Sono in molti a notare che a fronte di una politica che non si rinnova, anzi perpetua se stessa ed i propri inutili riti, le uniche novità vengono da un uomo di 79 anni, che, provenendo dalla parte più remota del mondo, siede ora sul Soglio di Pietro, dopo un teologo che ha replicato il gesto di Celestino e in un momento di estrema confusione morale pervasiva, in seno alle diverse comunità. C’è chi parla di affermazione francescana, ma Missori avverte che è nel dettato della Compagnia di Gesù sostituire all’aut aut l’et et e trovare la maniera di accogliere, piuttosto che quella di respingere.
Nella sua prima intervista su un giornale, non ha caso la testata dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”, Papa Bergoglio ripete l’accoglienza per divorziati e gay, pur ribadendo la centralità della famiglia e la tutela della vita come fondamento del cristianesimo. All’austerità oppone la possibilità, pur sapendo che le sue parole infastidiranno quelli apparati della chiesa che non hanno gioito per la sua elezione. Tiene fede al motto sul suo stemma da vescovo: “Miserando atque eligendo”, espressione tratta da un’omelia di Beda il Venerabile, santo e dottore della Chiesa, e che può tradursi: “lo guardò con misericordia (con sentimento di pietà) e lo scelse”, pronunciata per commentare la scelta di Matteo da parte del Cristo, proposta nell’Ufficio delle letture il 21 settembre, festa di san Matteo apostolo, data fatidica per lui (che l’intervista l’ha rilasciata alla vigilia), perché fu in quella data e dopo una omelia che raccontava questo episodio, che sessanta anni fa sentì forte il desiderio di farsi prete.
C’è tutta la cultura gesuita nella sua intervista: il pastore di confine, il Papa degli ultimi, che mette in fila, in modo chiaro e semplice, i temi chiave dell’agenda profonda della sua Chiesa, le sfide “cattoliche” di cui aveva parlato durante il suo intervento alla Congregazione generale di due giorni prima dell’inizio del Conclave, quando molti cardinali decisero di votarlo. Egli, da bravo cyber-comunicatore al passo con i tempi e con l’affermazione di Laiola che la chiesa ai tempi deve adattarsi, non entra nello specifico del modello preferibile, né tantomeno si infila nel tribolato campo delle finanze vaticane, che pure sono esaminate dalla commissione di inchiesta da lui nominata (così come per lo Ior); ma ricorda l’approccio analitico dei figli della Compagnia di Gesù ai problemi prima di assumere una decisione, secondo lo spirito ignaziano della scomposizione delle materie da analizzare e la loro ricostruzione alla luce dei principi della fede.
Da lì il suo rammarico per essere stato in passato troppo decisionista – specie quando guidò i gesuiti argentini – tanto da essere tacciato di essere un ultranconservatore di destra, cosa che non è mai stato (e la pastorale dei primi sei mesi ne è sufficiente dimostrazione).
E proprio questo con piace alla destra, con Ferrara dal Foglio e Faccio da Libero che lo attaccano, mentre più misurata la reazione di Veneziani dal Giornale, che si limita a dire che un Papa non deve interessarsi di politica.
La sua Chiesa lui la descrive come un “ospedale da campo” ed è questo il vero valore non negoziabile per un credente e non le faccende legate ad aborto, contraccezione e unioni gay, che non devono diventare un’ossessione.
Messaggio questo molto chiaro a molte conferenze episcopali, a partire da quella italiana, che la prossima settimana riunità il proprio Consiglio permanente. Il richiamo costante al sevizio è l’agenda che detta ai suoi vescovi e alla Curia – nel recente passata dilaniata da lotte interne – che deve smettere di essere un luogo di “gestione” e diventare di “mediazione”.
Subito si scrive che la sinistra ha arruolato il Papa che è piaciuto a Pietro Sansonetti e Franco Bechis, ad Hans Kung e a Bertinotti, mentre Ferrara, irritassimo, scrive che con lui i valori cristiani difesi da Beneetto XVI sono diventati “lettera morta”, con un sinistro avvertimento sui rischi di una riaffermazione del relativismo, senza ricordare che quel relativismo è l’unico capace di fare pace al di là delle differenze e di creare armonia individuale ma anche tra popoli, e che fu definito, nel 2005 dal cardinal Martini, in una omelia nella sua Milano, subito dopo il conclave che rischiò di vederlo Papa e che invece elesse Ratzinger, l’unica via d’uscita capace di “vincere anche il terrorismo”. Tornano in mente ora quelle parole che per orizzonte avevano il mondo, la pace e l’umanità, mentre la Penisola araba è devastata da guerre ed attentati e l’instabilità in Tunisia, Egitto, Libia, Libano, Siria, Yemen, creano un pabulum per il terrore che può metastatizzare in tutto il mondo.
Riecheggiano le parole di Martini su ciò che vedeva dalla sua abitazione di Gerusalemme, in una terra “dove si è particolarmente sofferto “ e che ci mostra, ogni giorno, che “quello di cui abbiamo tutti bisogno è imparare a vivere insieme nella diversità: rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci. Senza la pretesa di convertire gli altri da un giorno all’ altro, il che crea spesso muri ancora più invalicabili. Ma neanche soltanto tollerandoci, perché tollerarsi non basta “ .
In quella straordinaria omelia il cardinale indicò la risposta nel passo del Vangelo di Matteo (ancora lui), in cui Gesù fa riferimento esplicito al Discorso della Montagna: un discorso in cui si parla di gioia, di lealtà, di moderazione nel desiderio di guadagno, di amore, di sincerità; sicché, disse a commento finale il cardinale, il “nostro tentativo deve essere quello di fermentarci a vicenda, perché ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità”.
Martini era ancora cardinale quando Joseph Ratzinger pronunciò la sua denuncia del relativismo. Era il 18 aprile, durante l’ omelia della messa Pro eligendo romano Pontifice celebrata in San Pietro prima del Conclave che poilo elesse Papa.
In quell’ occasione Ratzinger ammonì i cristiani a non lasciarsi “ingannare “ dalle ”mode del pensiero “ , dalle “correnti ideologiche “ che hanno scosso San Pietro, puntando l’indice contro le varie correnti di pensiero degli ultimi decenni: marxismo, liberalismo o di quella che definì “vago misticismo religioso”.
A quel discorso replicò, dopo tre anni di silenzio, immerso nella lettura delle Torà, i Testi sacri della tradizione ebraica, Carlo Maria Martini, raccogliendo il consenso appassionato di illustri pensatori laici, come Emanuele Severino e Giulio Giorello, che commentarono che la Chiesa diversa da Martini, commette l’errore di sottovalutare la potenza del pensiero filosofico del nostro tempo, di non scorgere la potenza concettuale alla radice del relativismo e delle altre forme di pensiero contemporaneo, che non è semplice scetticismo ingenuo e nemmeno semplice negazione dogmatica della verità, dell’ etica e della realtà assolute, ma piuttosto la capacità di leggere tutte le cose ” in relazione” al momento in cui la storia viene giudicata.
Quest’anno “Torino Spiritualità”, con partenza introduttiva avvenuta nel week-end di sabato 15 e domenica 16 settembre ed interventi nel fine settimana corrente, ha focalizzato il proprio lavoro sulla centralità e sul valore del corpo, sulla sua cura e sulle sue problematiche, sviluppando l’argomento centrale, “Corpo e Spirito”, con un percorso che propone di analizzare e approfondire gli argomenti inerenti a un nuovo concetto di benessere che non separi la componente fisica da quella spirituale, ma illustri come la salute del corpo sia condizione indispensabile al benessere spirituale, recuperando le tradizioni espresse in molte esperienze sapienziali connesse principalmente alle filosofie e alle religioni orientali. Tutto questo, io credo, è stato accolta con favore da Bergoglio, che auspica “una Chiesa Madre e Pastora”, capace di dare gioia agli uomini, con ministri misericordiosi che debbono farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo.
Una Chiesa che non si mostri, come in passato, più interessata all’organizzazione che alla morale e che non vada incontro al mondo presentando solo delle regole.
Una Chiesa in cui la pastorale missionaria non sia ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza; perché per il vero annuncio ci si deve concentrare “sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus”.
Una Chiesa, quella di Francesco I, che guardi al’uomo nella sua interezza, che eserciti la ragione e sappia acogliere le ragioni degli altri, una Chiesa che compia la sua missione pastorale alla maniera del gesuita Matteo Ricci, che predicò i valori cristiani nel rispetto di quelli confuciani e taoisti.
Una Chiesa che non lasci come misura soltanto il proprio io e le proprie voglie, ma anche sappia ricordare che solo il Signore può essere il giudice dei cuori e delle convinzioni.
Carlo Di Stanislao
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