I prossimi 8 e 9 novembre, a Parma, nello splendido centro congressi dello Star Hotel Du Parc, gli psicologi seguaci della teoria comportamentista, si riuniranno per celebrare il centenario di questo particolare approccio codificato nel 1913 in un articolo firmato dall’americano John Watson, che aprì la strada a visioni successive legate alla Behavior Theory ed alla Accceptance and Commitment Theory.
Come ha scritto il prof. Saverio Fortunato, Watson nega la possibilità, per una psicologia che vuole dirsi scientifica, d’indagare gli “stati mentali”, per cui l’oggetto di studio del comportamentismo non è la coscienza né la mente, ma il comportamento osservabile intersoggettivamente, definito come l’insieme delle risposte muscolari e ghiandolari.
Successivamente Burrhus Frederick Skinner (1904-1990), propose il superamento delle indagini propriamente fisiologiche del riflesso, tipiche del comportamentismo, come processo isolato da altre attività corporee, per giungere invece ad uno studio dello stesso quale regolarità che coinvolge l’organismo nel suo insieme e, quindi, quale strumento per una descrizione autonoma del comportamento degli organismi. Skinner affermava che “il comportamento non è semplicemente il risultato di attività più fondamentali […] ma è un fine in sé e per sé”; concentrandosi più sulle frequenze che sulla qualità della risposta allo stimolo ed identifica la variabile chiave del controllo del comportamento non negli antecedenti causali, ma nelle conseguenze della risposta, ossia del rinforzo.
Ma, partendo da osservazioni etologiche e dalla considerazione che un uomo “non si può addestrare come un topo”, Tolman ha poi dimostrato che l’apprendimento non avviene sempre e unicamente come conseguenza del rinforzo e molti animali, ad esempio, riescono ad apprendere anche delle mappe cognitive, come, ad esempio, la rappresentazione mentale della mappa di un labirinto.
L’insieme di questo studi, ci ha portato a dire che, nel caso della’uomo, i bambini i bambini piccoli ( sino ai 6 mesi) reagiscono in modo conforme ad una teoria di relazione diretta tra stimolo e risposta, ma, a partire da una certa età, sviluppano una tendenza ad utilizzare mediatori interni per reagire agli stimoli.
Eppure il comportamento di certi adulti della specie umana sembra contraddire tale teoria e far pensare che si risponda in modo improprio e ripetitivo anche nel caso di alcuni adulti.
E’ il caso della recente presa di posizione del governatore dell’Abruzzo giovanni Chiodi, che preso da furore pantoclastico verso ogni forma ritenuta di “carrozzone clienterale improduttivo”, dopo la speciale (ed opinabile classifica) del valore degli atenei italiani (diversa ad esempio da quella contemporanea de il Sole 24 Ore), ha chiesto che vengano chiuse le pecore nere: Urbino, Bari e Messina, che stazionano agli ultimi posti, favorendo l’ironica replica di Nichi Vendola che, oltre a ricordare al distratto governatore che tutto il Sud (a cui l’Abruzzo appartiene) ha basato la sua storia ed ha ora più che mai di cultura e di saperi, di istruzione e di formazione e che quindi, invece di blaterare chiusure, occorre un impegno di cospicui investimenti per il diritto allo studio nel 2013, come ha fatto – ha aggiunto Vendola, con 12 milioni, la Puglia nel 2013, – riuscendo a riempire tutti i vuoti creati da una politica nazionale molto distratta.
“La polemica del Presidente Chiodi – ha continuato Vendola – mi è parsa davvero pretestuosa, anche perché potrei facilmente ricordargli la classifica delle Università italiane del Sole24ore che, mentre regala al Politecnico di Bari un ventiseiesimo posto, relega al cinquantacinquesimo posto l’Università di Teramo e al cinquantottesimo posto quella di Chieti e Pescara. Ma il problema non sta evidentemente in una classifica tra le buone e le cattive Università, tra quelle belle e quelle brutte. Questa è una idea completamente sbagliata della valutazione. I parametri utilizzati per valutare l’efficienza e la qualità di una Università sono parametri valutativi che servono a migliorare l’offerta e non a sopprimerla”.
Un ragionamento che non fa una piega ma che rischia di infrangersi contro l’ottusità di chi crede solo in valori di mera economia di mercato.
L’idea di avvicinare la mente umana alla macchina da calcolo, ha tra i suoi precursori cognitivisti Kenneth Craik (1014-1945), che propose, nel suo saggio di natura anche filosofica “The Nature of Explation”, alcune concezioni, che poi rimasero come parte fondamentale anche del cognitivismo contemporaneo e che propongono la mente come un luogo in cui metaforicamente si costruiscono delle rappresentazioni degli eventi che accadono nel mondo, incluse le azioni che l’organismo può svolgere all’interno dell’ambiente.
Ma, com’è noto (o dovrebbe), Chomsky scoprì il fallo di tale teoria e dimostrò che, migliorando mente e linguaggio, si ottengono miglioramenti inattesi circa l’elaborazione umana della informazione, con sviluppi pratici anche inaspettati.
Ora non occorre essere un genio e neanche uno di estrema sinistra per comprendere che, invece che chiudere università, queste vanno aiutate nel loro compito formativo e nella direzione di un più stretto rapporto con il mondo del lavoro, valorizzando anche i tirocini e ma non dimenticando che i sistemi di istruzione devono fornire competenze utili lungo tutto l’arco della vita delle persone, non solo nella fase di ingresso nel mondo del lavoro.
La stessa ministra Carrozza ha ribadito che i dati dell’Anvur non devono essere utilizzati per stilare classifiche sulla base delle quali distribuire le risorse e che, invece, bisogna e intervenire per migliorare la qualita’ del nostro sistema universitario segando una volta per tutte inefficienze, baronie e clientele per favorire realmente il ricambio generazionale. Le migliori universita’ nel mondo sono quelle che riescono a tenere insieme didattica e ricerca, che valorizzano le materie umanistiche e scientifiche senza gerarchie, che incentivano i giovani ricercatori, che hanno una forte propensione all’internazionalizzazione e che stabiliscono un rapporto sinergico con le imprese e il territorio.
Come ha scritto subito dopo le uscite di Chiodi e Giavazzi Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil, se il nostro Paese ha il più basso numero di laureati in Europa e se le immatricolazioni calano la questione prioritaria è come garantire attraverso gli investimenti un salto di qualita’ dell’intero sistema universitario a partire dal mezzogiorno e politiche che consentano a tutti l’accesso al sapere.
Cosa poi ci sia nel profondo di chi invece le Università le vuole chiudere perché le considera non produttive è impresa difficile perché, da “Gli istinti e le loro vicissitudini” di Freud a “Psicologia cognitivista” di Ulric Neisser, il tentativo di spiegare comportamenti manifesti, prestazioni che appaiono alla superficie, con quello che sta sotto, con la parte sommersa dell’iceberg, sono tutti ancora in alto mare.
Federigo Enriques, era solito dire che vanno distinti tre tipi di sapere. Il primo tipo è costituito dalle nozioni che si hanno sempre a portata di mano, come il proprio nome e cognome: è una specie di memoria centrale, come la RAM del computer: sono nozioni che “stanno sempre in memoria”, come direbbe un informatico. Poi c’è un secondo tipo, quello delle nozioni che, con qualche sforzo, posso ricostruire, come la dimostrazione di un teorema di media difficoltà, o il codice fiscale di una persona di cui conosco i dati anagrafici (e l’algoritmo per attribuire l’ultimo byte naturalmente), o, per fare un esempio più banale, l’anno di nascita di Napoleone. Qui, sempre seguendo l’analogia uomo/computer, dobbiamo fare accesso alla memoria di massa, e magari metterci anche un po’ di ragionamento, richiamare, insomma, qualcosa dagli archivi storici della nostra esperienza, e spesso applicare anche un algoritmo. Infine, c’è un terzo tipo di conoscenza, magari meno nota ai più, o almeno non sufficientemente considerata, che non di rado è ancora più importante. Ed è quella del sapere dove sta l’informazione desiderata, cioè dove e come reperirla. E questo tipo di sapere c’è la danno le Università, quelle migliori e che non sempre sono in vetta a classifiche stilate secondo i criteri degli altri due saperi.
Come ricordava già nel 2004 Salvatore Settis, nel saggio: Quale eccellenza? Intervista sulla Normale di Pisa, a cura di Silvia Dell’Orso (Ed. Laterza), occorre stare molto attenti e guardare a vari pericoli, come, ad esempio, alle classifiche di ordine solo economico, come anche a falsi meccanismi meritocratici che porterebbero a punire o premiare i dipartimenti, e addirittura prefigurare una distinzione ex imperio tra “teaching” e “researching universities”, come si è fatto con una temerarietà che non vorremmo si rivelasse profetica, introducendo illegittimi principi di discriminazione e demotivando i capaci.
Carlo Di Stanislao
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