Sarebbero belle le pigre domeniche di fine estate se potessimo goderci il vuoto di informazioni e l’ozio di ore in cui lasciarsi intiepidire da un sole pallido, invece che angosciarci con notizie che si rincorrono e scuotono i nostri animi già inqueti.
Sangue in Kenia, Nigeria, Yemen del Sud e Pakistan, con uomini delle forze speciali, affiancati da soldati istraeliani, impegnati nelle operazioni per tentare di liberare gli ostaggi tenuti prigionieri nel centro commerciale Westgate di Nairobi, con il numero dei morti fermo, per ora, a 59 e la battaglia che continua ininterrotta da mezzogiorno di ieri.
A rendere la domenica africana ancora più drammatica il doppio attentato nel sud dello Yemen contro una base militare nella provincia di Shabwa, compiuto da due kamikaze che si sono lanciati verso la struttura a bordo di auto-bomba, con un bilancio provvisorio di 20 -40 morti, secondo fonti della sicurezza che ci informano che gli autori sono membri del gruppo terroristico Al Qaida nella penisola arabica.
Sempre domenica, un altro movimento qaesdista, il Boko Haram, ha colpito ad Abujia, capitale della Nigeria, mentre venti cristiani sono stati uccisi da estremisti islamici nei villaggi che circondano Maiduguri, capitale dello stato di Borno ed altri cinque, appartenenti alla protestante “Chiesa di Cristo nelle nazioni“, vicino a Jos, teatro da fine agosto di scontri settari che hanno causato la morte di migliaia di persone, uccise solo perché cristiane.
Un’altra strage cristiana si è consumata nella domenica trascorsa, con un doppio attentato kamikaze nella chiesa di Khoati Bazaar a Peshawar, in Pakistan, che ha causato 81 morti e 145 feriti.
I cristiani in Pakistan sono solo il 4% della popolazione e sono stati spesso al centro degli attacchi degli islamici, perché essere cristiani, così come seguire altre religioni minoritarie nel Paese, è considerato un peccato di blasfemia.
A marzo una folla di estremisti islamici aveva dato fuoco a un centinaio di abitazioni di cristiani nella Joseph Colony di Lahore, mentre l’anno scorso aveva suscitato sdegno e polemiche la notizia di una bimba cristiana di 11 anni, down, arrestata per blasfemia.
Il presidente dell’Alleanza pan-pachistana delle minoranze (Apma) Paul Bhatti ha condannato l’attacco come un tentativo di ”destabilizzare il Paese, ha pumntato il dito contro “forze straniere” ed accusando il governo di “non garantire abbastanza protezione alle minoranze religiose”.
Secondo l’opposizione repubblicana la politica di Obama è inefficace e dispendiosa ed ha permesso allo jihadismo di rialzare la testa, giocando troppo di rimessa.
Intanto Lorenzo Bianchi, studioso del problema, nota che l’estremismo islamico, soprattutto nell’area della cosidetta crisi somala, ha cambiato faccia e si è fatto più pericoloso.
Il braccio che ha rivendicato l’azione di Nairobi sono gli Shabaab, la cui organizzazione non è più il monolite verticistico del passato, ma assomoglia ad un fiume carsico, si inabissa e riaffiora in luoghi impensati. Il capo di Al Qaeda Ayman al-Zawahir, il 27 ottobre 2012, con un video di due ore e 12 minuti, aveva lanciato ai “fratelli” un appello che fa rabbrividire. “Con l’aiuto di Allah — aveva esortato — stiamo cercando di incitare i fedeli a catturare i cittadini dei Paesi in guerra con i musulmani allo scopo di liberare i nostri uomini loro prigionieri”. L’attacco di Nairobi, esattamente come quello all’impianto algerino di liquefazione del gas di Tiguentourine, messo a segno lo scorso gennaio, rientra perfettamente in questo schema.
Intervista da “L’Indro”, l’analista Giuseppe Dentice, avverte che, in un contesto politico in continua evoluzione come è quello in cui vive oggi tutto il Nord Africa è difficile azzardare previsioni sul ruolo del terrorismo qaedista. Allo stesso tempo é difficile pensare che il qaedismo possa ridursi ad un semplice fenomeno ideologico o ad un ruolo di puro finanziatore di guerre/lotte intestine agli Stati. Quel che è emerso con evidenza in questi due anni e mezzo post-Primavere Arabe è una certa trasformazione del jihadismo, sia come fenomeno ideologico che come fenomeno armato/militare: questo è stato tanto più evidente nella recente guerra in Mali, dove sono stati attivi gruppi e movimenti che condividevano con al-Qaeda idee e missione ma che poi si differenziavano per le strategie di raggiungimento delle stesse. Infatti, in questi anni abbiamo visto come al-Qaeda – parliamo della base centrale afghana – non sia stata monolitica ma abbia favorito una maggiore delocalizzazione e creazione di un “franchising del terrore”, con tante piccole “filiali” sparse per il mondo. Da un lato, abbiamo avuto movimenti marchiati al-Qaeda come AQAP in Yemen e nella Penisola arabica, AQI in Iraq e AQMI in Mali, Niger, Mauritania e Algeria. Dall’altro, si sono creati movimenti che non vantano il marchio qaedista ma che si ritiene abbiamo forti collegamenti con “la Base” come lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante e Jabhat al-Nusra, gli Shabaab in Somalia, Boko Haram e Ansaru in Nigeria, il Mujao e Ansar al-Dine in Mali e le formazioni salafite e jihadiste attive nel Sinai. Questi gruppi testimoniano la continua evoluzione del pensiero e della strategia qaedista. Inoltre, la decentralizzazione dimostra come il pericolo è difficilmente identificabile con un solo soggetto.
E, naturalmente, questa sua natura multiforme rende difficile una piena comprensione di obiettivi e modalità di intervento.
Passando ad altro argomento, in Germania la Merckel stravince ed ottiene l’8% in più rispetto al 2009 e il terzo mandato, con Cdu primo partito, ad un soffio dalla maggioranza assoluta.
La coppia alleata Cdu-Csu arriva al 41,5%, e per la prima volta dal dopoguerra la Fpd, che nel 2009 aveva sfiorato il 15%, rimarrà fuori dal Parlamento. Il risultato apre sempre di più all’ipotesi di una “grosse koalition” con i socialdemocratici della Spd che ha ottenuto, secondo i dati ufficiali, il 26%, mentre i liberal democratici sono arrivati praticamente alla pari con l’Alternativa Democratica, la piccola nuova formazione euroscettica, che ha raggiunto il 4,7% sfiorando quindi quell’ingresso al Parlamento che preoccupava non poco l’establishment politico tedesco. La sinistra della Linke raggiunge l’8,6%, mentre hanno ottenuto l’8,4% i Verdi alleati di coalizione della Spd.
Vince quindi la posizione europista ma rigorosa e sono ricacciate ai minini storici le posizioni estreme, anche se Gian Enrico Risconi, esperto di politica tedesca, avverte su “La Stampa”, di un forte incremento di isoliazionismo nella società teutonica.
A fine agosto, Panoroma parlava di un calo di popolarità e di un rischio elettorale per la Merckel, che ha smentito in pieno il pronostico e dimostrato di avere un consenso su due in Germania, circa la capacità di risolvere i problemi nazionali in una ottica di portata Europea.
Preparata, precisa, puntuale, come ha scritto Margaret Heckel, autrice del libro biografico “So Regiert die Kanzlerin”, anche se in parte si è trovata a ereditare gli effetti positivi di quell’Agenda 2010 messa a punto dal suo predecessore, Gerhard Schröder, che ha reso il mercato del lavoro più flessibile, la merckel, in questi anni, ci ha messo anche del suo. Ha saputo tenere la barra dritta e non si è avventurata in nessuna manovra troppo ardita né in termini economici né elettorali.
Per tornare ancora a Gian Enrico Rusconi (uno dei pochi veri esperti di fatti tedeschi da noi), la cancelliera incarna al meglio la soluzione a quel timore di crisi economica che nel XX secolo ha sempre caratterizzato la storia tedesca; mentre Marc Kayser, docente di politiche comparative della Hertie school of governance di Berlino, dice che non solo è molto abile, ma è capace di percepire con duttilità gli umori del popolo e “quanto vede che un tema viene fortemente sostenuto dall’opinione pubblica, non si fa scrupolo a farlo proprio”, sia si tratti di lavoro, che di assegni famigliari che di stop al nucleare.
Brutte notizie, invece, a casa nostra, con l’ISTAT che certifica un incremento sino a quasi 5 milioni di “poveri assoluti” e con Saccommani, che perdendo la sua proverbiale pazienza”, diche che se la politica continuerà a richidergli cose che mettano in pericolo quanto promesso all’Europa, lui si dimetterà.
Scrive il Corriere che sono ore drammatiche per il governo Letta, con l’amara e onesta constatazione di aver infranto, seppur di poco, il limite del 3 per cento nel deficit 2013, a pochi mesi dall’uscita dalla procedura europea e con l’incubo di ritornarci subito, che crea nell’esecutivo un’atmosfera nella quale la delusione si mischia all’impotenza. L’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento dal primo ottobre non appare più evitabile, e nemmeno rinviabile. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni lo ha detto con chiarezza sia al premier Letta, sia al presidente della Repubblica ed ha aggiunto che non accetterà altri compromessi ed è pronto a dimettersi. E a formalizzare tutto in una lettera che non ha ancora scritto, dopo aver le dichiarazioni di Epifani, a cui si sono aggiunte ieri quelle di Alfano, entrambi fermamente contrari al ritocco dell’Iva.
Poco avvezzo alle liturgie della politica ed al sentirsi dire in privato una cosa, e ascoltare poche ore dopo in pubblico l’esatto contrario, creano in lui un forte disagio e la forte tentazione di mollare.
Lo difende, nella domenica piena di notizie palpitanti, mentre il sole fa il suo pigro giro di fine stagione, Enrico Letta, appena atterrato a Toronto per dare avvio al suo viaggio in Nord America, che dice: “Saccomanni ha la mia piena fiducia, Quirinale, Palazzo Chigi e Ministero dell’Economia lavorano in piena sintonia per garantire una rapida approvazione della legge di stabilità”.
In altre parole non esiste e non esisterà mai nel Governo un “problema Saccomanni” perché in quel caso sarebbe tutto il Governo a cadere, non il singolo responsabile dell’Economia. C’è imsomma, da parte del premier la determinazione ad andare avanti con ritmi serrati in linea con quanto riferito al capo dello Stato nell’incontro di venerdì scorso. L’asse con Colle, fanno rilevare fonti di Palazzo Chigi, vale in particolare per il percorso di costruzione della legge di stabilità giudicato come passaggio dirimente per impostare una politica economica in attacco, a dispetto delle fibrillazioni e degli aut-aut che pure continuano, con toni diversi, a venire dai partiti.
Letta approfitta anche per dire che non ha alcuna intenzione di farsi logorare dai partiti, perché la stabilità del governo è precondizione indispensabile sia per correggere la deviazione dal deficit dello 0,1 per cento e trovare le coperture per le iniziative in cantiere, sia per dare risposta alle istanze di crescita e lavoro. Passaggi troppo delicati per il futuro dell’Italia per sottoporli al fuoco incrociato dello scontro tra partiti e dentro i partiti. L’ultima cosa di cui il Paese ha bisogno – sostiene Letta – oggi è l’irresponsabilità di chi antepone le proprie sorti personali e di parte a quelle generali della comunità.
La missione di Letta in Nord America costituisce la prima tappa del road show di presentazione del Piano “Destinazione Italia” approvato giovedì scorso dal Consiglio dei Ministri e ni dossier che Letta presenterà agli investitori canadesi e americani ci sono i nomi di alcune società italiane in cerca di partner stranieri a cominciare da Fincantieri e Poste Vita. Quella del Canada è da intendersi come momento di avvicinamento a New York e alla sfilza di appuntamenti con la comunità finanziaria ed economica oltre al fondamentale appuntamento dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove il premier insieme al ministro degli Esteri Rmma Bonino, ribadirà la posizione italiana sulla Siria e l’impegno del nostro Paese, in collaborazione con gli altri partner, sull’aiuto umanitario al Paese sconvolto dalla guerra civile.
Ma soprattutto si cercaranno contatti e contratti con partener economici che, per prima cosa, vogliono stabilità e serietà nella amministrazione italiana.
Secondo Repubblica, comunque, Letta ha avuto un colloquio telefonico con Saccomanni prima della partenza e, da quanto si è appreso, sull’Iva il governo ha un piano – operativo dal 1 gennaio 2014 – che prevede il ridisegno delle aliquote, per scongiurare l’aumento di quella maggiore.
Il congelamento costa 1 miliardo di euro, ma consente al premier di tenere salde le redini del governo. Ma non soappiamo se queste redini saranno ritenute troppo tese ed insopportabili da Saccomanni che si è impegnato sul rientro al 3% nel rapporto deficit/Prodotto interno lordo ed iontende mantenere qusto impegno verso l’Europa.
Sempre secondo Repubblica (ma nessun altro quotidiano), è ormai certo che Letta ha deciso di sposare l’idea suggeritagli da Mario Monti: stilare un nuovo programma di governo che faccia perno sulla legge si stabilità ed in patratica inaugurare un Letta-bis senza però bisogno di aprire una vera crisi, anche perché in altra maniera il suo esecutivo (e non solo Saccomanni) si troverebbe a non avere lunga vita.
Secondo un recentissimo sondaggio di Demopolis, realizato per “Otto e mezzo”, se si votasse oggi avremmo il PD al 27,5%, il PDL al 27, mentre il M5S sarebbe al 19% e seguirebbero gli altri con SEL al 5%, Lega al 3,9%, Scelta Civica al 3,7% e UDC al 2,8%.
Un panorama che non porterebbe a nessuna novità rispetto alla situazione attuale, farebe perdere altro tempo e rischierebbe di vanificare i molti savrifici per tenerci in piedi in una posizione ancora largamente traballante.
“Italian job”, nella traduzione letterale, vuol dire “lavoro italiano”, o meglio, “lavoro all’italiana”. Inutile dire che nel mondo anglosassone tale locuzione non ha un’accezione propriamente positiva, tutt’altro: indica un colpo gobbo, una truffa, addirittura un ladrocinio, messo a segno secondo le logiche della riconosciuta furbizia italica. Una furbizia che ritarda ed aggira gli ostacoli, senzamai affrontarli o risolverli.
Anche il “rottamatore” e “ asfaltatore” Renzi è un esempio di tutto ciò: creazione di slogan e non di soluzioni, un tempo contro il Pd e la sua nomenklatura, oggi con una strada leggermente diversa, anche linguisticamente, per parlare, come sempre, a tutti gli elettori, ma in primis all’elettorato giovane e deluso del suo partito, introducento la nuova parola-trovata di “futuro”, lanciata da Milano dove si è concesso alla presentazione dello stilista Roberto Cavalli, personaggio pittoresco (capace di dire frasi come “amo la donna per la sua femminilità, non per il suo sesso”); sciorinando quattro “nuovi” termini: “bellezza, grinta, gioia e anche allure”, parola che sa di bestemmia, per alcuni, ma che forse fa sì che in sala arrivi la sapiente diplomazia di Franca Sozzani, che ricorda le trovate di Baricco, ma anche fa suo il motto della nuova scuola Holden: “a vent’anni si diventa grandi”.
Parole che sembrano evocative e nuove ed invece sono vuote, risapute, inutili, come quelle di Emma Ferrante ne “I giorni dell’abbandono”, che vorebbero convincerti che vi è qualcuno capace di aiutarti nel superare le difficoltà secondo nuove prospettive ed invecetci dicono solo che da noi tutto è lacerato, anche il lessico ed il suo impiego.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento