L’ultima volta che Mario Fratti era tornato dagli Stati Uniti nella sua città natale risale al marzo dell’anno scorso, per la “prima” al Teatro comunale di “Frigoriferi”, una delle sue brillanti commedie allestita a musical dalla Compagnia Mamo’ e dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta dal Maestro Luciano Di Giandomenico, autore delle musiche originali. Fu davvero un trionfo per il drammaturgo aquilano, dal 1963 trapiantato a New York, tra gli autori di teatro più famosi al mondo, con all’attivo una novantina di opere tradotte in 22 lingue e rappresentate in oltre seicento teatri, dagli Usa all’Argentina, dal Canada al Brasile, dal Messico all’Australia, dalla Russia alla Cina, dal Giappone alla Turchia, come in quelli di tutta Europa. Dalla sua pièce “Six Passionate Women” trent’anni fa Arthur Kopit trasse “Nine”, il musical che su testi e musiche di Maury Yeston per anni è stato rappresentato nei teatri di Broadway, con oltre duemila repliche. Molti riconoscimenti e ben sette Tony Award – che nel teatro sono come gli Oscar per il cinema – sono stati tributati allo scrittore aquilano, tra i personaggi più in vista nella vita culturale della Grande Mela, dove ha insegnato “Storia del teatro e scrittura teatrale” alla Columbia University e all’Hunter College.
Mario Fratti tornerà ancora a L’Aquila, il prossimo 18 settembre, per la “prima” non di un’opera teatrale, come sovente gli capita in giro per il mondo, ma per la presentazione del romanzo “Diario proibito – L’Aquila anni Quaranta”, unica sua opera di narrativa scritta più di mezzo secolo fa ed ora pubblicato da Graus Editore. Fra qualche giorno sarà nelle librerie di tutta Italia. Sarà dunque un vero e proprio evento, anche perché la trama del romanzo si svolge quasi tutta nella città capoluogo d’Abruzzo a cavallo degli anni ultimi del Fascismo e primi dell’Italia libera e democratica, sulla traccia di un diario segreto del protagonista. Scrittura singolare, temi “forti” e situazioni scabrose per narrare quegli anni, dove il racconto s’intreccia con la storia della città e dell’Italia in quegli anni terribili. La presentazione del volume mercoledì 18 settembre, alle ore 17, presso l’Auditorium “E. Sericchi” della Carispaq, in via Pescara 2. Vi prenderanno parte il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, lo storico Walter Cavalieri, l’opinionista e scrittrice Annamaria Barbato Ricci, il presidente della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, Walter Capezzali, l’editore Pietro Graus e l’autore Mario Fratti. Chi scrive coordinerà gli interventi dei relatori. Dopo questa “prima” aquilana, il romanzo di Fratti verrà presentato a Montesilvano (Pescara), Roma, Firenze, Napoli ed altre città, ancora in via di definizione.
L’evento ha il patrocinio della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, dell’Istituto Abruzzese di Storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea e naturalmente della Municipalità, in omaggio ad uno dei suoi figli migliori, conosciuto e stimato in tutto il mondo. La presentazione del romanzo di Mario Fratti sugli anni della dittatura fascista all’Aquila e sul forte spirito di libertà degli aquilani – in appendice al volume è pubblicato il dramma “Martiri”, atto unico sui Nove Martiri Aquilani -, ben s’inquadra con le celebrazioni del 70° anniversario dell’eccidio nazista (23 settembre 1943) quando nove giovani aquilani, coetanei ed amici dello stesso Fratti, vennero dai Tedeschi arrestati in montagna, poi passati per le armi e sepolti in una fossa comune da loro stessi scavata all’interno della Caserma “Pasquali”, all’Aquila, senza che della loro sorte si sapesse più nulla fino alla liberazione della città, il 13 giugno 1944.
Dedicato “A L’Aquila, città che tanto amo. Ai miei figli Mirko, Barbara e Valentina.”, il romanzo reca la prefazione di Mario Avagliano, storico e saggista, giornalista per le pagine culturali del quotidiano Il Messaggero. Così scrive Avagliano in apertura della sua prefazione: “Quando mi è stato proposto di scrivere la prefazione per il romanzo storico di Mario Fratti, ambientato all’epoca della Repubblica Sociale e del primo dopoguerra, ho provato molta curiosità. Cosa spingeva un drammaturgo di fama mondiale, che vive dal 1963 a New York, vincitore di ben sette “Tony Award” (l’Oscar del teatro), autore di decine di opere, spesso a sfondo sociale, rappresentate in tutti i teatri del mondo (tra i quali il musical Nine, liberamente ispirato al film 8½ di Federico Fellini, che ha superato la cifra record di duemila repliche), a ripescare dai cassetti un testo scritto negli anni Cinquanta? Pagina dopo pagina, ho capito che Fratti, al pari di quanto ha fatto in alcune sue opere teatrali (da Tangentopoli a Mafia), in
questo suo primo (e per ora unico) testo narrativo, con il suo stile crudo, privo di pudicizia, che spesso colpisce duro alla testa come una sassata, fatto di dialoghi serrati e di frasi secche come fucilate, aveva un intento di denuncia. Sotto tiro c’è l’Italia di ieri e di oggi. L’Italia complice di Mussolini e del nazismo, delle sue violenze e delle sue bestialità. L’Italia che non ha mai epurato i fascisti, anzi li ha riciclati nei posti di comando. L’Italia che tuttora stenta a fare i conti con il Ventennio e con Salò, propagandando il mito di un fascismo buono”.
La storia comincia a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, con l’Italia che affronta i problemi del dopoguerra. Siamo a Venezia, dove il protagonista del romanzo, incolore impiegato d’un ufficio pubblico, vive in una camera affittata d’un appartamento di due donne sole, madre e figlia, con un’ossessione quasi compulsiva del sesso. Un’influenza con febbre molto alta costringe a letto il protagonista, quindi dovendosi assentare dal lavoro. La situazione prospetta giornate di segregazione in casa, appena mosse dalle notizie pubblicate dal Corriere della Sera, rese poi intense dalla lettura d’un quaderno d’appunti, un suo diario proibito, dimenticato, rinvenuto nella valigia contenente vecchie carte e documenti. Sono le sue memorie, allora giovane tenente repubblichino di Salò. Nel diario ritrova, puntualmente descritti, fatti e dettagli dell’efferatezze e delle violenze, fisiche e morali, che il suo comandante, il “Maggiore”, infliggeva agli oppositori e ai loro familiari nei locali di detenzione e tortura, oltre agli altri squallori di quel periodo storico. Sono appunti che egli accuratamente nasconde alla vista di chi per una qualche ragione entra in camera sua, preoccupato che si possa scoprire il suo passato di ufficiale “nero”, uscito indenne dopo il ‘45. La narrazione interpunta al racconto anche fatti realmente accaduti, dando al romanzo un valore aggiuntivo.
“[…] La scelta dell’io narrante – annota tra l’altro Mario Avagliano – e della sua identificazione nell’adolescente fascista (al quale Fratti arriva addirittura ad attribuire la sua età dell’epoca e il suo nome, Mario) a primo acchito è spiazzante e imbarazza chi legge. L’autore, abruzzese di nascita, come ha spiegato nell’introduzione, utilizza per costruire la sua storia molti ricordi autobiografici, ma, in realtà, già da ragazzo era tutt’altro che seguace di Mussolini. Era animato da vividi sentimenti antifascisti e i suoi amici del cuore erano i partigiani che poi vennero chiamati i “Nove Martiri di L’Aquila”, anche se lui non trovò il coraggio di seguirli in montagna. Tuttavia, man mano che il romanzo va avanti, l’identificazione tra l’autore e il ragazzo di Salò (poi adulto) protagonista della storia mostra tutta la sua potenza evocativa. All’imbarazzo iniziale del lettore, subentra la vergogna. È come guardarsi allo specchio e non piacersi, anzi provare disprezzo per se stessi. È come guardare allo specchio, da italiani, una pagina di storia che abbiamo voluto dimenticare (e che qualcuno addirittura vuole equiparare alla Resistenza), e che invece Fratti ci costringe a rimembrare. Inchiodandoci, senza possibilità di scampo, alla lettura di torture, vessazioni, violenze di ogni tipo che subirono gli oppositori politici, le donne, tutti coloro che finirono nelle grinfie del Comando di Presidio fascista, guidato da un maggiore che, per il suo sadismo e il suo opportunismo, ricorda da vicino gli aguzzini della banda Koch. […]”.
Il volume ha una bella introduzione dell’Autore. E’ la sua vita in pillole. “Sono nato a L’Aquila il 5 luglio 1927. Ho vissuto lì fino al 1947. Vita tranquilla, piccolo borghese, con genitori e due fratelli: Mimina, Leone – i miei genitori -, Mario, Gustavo (scomparso qualche anno fa), Fernando. La guerra ci ha solo sfiorati. Ha risparmiato la nostra città. Studente, passavo intere giornate alla Biblioteca Tommasi, sotto i portici. […]”. Seguono i ricordi d’adolescente e giovinetto, Balilla per forza, nelle adunate e nelle cerimonie ufficiali del regime. “I primi germogli del mio antifascismo mi vennero da Giorgio Scimia, uno dei Nove Martiri di L’Aquila. Mio compagno di scuola, si parlava fra noi del suo odio per il fascismo. Io scoprii un mondo nuovo e fui affascinato dal concetto del “plusvalore”. Nell’atto unico “L’Aquila”, che troverete riportato in fondo al romanzo, Giorgio e Bruno, due dei Nove Martiri, discutono della personalità e della codardia di Mario. Esitai a seguirli in montagna. Partirono. I Nove Martiri, altrimenti, sarebbero stati dieci”.
Ancora annotazioni biografiche, alcune molto personali. “Dal 1945 al 1947, euforia per la fine della guerra. Ci sentimmo finalmente liberi. Scrivevo per “Paese Sera”. Nel 1947 lasciai definitivamente L’Aquila ed andai a Venezia, per laurearmi in Lingue e Letterature Straniere alla Ca’ Foscari. Molti dettagli sulla vita a L’Aquila riportati dal mio romanzo sono veri. Strade, nomi, qualche episodio. Sono l’amalgama di un’opera di pura fantasia. Sono reali, ad esempio, l’esperienza dei “Ludi Juveniles” con Marcello Vittorini e la mia ammirazione verso sua sorella Silvana […]. Costruisco tutte le mie opere sulla conclusione, sull’ultima pagina. Voglio stupire il pubblico per l’imprevedibilità del finale. Anche per “Diario Proibito”, la mia prima ed unica opera di narrativa, usai lo stesso metodo, pensando innanzitutto all’ultima pagina. Essa contiene la “morale” di un “amorale”: il “Maggiore” che dava ordini al “Tenentino” ha ancora potere e sponsorizza missini e democristiani. A Venezia affittai una stanza presso due donne, madre e figlia. Mi ammalai e si presero cura di me. Approfittai di quel periodo per scrivere “Diario Proibito”. Gli articoli che cito nel testo sono veri, li leggevo in quel periodo di malattia e delimitano il lasso di tempo in cui scrissi il romanzo. Decisi di adottare un linguaggio estremo, di concentrare nei personaggi, a cominciare dal protagonista, a cui diedi il mio nome, tutta la malvagità, le malefatte che trasudarono da quel periodo. […]”
Scrive ancora Fratti, sintetizzando il senso del suo romanzo: “Ed ora c’è l’emozione di vedere pubblicato il mio romanzo. Con una consapevolezza che voglio riaffermare, confidandovela. Oggi, oltre 50 anni dopo la sua creazione, quella ribellione che era stata molla per la mia scrittura, è incanalata nel mio impegno culturale e civile. Dalla denuncia estrema che insanguina il libro c’è quel mio dolore, quel mio appello a che i lettori si rendessero conto di quanto fu feroce e insopportabile quel periodo per l’Italia. Dalla finta voce di un mal-protagonista; di un complice di scelleratezze per il movente di briciole di vantaggi, ecco il controcanto di un mondo di resistenti che vollero affrancarsi e ritornare a ossigenarsi nella fierezza degli uomini liberi”. “Diario proibito” è questo ed altro ancora, connotandosi per la scrittura tutta particolare, dal ritmo dialogico serrato che non lascia spazio a ridondanze, mettendo in evidenza i prodromi dell’autore teatrale che poi si è affermato in America, scrivendo plays come e meglio degli americani. Il volume si chiude con un pezzo “ospitato”. E’ il “capitolo” che Maurizio Molinari, corrispondente da New York del quotidiano La Stampa, ha scritto sul teatro di Mario Fratti nel suo bel libro “Gli italiani di New York” e che l’editore Laterza ha consentito di riportare.
Goffredo Palmerini
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