Venezia 2013: Bertolucci torna, Miyazaki chiude ed altre note, gioiose e dolenti

Per un caso fortuito (o forse voluto), ieri, in seconda serata, Rai Movie ed Iris hanno mandato due film di Bernardo Bertolucci, 71 anni, una carriera straordinaria alle spalle, che nel 2011, dopo aver vinto due Oscar ed un Leone D’Oro, ha ricevuto la Palma D’Oro a Cannes, presentandosi alla Croisette su una sedia a […]

Per un caso fortuito (o forse voluto), ieri, in seconda serata, Rai Movie ed Iris hanno mandato due film di Bernardo Bertolucci, 71 anni, una carriera straordinaria alle spalle, che nel 2011, dopo aver vinto due Oscar ed un Leone D’Oro, ha ricevuto la Palma D’Oro a Cannes, presentandosi alla Croisette su una sedia a rotelle, con un berretto in testa ed una maglietta rossa, per parlare, senza spine né amarezze, del suo cinema fatto di campi padani è di melodrammi verdiani, di memoria e di Pasolini, di ambiguità esistenziale e di bruschi cambiamenti di fronte ai salti improvvisi della Storia.
Era di buon umore e nel suo eloquio forbito, in francese con qualche spruzzata di inglese, scherzò pure sulla sua malattia: nel 2000 fu operato per una banale ernia del disco e da lì ne conseguirono quattro operazioni ed una paralisi definitiva agli arti inferiori, non risolta con nessuna tecnica, compresa l’agopuntura.
Ieri sera le due reti “cinefile” e concorrenti, hanno mandato “Il tè nel deserto” (Iris) e “L’ultimo imperatore” (Rai Movie), il primo basato sulla ambiguità dei sentimenti ed il secondo su uno splendido racconto di una reale solitudine, entrambi con quella rara qualità che è dei capolavori e che vive del rapporto fra lo spettatore e schermo, una qualità fragile e difficile da definire, come è difficile definire il genio.
Questi due primi film “fuori casa” di Bertolucci, sono in fondo due prodotti enigmatici, dove regna imperioso un solo fattore: “dove”.
Rivedendoli (con salti di canale e quindi i modo ansimante), ricordavo perché questo vero maestro sia stato considerato un regista hollywoodiano naturalizzato dalla sinistra italiana, troppo americano per gli italiani, troppo italiano per molti americani, comunque, sempre interessante, fino al recentissimo (e bellissimo) “Io e te”.
E mi dolevo ancor di più, pensando che al Festival di Venezia numero 70 di cui è presidente di giuria, Hayao Miyazaki ha annunciato l’addio dalla attività di regista, anche se ha rassicurato che continuerà a produrre, scrivere, sostenere e “immaginare” universi da proporre alle nuove generazioni.
L’annuncio lo ha fatto l’attuale presidente del mitico Studio Ghibli, nella conferenza stampa del film in concorso “The Wind Rises” (“Si alza il vento), in cui ha detto: “A Miyazaki è spiaciuto di non essere tra voi, saluta tutti e considera la mostra di Venezia un festival fondamentale per la sua carriera. Per tale motivo ha scelto questa sede per dare un annuncio importante: il film che vedete qui è il suo ultimo. Settimana prossima si terrà una conferenza stampa a Tokyo presenziata dallo stesso cineasta che spiegherà la decisione presa”.
Mi chiedo (in nutrita compagnia), come sarà ora il cinema (e non solo di animazione) senza di lui e mi ravvengono le parole di John Lasseter, il guru della Pixar, il cosiddetto “genio della lampada” dell’animazione americana, che qualche hanno fa disse, proprio a Venezia: “Senza Miyazaki non sarebbe mai esistita la Pixar” e non sarebbero esistiti personaggi “cult” come Heidi, Conan, Lupin III, Anna dai capelli rossi, oltre ad una filmografia sterminata dove l’eccellenza è un dato costante: “La città incantata” (2002), Oscar ed Orso D’Oro e, prima, “Nausica della valle del vento” (1984), “Il mio vicino Totoro” (1988), “Porco Rosso” (1992), “La principessa Mononoke” (1997) e poi “Il castello errante di Howl “(2004) e “Ponyo sulla scogliera” (2008), film di grande qualità, con storie che si chiudono nel segno della speranza, senza mai ostentare finali consolatori e tanto meno retorici, con ciascun personaggio che impara a perdere e a comprendere il senso della vita con una levità di raro livello e con una magia di racconto che ha il sapore del miracolo.
Per consolarmi gioco con la fantasia ed immagino come avrebbe raccontato Miyazaki, magari ambientandola in un’epoca remota o immaginaria, la vicenda di Berlusconi che non vuole mettersi da parte neanche dopo una condanna in cassazione, emblema di un’Italia in cui faccia tosta e pelo sullo stomaco portano sempre al successo, un sovrano dalla salute ferrea e dagli appetiti sessuali sconfinati, che dopo gli eventi del 2011 si è trasformato in Nerone, il monarca che, mentre Roma bruciava, perdeva il suo tempo in inezie, ma che ha saputo rovesciare la situazione in soli due mesi (anche meno) di campagna elettorale ed anche ora tiene in scacco nazione e governo.
Sarebbe interessante vedere (sogno nel sogno, perché Myazachi è giapponese e probabilmente non capirebbe e perché ha deciso di ritirarsi), come racconterebbe la storia di quello che aveva garantito nel 2001 con il libro spedito alla vigilia della campagna elettorale nelle case degli italiani per presentare lo Stato, che lo avrebbe costruito in dieci anni, a immagine e somiglianza della sua vita, con ponti, strade, porti e faraonici tunnel verso l’Europa, uno Stato leggero, iper tecnologico, digitale, con un Parlamento finalmente snello, una giustizia rapida con le norme riscritte da capo e, ancora un Piano per il Sud, e soprattutto, la realizzazione dello slogan della vittoria, il lasciapassare per la Storia, la Rivoluzione Liberale, con via tasse e, un Codice Fiscale Unico al posto di 3 mila leggi.
Alcuni anni fa, per spiegarne la popolarità fuori dal comune, Romano Prodi, ex presidente del Consiglio, sospirò in un consesso internazionale: “Nel mio paese, molti dei miei concittadini amano parcheggiare in doppia fila”, mentre Fedele Confalonieri, che conosce tutto del “Cavaliere”, perchè hanno passato insieme gli anni del liceo a Milano ed hanno cantato in due sulle navi da crociera e da quando Berlusconi è al potere, gestisce l’impero, ha commentato: “Gli italiani apprezzano il suo stile. Lo stile è il fiocco sul pacchetto ed ha la sua importanza. Capisco che non piaccia agli intellettuali, perché è ingenuo, non proviene dalle classi alte, si è pagato gli studi da solo e, malgrado ciò, è il più ricco. E’ la sublimazione del buon senso unito al genio imprenditoriale. Parla la lingua dei suoi elettori”.
Moretti lo ha colto solo il parte, ha compreso con sette anni di anticipo che sarebbe stato condannato, ma non ne ha svelato appieno l’animo che è del semplice imbonitore. A ben vedere, se dal corpo di quel suo film si tolgono i blocchi sul Presidente, strutturalmente non succede nulla, mentre ci vorrebbero le magiche trovate del giapponese e le arie melodrammatiche di Bertolucci per raccontare uno che ha superato di gran lunga “La strategia del ragno”, uno che ha saputo conquistarsi un “posto sicuro” (ed eterno), con un racconto in bilico fra realtà ed irrealtà, impressionismo e surrealismo, lievito di follia e apparenza, capace di creare un sogni dentro cui dieci milioni di italiani sono voluti cadere.
A pensarci con attenzione chiederei a Sorrentino di fare un film su questo, continuazione contaminata del “Divo” e de “La grande bellezza”, riferimento alla funzione che il mito (più che la storia) assume nel creare e consolidare la cultura di un popolo, con una macchina da presa con cui disegnare con prolungati carrelli laterali e circolari, per suggerire l’idea del progressivo irretimento del personaggio in un reticolato che si allarga ad una intera nazione, con una totale compenetrazione di forma e contenuto.
Leggo in questi giorni di fine estate: “Filmgate, ovvero Come Berlusconi ha ucciso il cinema italiano”, di Silvio Sardi e Paolo Negri per Editori Riuniti, in cui si racconta di un paese anestetizzato da mille scandali e annichilito da squallide storie di il meccanismo di amicizie e connivenze che ha ucciso il nostro cinema, oggi costretto a piegarsi alle leggi della televisione, secondo il volere di Berlusconi, esercitato: attraverso il monopolio del gruppo Mediaset, Mediatrade, Medusa e Cinema 5, il Cavaliere, che è riuscito a svilire e mortificare quel cinema che aveva reso grande l’Italia.
Nel libro, attraverso un botta e risposta senza esclusione di colpi e la pubblicazione dei contratti originali (la prefazione è di Marco Travaglio), il produttore Sardi dimostra come quegli stessi film da lui proposti al gruppo berlusconiano e puntualmente rifiutati venissero poi acquistati a volte anche a dieci volte il prezzo iniziale: naturalmente dallo stesso gruppo.  Un sistema quantomeno controverso, che ha contribuito a distorcere il mercato cinematografico e che solleva mille interrogativi, anche alla luce del processo Mediatrade, per cui Sardi in seguito alla pubblicazione del libro è stato chiamato a testimoniare quale persona informata sui fatti.
Per tornare alla realtà e al Festival di Venezia, pochi film, sin’ora, mi hanno convinto e tra questi l’outsider “Miss Violence” di Alexandros Avranas, nato a Larissa, in Tessaglia, che come tutti i greci che non provengono da Atene, ha una sua specifica dimensione: la provincia e la sua derivazione minimale rispetto al fasto ellenico.
Il suo stile, oggettivamente sconosciuto ai più, è quasi conforme a quello controllatissimo di Giorgos Lanthimos, autore di “Kinetta”, sia in inquadratura fissa che con camera in movimento. Entrambi filmano poco i dettagli, come è ormai consuetudine del cinema europeo, eccezion fatta per l’Italia, perché il dettaglio è nel volto, nel fisico, nell’anima del personaggio. Per Lanthimos, però, la sua origine ateniese lo spinge a sorvolare sul passato per concentrarsi sull’oggi, mentre Alexandros Avranas sente la necessità, a volte, di spiegare i fatti a monte di ciò che racconta.
Molto bello anche “Tom à la ferme”, piccolo gioiello di Xavier Dolan, che splende di luce propria, accattivante, arguto, ambiguo quanto basta e girato con stile sebbene su questo versante il regista canadese si sia contenuto. Un noir alquanto originale, asfissiante per quei suoi palesi echi kafkiani, che trasmette un senso d’oppressione tangibile per buona parte del film; fino a quell’epilogo, nient’affatto scontato e denso di classe.
Delusione totale, invece, per “Night movie”, quarto film (sopo l’esordio di “River of Grass”, “Wendy and Lucy”ed il western “Meek’s Cutoff”, presentato proprio a Venezia tre anni) della molto sapravvalutata Kelly Reichardt, che racconta la preparazione e le conseguenze di un attentato messo in piedi da tre cosiddetti eco-terroristi, ai danni di una diga che a loro avviso ostacolerebbe il corretto sviluppo ambientale.
Pure ben interpretato il film si sfilaccia progressivamente soprattutto per un difetto d’origine: quando racconti la storia di tre idioti, il rischio  è sempre quello di fare un film stupido, se non hai un punto di vista forte su quello che stai raccontando.
Invece la Reichardt si fida troppo del suo minimalismo e dei suoi attori, ma finisce per raccontare una storia risaputa e di scarsissimo interesse, proprio perchè i tre personaggi non hanno alcuno spessore ed alcuna simpatia. Non solo, ma i risvolti psicologici ed emotivi spaziano dall’infantilismo desolante al paranoico omicida, lasciando per lo più indifferenti, se non infastiditi.
Delusione, anche se solo parziale, per il primo dei film italiani in concorso “Via Castellana Bandiera”, opera prima di Emma Dante, tratto dal suo libro omonimo, con una prima parte ben gestita e la seconda la parecchio sottotono, efficace e potente nella prima parte realista e poco convincente quando cominciano a saltare fuori metafore e situazioni “paradossali”.
Tecnicamente ricco e professionale, anche se ad un certo punto si vorrebbe che la Dante utilizzasse meno “tecnica”, “Via Castella Bandiera” soffre molto probabilmente di una mancata compattezza tra i due registri che decide di adottare. Resta un esordio interessante e da vedere, fosse solo per l’espressività di Elena Cotta, che recita solo con gli occhi, ma lascia comunque l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è. Uscirà sugli schermi il 12 settembre e certo lo vedremo in concorso al Roseto Film Festival Opera prima il prossimo anno.
Oggi si attendono soprattutto “The Zero Theorem” di Terry Gilliam e “Ana Arabia” di Amos Gitai, ma anche “Locke”, film Fuori Concorso di cui si dice un gran bene.
Per i prossimo giorni, poi, attendiamo gli altri due film italiani in concorso: “L’intrepido” prima commedia leggera di Gianni Amelio con Antonio Albanese il documentario “Sacro GRA” del mai giustamente considerato Gianfranco Rosi, sul grande raccordo anulare di Roma. Naturalmente, incrociamo le dita anche se credo, la corsa ai Leoni ci è per quest’anno quasi certamente preclusa, mentre ci agita l’ulteriore taglio al sistema cinema ventilato con la Tax Credit , figlia di una logica da larghe intese ante litteram (fu voluto qualche anno fa dalla coppia bipartisan Gabriella Carlucci/Willer Bordon), che speriamo possa trovare soluzione con l’emendamento dei senatori del Pd Marcucci, Idem, Puglisi, Mineo, Tocci, Di Giorgi e Martin, che pare ripristinare la quota ai precedenti 90 milioni con annessa scadenza triennale.
Nella tradizione filosofica occidentale, almeno dalla scolastica in poi, i concetti di possibile e necessario, come quelli correlati di impossibile e contingente, sono stati considerati concetti modali e cioè relativi al modo d’essere e di presentarsi di enunciati o di proposizioni.
L’importanza di tali concetti non concerne soltanto la logica, bensì anche la teoria della conoscenza e l’ontologia, quando ci si chiede per esempio se essi hanno a che fare con nostre aspettative e nostre “anticipazioni” della realtà o se invece descrivono proprietà di eventi o stati di cose “nel mondo”; e concerne anche un interesse etico-teologico, quando ci chiediamo se le nostre azioni dipendono da una nostra libera scelta tra varie possibilità reali o se invece sono determinate da qualcosa che ci obbliga al di là della nostra volontà e delle nostre intenzioni.
Oggi quei termini sono diventati anche le parole d’ordine di una controversia ideologica, se è vero che un Rorty, per esempio, impugna l’idea della contingenza del linguaggio, della contingenza dell’Io e della contingenza di una comunità liberale per propagandare una svolta neopragmatista ed ermeneutica in filosofia e se, di contro, i paladini del cosiddetto “nuovo realismo” obiettano appellandosi a quelle “necessità” che un rinnovato impegno ontologico dovrebbe far valere.
Rorty è e un pensatore che, sulla scorta di Wittgenstein e di Derrida, intende liberare il “vocabolario” filosofico da quelle dicotomie (apparenza/realtà, mente/corpo, linguaggio/mondo) e noi ci auguriamo anche, nella prassi, da quella fra necessità e sua attuazione, sicché, constatata la cultura come necessaria ed il cinema come necessità culturale, si possano trovare risorse, a tutti i livelli, per salvaguardarne la continuazione.

Carlo Di Stanislao

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