In Egitto si vivono ore di calma tesa, con l’uomo forte Abdel-Fatah el-Sissi, capo dell’esercito, ministro della difesa e vicepresidente, che apre al dialogo con gli islamisti, ma al contempo intima ad Ue e Stati Uniti di non interferire negli affari interni dell’Egitto, che, ricorda, rapprsenta l’unico baluardo a difesa di Israele. Dopo giorni di vera guerra civile con centinaia di morti, i Fratelli Mussulmani hanno ieri cancellato due cortei, ma c’è chi non demorde, come i sostenitori del deposto presidente Morsi che a centinaia, sempre ieri, si sono radunati a piazza Roxy, a pochissima distanza dal palazzo della presidenza egiziana a Heliopolis e con le braccia alzate hanno indicato il numero 4, per significare “siamo tutti di Rabaa” (la piazza del massacro di mercoledì), perché 4 in arabo significa “arba-ah”, e invertendo le lettere si arriva alla parola Rabaa.
Tornando all’esercito, che di fatto è oggi al comando, secondo la sua roadmap, stilata dopo la destituzione del presidente Mohammed Morsi, prima dovrebbe avvenire la modifica della Costituzione sostenuta dagli islamisti, quindi, nel 2014 , si dovrebbero tenere elezioni presidenziali e parlamentari.
Ma c’è chi non si fida, come l’ormai ex vicepresidente e Nobel per la Pace Mohammed ElBaradei, che ieri ha lasciato il Cairo e si è diretto a Vienna, dopo aver rinunciato al suo incarico in seguito all’eccessivo uso della forza da parte dell’esercito per sgomberare i sit-in dei sostenitori di Morsi.
A documentare il clima di incertezza dietro l’apparente tregua, nelle ultime 24 ore sono stati arrestati oltre 1.000 sostenitori dell’ex presidente Mohamed Morsi, mentre la procura generale egiziana ha accusato di omicidio e terrorismo 250 membri della Fratellanza Musulmana.
E se l’Egitto è in uno stato di instabilità estrema, invischiato in una guerra interna che rischia di allargarsi all’intera area, con le asprezze e gli estremismi delle guerre di religione e mentre la Codaconcs lancia l’insensata idea di una class action per i turisti rimpatiati dai resort del Mar Rosso, affermando che le avvertenze della Farnesina sono state insufficienti ed intempestivi, la guerra in Egitto rischia di far aumentare i tassi di immagrazione di profughi disperati verso il nostro Paese, già teatro doi un incremento di sbarchi e non solo a Pantelleria, che ha rilanciato il problema dei migranti, con il Prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del ministro dell’Interno, che dichiara che nei primi quattro mesi del 2013 sono state esaminate 8.011 domande di protezione internazionale, di cui 4.801 (circa il 60%) sono state definite con la concessione di protezione e sin’ora sono stati rilasciati 730.607 permessi soggiorno.
Le immagini dei bagnanti che, con una vera catena umana, hanno aiutato 160 migranti a porsi in salvo mentre erano in difficoltà nel mare antistante Morghella, nel comune di Pachino, hanno meritato l’elogio di Giorgio Napolitano ma, al contempo, il numero di sbarghi che va via via aumentando, ha indotto sia il ministro Keynge che il vicepremier Alfano a ricordare che il problema non è solo italiano, ma ineste per intero l’Uinione Europea.
Già lo scorso 10 agosto, dopo la morte di sei poveri disgraziata sulla spiaggia catenese di Playa, il Ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge aveva tirato in ballo le responsabilità dell’UE, ed affermato: “Credo sia sempre più necessario avviare anche una forte pressione sull’Europa affinché si mettano in campo reali ed efficaci politiche che permettano al nostro paese di non essere solo nell’affrontare questa drammatica situazione. I morti di Catania – prosegue il ministro – richiamano ancora una volta la necessità che l’emergenza umanitaria venga affrontata in maniera più larga e condivisa da tutta la comunità europea”.
Parlando (a differenza della solita Lega), il linguaggio dell’accoglienza, Cécile Kyenge, aveva lanciato un vero appello alle coscienze, dicendo che: “Le persone che quotidianamente arrivano stremate sulle nostre coste, che giungono a noi sfidando il mare fuggendo da guerre e privazioni o nella prospettiva di una speranza di vita migliore o di una occasione di riscatto, richiamano ciascuno ad una responsabilità più ampia che ci parla di accoglienza e solidarietà”.
Come si diceva, la Lega è partita subito all’attacco e non solo all’indirizzo di quella che ora è chiamata “sciura Kyenge” su “la Padania”, ma anche di Alfano, con il responsabile immigrazione del partito, Manes Bernardini, che dichiara: “Il ministro Alfano, che fino ad oggi ha dormito sonni beati invece di porre un freno alle ondate immigratorie, oggi non può chiamarsi fuori dalle responsabilità. Stiamo subendo un’invasione, stiamo vivendo drammi personali e contando vittime. Il tutto mentre Alfano sembra cotto dalla calura estiva (e dalla condanna di Berlusconi) e la collega Kyenge rincorre i post ingiuriosi di pochi deficienti per farsi incensare ad ogni uscita pubblica. Qui a dominare sono solo il silenzio e il vuoto decisionale”.
Il richiamo a Berlusconi non è casuale, dal m omento che, anche se richiesto, il sostegno al leader in cerca di un qualsiasi salvacondoto è andato deserto in casa leghista.
Il Pd è unanime e dice che, il 9 settembre, voterà compatto per le dimissioni di Berlusconi, mentre messaggi sinistri all’indirizzo della tenuta del governo vengono dal Pdl, con lo stesso Berlusconi che, in viva voce, dice ai suoi giovani sostenitori che lui resiste e non arretra per il bene della Nazione.
Lo scoglio è in vista ed estremamente pericoloso, dopo che la Corte Costituzionale, con sentenza per molti versi ineccepibile, ha confermato il fattore giudiziario con la condanna di un reato ed ha rinviato alla “politica, suscitndo il vespaio al quale stiamo assistendo e che, di nuovo, ritarda l’azione del governo sui temi crucuiali del lavoro e della ripresa.
Come ha scritto “Penthotal” il 13 agosto, il problema vero, però, non è Berlusconi, bensì la totale subordinazione agli agenti esterni che limita enormemente non solo i residui dello stato costituzionale ma anche le possibilità di manovra in coerenza con esso.
In effetti, l’idea degli economisti, centrale ad esempio fra i vertici di JP Morgan, è che lo stesso assetto costituzionale può diventare un intralcio da rimuovere, rendendo palese che siamo in presenza del massimo della contraddizione tra un sistema di priorità economiche e la sua rappresentazione politica, situazione che nella storia ha provocato spinte al cambiamento potenti e talvolta furiose, facendo attecchire ampiamente un humus giacobino che, continua ad agitare il panno rosso dellaantiberlusconismo davanti agli occhi della società, senza però compiere i passaggi necessari per un cambiamento sociale e democratico effettivo.
In questo clima di calma molto tesa e di guerra rinviata a settembre, stupisce (ancora una volta), l’uscita di Grillo che suo blog scrive che: “Berlusconi è uno statista, non un evasore fiscale” ed aggiunge che: “Questa piaga ipocrita, questa mascherata sta travolgendo tutto e tutti. Napolitano non è neppure nominabile in Parlamento. All’ingresso di Montecitorio la politically correct Boldrini metterà la targa ‘Non bestemmiare e non nominare Napolitano invano’.
Non una difesa di Berlusconi, s’intende, ma l’ennesimo attacco a Napolitano che rapprsenterebbe la quintessenza di una ipocrisia che si è infiltrata anche nel linguaggio, che oggi, secondo l’ex comico, premia gli “Houdini della parola”, quelli che chiamano i “cadaveri, non viventi” ed i “clandestini, rifugiati alla luce del sole”.
In mezzo a questa contorsione, torna a parlare D’Alema, vero principe delle situazioni conflittuali mascherate, che invita Berlusconi a fare il leader fuori dal Parlamento, come Grillo, e vaticina che: “il destino del Cavaliere non inciderà sul governo” e “ si voterà nel 2015”.
Bruttisima cosa, perché sappiamo come la realtà vada spesso al’opposto di quanto lui presagisca.
Un’ultima battaglia non ancora guerreggiata, è la corsa alla leadership del Pd, con regole congressuali che ancora non ci sono ed una mozione, uscita nel clima infuocato di ferragosto e che, pare, sta ottenendo sostegni trasversali, che chiede al partito “di avere il coraggio di riconoscersi nell’impegno di Enrico Letta e di assumersi la responsabilità politica di governarlo”.
Il documento, che sarà presenrtato dopo l’assemblea di settembre, , promosso dal lettiano Francesco Boccia, sta raccogliendo, firme trasversali, tra i parlamentari eletti con le primarie e tra sindaci e amministratori, la maggior parte dei quali vedrebbe bene il sindaco di Firenze alla guida del partito, ma a patto che sottoscriva il documento che punta a traghettare il paese, e il Pd, dopo il semestre europeo, con l’obiettivo di fare quelle riforme indicate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Renzi sta akncora riflettendo, menre hanno firmato, ci informa l’ANSA, Gianni Cuperlo, Pippo Civati e Gianni Pittella.
Ma anche quersta è una battaglia solo rinviata perché, di fatto, il documento è di fatto una sfida a cambiare il Pd, a trasformarlo in un partito capace di cambiare le cose e non di conservare lo status quo in un istinto di autoconservazione, concausa non trascurabile della mancanza di un vero riformismo nel nostro Paese.
Insomma, secondo il documento (e l’analisi di vari politologi come Giorgio Soave), il punto è che, nel partito democratico di oggi e nelle formazioni politiche precedenti che in esso sono confluite, non si è mai realizzata una ricognizione politicamente seria delle ragioni di questo fenomeno di ripulsa dell’elettorato, nel momento decisivo, nei confronti di una prospettiva politica considerata invece vincente dagli osservatori e spesso dalle inchieste demoscopiche.
Fra le sue poche cose giuste, Massimo D’Alema aveva cominciato questa analisi, spiegando ai suoi ministri riuniti in seminario che il centrosinistra non aveva la maggioranza dei consensi popolari e doveva ancora lavorare per conquistarla.
Ma non ebbe il tempo di sviluppare il suo ragionamento perché la vendetta di Romano Prodi, che nelle successive elezioni europee presentò la lista dell’Asinello per vendicarsi del presunto precedente complotto dalemiano ai suoi danni, lo spinse a cercare una rivincita personale nelle elezioni regionali, che invece perse traendone la conclusione di doversi dimettere.
Ora la lotta interna frantumante rischia di sbriciolare i due cavalli di razza della sinistra, i due toscani, Letta e Renzi, cui è toccato, in forma diversa, il ruolo di massimi elementi di una polemica sulle responsabilità personali di questo o quel dirigente o dell’intera generazione di quelli da “rottamare”, senza però offrire all’insieme del partito e al paese un materiale di riflessione utilizzabile.
E questo serve da puntelo agli avversarsi che pure dovrebbere essere alle corse, consentendo a Fabrizio Cicchitto di ricordare che “Renzi punta a liquidare Letta quanto prima” e a Renato Brunetta di avvertire: “Il Pd deve decidersi: o è di lotta o di Letta, Renzi non datur”.
Come scriveva ad aprile, al’indomani della rielezioone di Napolitano Giorgio Piras, il grosso problema del Pd è che non ha saputo discutere delle varie opzioni dopo le ultime elezioni apertamente e duramente, per arrivare a una maggioranza che imponesse con trasparenza una sua linea condivisa, con l’aggiunta di una debolezza dell’organizzazione, che non è stata capace di garantire la stabilità delle decisioni prese a maggioranza, sicché il partito è esploso, progressivamente, fino alla deflagrazione finale.
L’unico che resta saldo al timone di ciò che resta della politica è Napolitano, che, come già un anno e mezzo fa, nel collasso del sistema politico e nell’incapacità di tutte le forze politiche (anche quelle “nuove e pure” come il M5S) di agire secondo una prospettiva politica di lungo respiro, e davvero utile ai cittadini, aveva imposto le sue scelte “istituzionali”, dal momento che le forze politiche non sono si erano rivelate capici di trovare la soluzione e lui, come Presidente, che non rappresenta una forza politica, non poteva far altro che trovare soluzioni di compromesso: Monti prima e Letta poi.
Perché Napolitano sembra l’unico ad aver capito che il problema della politica italiana dopo il collasso di inizio anni novanta è che non trova un sistema politico stabile, in cui le forze politiche siano davvero capaci di rappresentare degli interessi sociali e delle visioni coerenti della società, e quindi sappiano governare.
Nel 2010, in un bel saggio intitolato: “I miglioristi nella politica italiana” (edito da Donzelli,), Enrico Morando aveva il contributo fornito alla sinistra da un gruppo di dirigenti (fra cui Giorgio Napolitano) che si richiamavano alla lezione di Giorgio Amendola e che avrebbe potuto svolgere una funzione determinante nel costruire un partito come perno dell’alternativa al centrodestra perché il potenziale innovativo – di cui i suoi esponenti erano portatori – era maturato ben prima della svolta dell’89. Eppure tale contributo non ci fu nella misura che sarebbe stata necessaria se solo in questi ultimi anni si è potuto dar vita ad Pd con almeno due anime divise e concludere – almeno per quanto riguarda il nuovo soggetto politico – la lunga transizione avviatasi con la caduta del Muro di Berlino, senza una sintesi convincente.
In quel magnifico saggio, Morando richiama, le ricerche di Ranieri e Minopoli, giovani esponenti miglioristi, sul pensiero di Edward Bernstein e Carlo Rosselli eed il tentativo e compiuto da Amendola nel suo percorso politico e culturale di coniugare comunismo e liberalismo, nonché i saggi di Napolitano sull’esperienza della solidarietà nazionale, in cui egli riflette sul tabù della “centralità del lavoro” e sui primi tentativi compiuti da lui stesso nel 1977 di metterlo esplicitamente in discussione per assumere nelle politiche di riforma una visione completa del cittadino non solo come produttore ma anche come consumatore e risparmiatore.
Idee che ancora lo abitano, evidentemente, in un universo però che non lo comprende, perso dietro a beghe personali mentre la Nazione precipita nel baratro dell’incertezza più nera.
Carlo Di Stanislao
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