internazionale di 66 radiotelescopi accoppiati, sostenuto da Europa, America del Nord e Asia Orientale in cooperazione con la Repubblica del Cile. Tutto questo è il film L’Universo Nascosto dell’Eso, diretto da Russell Scott che ha lavorato sul posto durante le riprese nel Novembre 2012. “L’esperienza di filmare nel Deserto di Atacama uno strumento così avanzato, di classe mondiale, è stata incredibile – rivela il regista Russell Scott – alcune delle località nelle montagne andine sono quasi ultraterrene, ti fanno sentire come se fossi su un altro pianeta e questa sensazione di natura, al di là di quello a cui siamo abituati, è esattamente quello che voglio trasmettere al pubblico”. Da questi luoghi estremi sulla Terra, vieni condotto in un viaggio mozzafiato nello spazio profondo attraverso il mezzo cinematografico migliore di sempre, l’IMAX 3D. Gli spettatori possono scrutare in galassie e nebulose risplendenti, viaggiare sul terreno di Marte e osservare splendide immagini del Sole. L’Universo viene reso vivo attraverso immagini reali e inedite simulazioni 3D su schermo gigante, basate su dati astronomici catturati dal VLT, da Alma e da altri telescopi come l’Hubble Space Telescope della Nasa/Esa, creando un’esperienza unica e coinvolgente in IMAX 3D. “L’Universo Nascosto esplora il Sole, la nostra connessione umana con il Cosmo e visioni incantevoli di galassie lontane in un modo mai visto prima, guardando con occhi diversi all’Universo – fa notare il produttore Stephen Amezdroz. L’Universo Nascosto è girato in 15/70 mm e prodotto dalla compagnia australiana December Media in collaborazione con Film Victoria, la Swinburne University of Technology e l’Eso. Il film è prodotto in associazione con, e distribuito da, MacGillivray Freeman Films, due volte nominato agli Oscar, il principale produttore e distributore mondiale di film IMAX. “Siamo entusiasti di mettere in mostra i telescopi dell’Eso e i loro rivoluzionari risultati scientifici in IMAX – dichiara Lars Lindberg Christensen, responsabile del Dipartimento di Educazione e Divulgazione dell’Eso – solo il formato IMAX può davvero trasmettere questa esperienza spettacolare di vedere in azione i telescopi più avanzati al mondo!”. Un elenco delle migliori location che proiettano il film verrà mantenuto aggiornato sul sito ufficiale del film. Buon viaggio!
Nicola Facciolini
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