Dal Cdm di ieri lo strumento per stabilizzare 35.000 precari, con accoglimento della proposta del ministro della Salute Beatrice Lorenzin di introdurre una specifica disciplina per la stabilizzazione del personale medico e del ruolo sanitario, che ha fornito lo strumento idoneo per affrontare il tema del precariato, che nel Servizio Sanitario Nazionale ha assunto dimensioni tali da mettere in crisi la qualità delle prestazioni erogate, specie nelle Regioni in piano di rientro. Lo rileva in una nota il ministero, aggiungendo che “tra medici, personale infermieristico, tecnici e altri 11 profili professionali, sarà possibile stabilizzare le circa 35.000 persone del settore sanitario, tramite concorso pubblico riservato”. Un obiettivo che sarà colto, dice la nota, “per la specificità del settore che ha caratteristiche diverse dal resto della Pubblica Amministrazione, tramite un decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, da adottare entro tre mesi dall’entrata in vigore del decreto legge, su proposta del ministro della Salute”. Il contenuto del decreto sarà condiviso con le Regioni e le Province Autonome, per “accelerare il percorso attuativo di competenza di queste ultime”. “Già dall’illustrazione delle linee guida del ministero alle commissioni di Camera e Senato – afferma il ministro Lorenzin – ho raccolto e sostenuto l’esigenza pervenuta dalle Regioni, dagli operatori sanitari, così come dalle associazioni per la tutela dei diritti dei pazienti, di dare certezza in ordine alla continuità e qualità del servizio sanitario erogato e del rispetto dei parametri dei Livelli Essenziali di Assistenza. Ringrazio il ministro D’Alia che ha riconosciuto la pressante esigenza e la peculiarità del settore e ritengo quello compiuto – conclude Lorenzin – un passaggio fondamentale per il futuro dell’intero sistema”.
Per la Cgil, comunque, pur trattandosi di un primo, encomiabile passo, esso rischia di essere difficilmente applicabile in presenza di vincoli di bilancio e di situazioni finanziarie che potrebbero vanificarne gli effetti. Secondo il sindacato, nelle condizioni attuali il Dl non dà alcuna garanzia, ma offre semplicemente al sistema sanitario un’opportunità difficile da cogliere a seguito dei pesanti e persistenti tagli operati negli ultimi anni”. In una nota congiunta Cecilia Taranto, segretaria nazionale Fp-Cgil, e Massimo Cozza, segretario nazionale Fp-Cgil medici, commentano l’approvazione in Consiglio dei ministri del Dl che prevede meccanismi di stabilizzazione tramite concorso per i precari delle pubbliche amministrazioni, scrivendo: “L’urgenza di garantire i servizi ai cittadini attualmente offerti da lavoratrici e lavoratori precari –– richiede la rapidissima attivazione di un confronto che ponga rimedio alle criticità presenti nel provvedimento”.
Soddisfatta, invece, la Cisl con Biagio Papotto, segretario generale area medici, che dichiara: “Siamo soddisfatti che il ministro Lorenzin abbia rispettato l’impegno preso al nostro Congresso nazionale. E’ una grande boccata di ossigeno per la sanità che porterà, finalmente, tantissimi colleghi alla conquista, dopo tanti anni, di quel sospirato posto di lavoro” e continua: “uspichiamo che questo confronto continuo con il ministro Lorenzin possa proseguire fattivamente per trovare soluzioni alle molte situazioni ancora in sospeso quali: le assicurazioni, la responsabilità professionale, il patto della salute, gli standard di personale e la formazione dei medici”.
Per Anaao Assomed, “l’impegno del ministro della Salute, che va riconosciuto e apprezzato”, è la conseguenza delle “pressioni dei sindacati medici, che hanno portato ad una modifica sostanziale del testo del Dl sulla Pubblica amministrazione “.
Ha scritto Costantino Troise segretario nazionale Anaao in una nota, che: l’impegno e le pressioni dei sindacati: “hanno sconfitto pregiudizi ideologici che vogliono vedere i medici sempre e comunque una categoria privilegiata a dispetto del ruolo esercitato con grandi sacrifici nel garantire un diritto che la Costituzione definisce fondamentale. Una boccata di ossigeno in una partita che sembrava persa fin dall’inizio, che può rappresentare una svolta, malgrado sia avvolta in una nebulosa legislativa di poteri, spesso in conflitto, che rischia di relegarla tra le tante norme non attuate. Ma noi, e crediamo il ministro, vigileremo per impedirlo”.
Anche la Cimo è soddisfatta e per voce del suo presidente Riccardo Cassi, dice che ora “occorre approvare rapidamente gli standard ospedalieri, inserendovi le dotazioni organiche, costringere le Regioni a ristrutturare la rete ospedaliera e territoriale e rivedere l’accesso e la progressione di carriera dei medici. È un grosso impegno, ma ormai non più rinviabile l’attuale sistema ha mostrato i suoi limiti, se vogliamo salvare il Servizio sanitario nazionale e rimotivare chi ci lavora occorre cambiare”.
Il 24 agosto, su Quotidianosanità.it, Ivan Cavicchi ha chiarito, in un lungo articolo, un altro nodo cruciale della questione medica nel nostro Paese, con l’istat per un verso e il codice deontologico per un altro, che rispondono in modo contraddittorio senza cogliere il senso e il significato di fondo dei cambiamenti in atto. Tali cambiamenti sui quali si è scritto molto e che grosso modo sono riassumibili nell’espressione “post modernità”, nei confronti delle professioni medico-sanitarie, si caratterizzano come un conflitto profondo tra una nuova domanda di salute, forti limiti economici e una tradizionale e declinante offerta di professionalità. Per cui il quesito vero al quale tanto le deontologie che le classificazioni dovrebbero rispondere è: quale deontologia e quali ruoli professionali sono più indicati a governare questo conflitto? Cioè quali professioni? Dando per scontato che quelle tradizionali vanno comunque ripensate.
L’idea del “conflitto”, come chiave di lettura della post-modernità, non è altro che un espediente per introdurre nell’analisi un grado in più di complessità. Oggi le professioni hanno a che fare con una complessità superiore rispetto a quella della società precedente nella quale operavano perché da forme di relazioni una volta complementari, tra etica scienza economia, si è passati, ob torto collo, a forme di relazioni opposizionali. La complessità con la quale tanto i codici che le classificazioni si devono confrontare, è tutta qua. Le professioni quali combinazioni di conoscenze, pratiche e deontologie si trovano in mezzo tra etiche sociali che cambiano, scienza che evolve e forti condizionamenti economici per cui sarebbero “costrette” quanto meno ad adeguarsi.
In definitiva, diceva l’articolo, l’ epoca del compito è finita mentre sta prendendo piede quella dell’impegno e non si tratta più di definire declaratorie, mansionari, profili a prescindere dall’agente ma di definire condizioni di autonomia e responsabilità dell’agente in funzione degli obbiettivi che gli competono, rivedendo così sia la figura del medico, che quella dell’infermiere o degli altri ruoli sanitari.
Insomma, se è vero che i problemi sono economici, essi sono anche di professionalità e di ruoli, perché se è vera la frase di Confucio: “Se ami quello che fai, non sarà mai un lavoro”, occore sapere, in ogni ambito e soprattutto in quello sanitario, quali siano i ruoli medici e gli altri ruoli sanitari.
Occorre chiarire che, pur nella consapevolezza dei limiti di entrambe le professioni (medici e infermieri), il tentativo che una categoria possa sostituire l’altra è impresa ardua e soprattutto insensata, poiché se è vero che qualsiasi atteggiamento classista, rivendicativo o paternalistico da qualsiasi parte è sbagliato, ciò su cui nessunas parte può derogare è il convincimento che solo un atteggiamentoo fattivamente e apertamente collaborativo, pur nell’autonomia delle competenze dei diversi ruoli, è vincente in campo sanitario.
Mi spaventano, invece, affermazioni (da parte di politici e tecnici) che dicono che non ci si deve spaventare nei confronti di nuovi modelli organizzativi in cui il medico è chiamato come consulente e tutto il processo assistenziale è di competenza infermieristica.
Naturalmente sono persuaso, dopo 35 anni di lavoro ospedaliero, che in un momento così complesso e difficile in Sanità, l’emergenza di una figura (l’infermiere) con maggiori doti culturali rispetto al passato deve essere non solo ben accetta ma ‘benedetta’; ma questo non trasformando il medico in un mero supporto perché sempre a lui sono richieste diagnosi e terapia.
In un editoriale del dicembre 2012 di Pain Nursing Magazine, l’editore capo Stefano Coiaccioli affermava che la medicina moderna, che trova nella complessità la palestra nella quale misurare la propria capacità di comprensione e di azione, ha visto negli ultimi 10-20 anni una profonda trasformazione culturale ed operativa delle figure professionali che lavorano al suo interno – sul piano tecnologico, diagnostico e terapeutico. D’altra parte, la sempre maggior rilevanza e diffusione di patologie croniche ed il progressivo incremento dell’età media dei Pazienti hanno ulteriormente modificato le modalità di approccio al Paziente stesso – sia sul piano della comunicazione, sia a livello delle prestazioni sanitarie. Non vi è dubbio, quindi, che il rapporto fra Medico ed Infermiere deve essere informato ad una collaborazione sempre più stretta – pur nei rispettivi ruoli istituzionali – che vede l’Infermiere come elemento-cardine attorno al quale e con il quale disegnare e costruire il piano assistenziale ed il percorso clinico, ma senza che il medico diventi un supplemento di contorno.
Nel 2010, durante il Congresso nazionale del Sindacato dei Medici Italiani, il presidente nazionale Giuseppe Del Barone, lanciò un duro monito alle Regioni: no a progetti a danno dei cittadini, come le pericolose fughe in avanti con la sperimentazione che prevede l’utilizzo degli infermieri nei codici bianchi dei pronto soccorso, poiché il medico è e deve rimanere medico, figura centrale nella diagnosi, nella cura e nell’assistenza del cittadino-paziente., a tutti i livelli, compreso quello della risposta ad un codice bianco in un Pronto soccorso.
Pertanto, pur rispettando la professionalità degli infermieri, crediamo che ciò che si sta ipotizzando è una pericolosa imitazione del modello statunitense, dimenticando però che il nostro sistema formativo del settore infermieristico non è assimilabile al sistema nordamericano.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento