Il freddo bagliore della formazione stellare Zampa di Gatto ripresa dal telescopio Apex

È l’immagine più spettacolare della Nebulosa Zampa di Gatto ripresa dal nuovo strumento ArTeMiS installato con successo sull’Atacama Pathfinder Experiment (Apex) dell’Osservatorio europeo australe (Eso), il radiotelescopio di 12 metri di diametro ubicato ad altitudine elevata nel Deserto di Atacama in Cile. Apex opera a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche, tra la luce infrarossa e […]

È l’immagine più spettacolare della Nebulosa Zampa di Gatto ripresa dal nuovo strumento ArTeMiS installato con successo sull’Atacama Pathfinder Experiment (Apex) dell’Osservatorio europeo australe (Eso), il radiotelescopio di 12 metri di diametro ubicato ad altitudine elevata nel Deserto di Atacama in Cile. Apex opera a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche, tra la luce infrarossa e le onde radio dello spettro elettromagnetico, spalancando una preziosa finestra agli astronomi che vogliono guardare lontano nello spaziotempo del nostro Universo. ArTeMiS significa letteralmente: Architectures de bolomètres pour des Télescopes à grand champ de vue dans le domaine sub-Millimétrique au Sol, cioè matrice di bolometri per telescopi submillimetrici da terra a grande campo. È una nuova camera submillimetrica a grande campo visuale che costituirà una notevole aggiunta alla già ricca dotazione strumentale di Apex aumentandone ulteriormente la profondità e la risoluzione che si possono così ottenere. La nuova matrice di rivelatori di nuova generazione di ArTeMiS si comporta più come una CCD che come la generazione precedente di rivelatori. Questo permetterà di ottenere mappe del cielo a grande campo più in fretta e con più pixel. Per immagini degne degli schermi retina. L’equipe che ha installato ArTeMiS ha dovuto combattere contro condizioni climatiche estreme per concludere il lavoro. La neve molto fitta sulla PIana di Chajnantor, a 5mila metri di quota, aveva quasi completamente sepolto l’edificio di controllo di Apex. Con l’ausilio del personale dell’Operation Support Facility di Alma e di Apex, il team ha trasportato le scatole di ArTeMiS al telescopio tramite una strada di fortuna, evitando i cumuli di neve, riuscendo così a installare lo strumento, posizionare il criostato e collegarlo nella sua ubicazione definitiva. L’equipe di installazione della CEA è composta da Philippe André, Laurent Clerc, Cyrille Delisle, Eric Doumayrou, Didier Dubreuil, Pascal Gallais, Yannick Le Pennec, Michel Lortholary, Jérôme Martignac, Vincent Revéret, Louis Rodriquez, Michel Talvard e François Visticot. Per verificare lo strumento, l’equipe ha dovuto attendere il clima più asciutto equinoziale poiché la luce submillimetrica che ArTeMiS osserva viene assorbita pesantemente dal vapor acqueo nell’atmosfera terrestre. Ma quando è arrivato il momento giusto, sono state effettuate delle osservazioni di prova di gran successo. Dopo le verifiche preliminari e le calibrature di messa in servizio, ArTéMiS è stata usata per diversi progetti scientifici. Uno dei suoi bersagli è la fredda regione di formazione stellare NGC 6334, meglio conosciuta come Nebulosa Zampa di Gatto nella costellazione australe dello Scorpione. La nuova immagine Eso di ArTeMis è molto migliore delle precedenti di questa regione riprese da Apex. La verifica di ArTeMiS è stata completata e la camera tornerà a Saclay in Francia per installare nello strumento dei rivelatori supplementari. L’intera equipe è entusiasta dei risultati conseguiti con queste prime osservazioni: un meravigliosa ricompensa per i molti anni di lavoro non poteva essere raggiunta senza il decisivo aiuto e supporto del personale di Apex, un radiotelescopio frutto della collaborazione tra il Max Planck Institut für Radioastronomie (MPIfR), l’Osservatorio spaziale di Onsala (OSO) e l’Eso. La gestione di Apex a Chajnantor è affidata all’Eso che celebra i primi dieci anni di attività operativa dell’High-Accuracy Radial Velocity Planet Searcher (HARPS) australe, il più potente cacciatore di mondi alieni sulla Terra. I risultati scientifici conseguiti con HARPS hanno decisamente impresso una svolta decisiva nella caratterizzazione degli esopianeti e delle stelle più vicini. L’immensa mole dei dati acquisiti è sotto analisi. Lo straordinario contributo scientifico di HARPS, un sensore accoppiato al telescopio di 3,6 metri di diametro dell’Osservatorio di La Silla in Cile, inaugura la nuova Spettroscopia interstellare, un’avventura iniziata il 1° Ottobre 2003 e che promette di rivoluzionare non soltanto l’Astrofisica ma la Cultura mondiale. Prima o poi, dopo la scoperta del prima pianeta roccioso sulla vicina stella Alpha Centauri, osserveremo le proprietà delle atmosfere aliene inquinate dagli Extraterrestri direttamente, analizzandone la luce grazie a sensori come HARPS collegati a telescopi spaziali e terrestri sempre più potenti. Di fatto HARPS, con il suo gemello boreale, ha già rivoluzionato le teorie sulla formazione planetaria con la scoperta di centinaia di esopianeti, alcuni nella fascia verde abitabile, altri caratterizzati da strane orbite, in direzione opposta rispetto alla rotazione della loro stella ospite, e di esomondi colossali forse dotati di esolune come la Terra. Due terzi di tutti i pianeti alieni confermati, con masse inferiori al nostro Nettuno (17 volte la Terra), sono stati scoperti da HARPS, le cui osservazioni hanno altresì dimostrato per la prima volta che i pianeti di piccola massa, rocciosi, in orbita attorno a stelle come il nostro Sole, sono molto comuni là fuori, nella Galassia. Più del 30 percento sono super-Terre o pianeti Nettuniani. Quindi con atmosfere gassose e superfici o ghiacciate o ricoperte da immensi oceani. Questi risultati sono stati confermati dal telescopio spaziale Kepler. HARPS è in grado di misurare nei sistemi solari alieni cambiamenti di velocità di appena 4 chilometri orari: questa potente macchina offre così le misure più accurate di sempre nella caccia degli esomondi in grado di perturbare il moto delle loro stelle madri di quel tanto che basta a una persona per muoversi! Tutte queste informazioni dell’Eso sono pubbliche. Ciò consente agli astronomi di lavorare liberamente per verificare se su questi mondi alieni esiste la vita intelligente. Nulla è segreto. Non c’è cover up. Per cui le imprese, le corporation e le multinazionali si sentano libere di fare quanto in loro potere per attuare la corsa allo spazio cosmico in regime di assoluta competizione, rivoluzionando l’Economia mondiale fondata sul credito alla persona! E non più sui combustibili fossili del debito. Il 15 Agosto 2013 si è spento serenamente il piccolo telescopio spaziale Keplero della Nasa per la caccia agli esopianeti alieni nella fetta di cielo tra le costellazioni della Lira e del Cigno. Due dei quattro giroscopi di Kepler hanno fatto cilecca! A darne il triste annuncio è stata la stessa Nasa. I media italiani ne hanno sparate, come al solito, di grosse! Il fatto è che i dati acquisiti da Kepler sono immensi e impegneranno gli scienziati per diversi decenni. Tutto come da programma? La sonda non è più in grado di orientarsi nello spazio. Il primo giroscopio finì i suoi giorni nel Luglio 2012. Il secondo nel Maggio 2013. Tutti i tentativi per rianimare il telescopio Kepler sono falliti. Il sistema di puntamento di un satellite astronomico ha il suo punto debole nei giroscopi che, per quanto ben fatti, non sono eterni e infallibili. La prima fase della missione Nasa si era conclusa nel Novembre 2012. Erano previsti quattro anni in più. Ma per funzionare, Kepler aveva bisogno di tre giroscopi perfettamente operativi. I piccoli razzi direzionali della sonda non bastano. L’8 Agosto gli ingegneri della Nasa hanno cercato inutilmente di resettare e stabilizzare il telescopio nella sua configurazione ottimale con il minimo dispendio di energia. Ai posteri l’ardua sentenza. Il contributo scientifico di Kepler è già eccezionale. Non abbiamo visto ET ma poco ci manca! I pianeti rocciosi come la Terra là fuori, da 600 a 3mila anni luce di distanza, sono davvero abbondanti. Ce n’è per tutti i gusti. All’inizio della missione Nasa, nel 2009, nessuno lo sapeva. E tutto era confinato nel regno della fantascienza di Star Trek e Star Wars. Altre Terre ci attendono per la loro esplorazione diretta con astronavi come la Uss Enterprise, il Millenium Falcon e la Prometheus. Osservare non basta. Ma alla Nasa non si arrendono. Esistono altre opportunità scientifiche per Kepler con due soli giroscopi attivi? È allo studio il da farsi. Tutto dipenderà dalle priorità scientifiche pubbliche della missione. I privati potrebbero fare la differenza! È morto il re, viva il re! Se la Nasa perde le capacità operative della sua missione Kepler che ha dato un importante contributo alla scoperta di esopianeti intorno ad altre stelle non così vicine, l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha già pronta la missione GAIA che parte a Novembre 2013. Di pianeti alieni ne scoprirà cento volte tanti, avvicinando la data fatidica sempre più vicina della identificazione certa di un sistema solare alieno del tutto simile al nostro con tanto di esseri più intelligenti dei terrestri. Kepler, finora, aveva trovato 135 oggetti, su un gran totale di oltre 905 esopianeti oggi conosciuti: una percentuale significativa ma non determinante. Kepler, anche se non più operativo, ha già prodotto la bellezza di 3588 esopianeti candidati, cioè oggetti da verificare con osservazioni da terra. E nei dati di Kepler (http://planetquest.jpl.nasa.gov/) sono nascosti migliaia e migliaia di casi interessanti, ancora tutti da studiare. Quindi il bottino della missione, da fare invidia al drago Smaug della Terra di Mezzo, pare non sia limitato ai 135 esomondi finora nel sacco. Il telescopio spaziale GAIA partirà con il nuovo lanciatore russo-europeo Soyuz, per analizzare in dettaglio le posizioni di un miliardo di stelle, ossia l’uno percento delle stelle della nostra Galassia. Sarà l’esplorazione astronomica epocale di sempre made in Europe. Di gran lunga la più grande mai tentata dalla razza umana fin dai tempi dell’astronomo greco Hipparcos che a occhio nudo catalogò quasi mille stelle. Superando i moderni telescopi europei ed americani, spaziali e non, che in totale ne hanno messe insieme qualche milione. GAIA farà in un colpo solo quello che l’astronomia mondiale ha fatto in duemila anni, moltiplicando per mille la nostra conoscenza del numero di stelle create da Dio in cielo e promesse ad Abramo nella sua discendenza per la fede dimostrata. Gran parte della scienza di GAIA sarà gestita proprio dall’Osservatorio Astrofisico Inaf di Torino. Con Mario Lattanzi in prima fila con il suo team di scienziati: misurando così tante stelle con grande precisione, il telescopio spaziale GAIA scoprirà anche decine di migliaia di nuovi esopianeti alieni. E soprattutto scoprirà tanti esomondi vicini a noi, cioè a meno di cento anni luce dalla Terra. E non oltre i 600 di Kepler. E qui la fantasia può davvero volare! Perché di questi oggetti vicini sarà presto possibile analizzarne la luce, sia con gli attuali telescopi a terra (come il Telescopio Nazionale Galileo dell’Inaf, dotato dell’HARPS boreale) sia con i futuri super-telescopi ottici come l’europeo ELT dell’Eso che avrà uno specchio di 40 metri di diametro. Se ET esiste davvero, prima o poi, tra pochi mesi, un pianeta roccioso giusto con una atmosfera abitabile lo troveremo. Ed allora le corporation faranno la fila non per comperare il biglietto ma per imporre ai Politici la liberalizzazione della impresa spaziale privata, per varare vere astronavi interstellari come la Prometheus. Dunque, dalle ceneri della missione Kepler nasce la fenice del nuovo inizio: la caccia agli esopianeti alieni è più ricca di sorprese grazie a missioni come GAIA prossima al lancio. D’altra parte conosciamo la relazione Marte, il metano e la vita. Il Pianeta Rosso è sicuramente il più studiato e famoso del Sistema Solare. Perché è vicino, perché non è dissimile alla Terra, perché rientra nella cosiddetta fascia di abitabilità, perché forse in passato ha ospitato vita avendo sicuramente ospitato acqua, perché la fantascienza letteraria e cinematografica ne ha tratto beneficio. Le favole continuano. La vita sulla Terra verrebbe da Marte! La vita, cioè, può essere iniziata su Marte e poi sarebbe stata portata sulla Terra per fiorire, mentre sul quarto pianeta del nostro Sistema andava spegnendosi con l’inaridirsi della terra, la fuga dell’atmosfera, la fine dei movimenti tettonici e del campo magnetico. A confortare la speculazione che comunque su Marte vi fosse ancora una presenza vitale che in qualche modo avvalorasse la vivibilità del Pianeta Rosso, la presenza di metano nell’atmosfera di Marte. Una rilevazione che per discontinuità poteva essere attribuita alle emissioni di batteri primordiali. D’altronde le analisi condotte sia dai satelliti orbitanti il pianeta sia dai rover, nella loro parziali misurazioni, indicavano una presenza media di metano nell’atmosfera da giustificare la sua produzione biologica. Oggi, però, uno studio che appare su Science riporta le analisi dati fatte con lo strumento Tunable Laser Spectrometer (TLS), uno strumento appositamente progettato per la misurazione del gas metano su Marte. Ebbene, la presenza di quel gas nell’atmosfera marziana è assai inferiore a quanto ipotizzato in precedenza, non superiore a 1.3 parti di miliardo per volume, una presenza troppo bassa per giustificare una percentuale di metano come precedentemente stimata anche in presenza di una semplice produzione geologica o proveniente da altri pianeti. Lo studio guidato da Christopher Webster del Jet Propulsion Laboratory (California Institute of Technology) mette a confronto con TLS le precedenti misurazioni rivelatesi, sia per la strumentazione a terra sia orbitante, meno precise del Tunable Laser Spectrometer. I risultati fanno nascere dubbi sull’attuale presenza microbiotica sul Pianeta Rosso. Siamo di fronte ad un’ipotesi decisiva. L’autore, infatti, contrariamente a quanto pensato fin qui, afferma che il metano nell’atmosfera di Marte può resistere fino a cento anni. “Periodo limitato che giustificherebbe la continua produzione del gas da parte di microorganismi o per attività geologica – spiega il Presidente dell’Inaf, Bignami – e che è stata l’ipotesi più accreditata finora. Inoltre viene da pensare che il TLS misuri la quantità di metano solo nel sito dove opera Curiosity”. È come dire che trovandosi a Monte Mario a Roma (sede dell’Inaf) sarebbe in grado di misurare la presenza di zolfo nella solfatara vesuviana dove hanno ambientato il “47 morto che parla” di Totò. “È più facile che non trovandolo in situ ipotizzi che non ci sia”. Il che porta a considerare che fintanto che non porteremo abbastanza umanità su Marte grazie alla liberalizzazione dell’impresa spaziale privata, per poter approfondire compiutamente quanto esiste e si trovava sul Pianeta Rosso, per quanto ci si approssimi alla risposta, resteremo col dubbio se siamo o meno di fronte alla verità. Potremmo sempre puntare direttamente su Giove e sul suo piccolo sistema solare ricco di ogni ben di Dio. Nella notte del 9 Ottobre 2013, basta guardare in alto e pensare che lassù, a circa 559 Km di distanza, appena 50 volte l’altitudine di un aereo di linea, sta passando la sonda Juno della Nasa diretta su Giove. Una missione burocratica gravitazionalmente assistita dalla massa della Terra. Grande come un autobus, Juno (2011-2017) ospita strumenti e know-how italiani. È priva di propulsori interplanetari. Deve prendere la rincorsa per spiccare il balzo ed arrivare a Giove nel 2016, iniziando a produrre dati ed immagini. È possibile cercare e fotografare Juno durante il suo passaggio ravvicinato con la Terra. Il Premio è poter dire in futuro di aver visto dal vivo passare quella che diventerà una delle più importanti missioni spaziali dei prossimi anni e, perché no, veder pubblicati i vostri sforzi dalla Nasa inviando le immagini astronomiche realizzate durante il fly-by. Juno (http://juno.wisc.edu/index.html) selezionata nel 2005, è la seconda missione del programma New Frontiers della Nasa. Il lancio è stato effettuato il 5 Agosto 2011 e l’arrivo in orbita gioviana è previsto per il 2016. Dopo la fase di crociera che prevede un fly-by attorno alla Terra programmato per Ottobre 2013, Juno si inserirà in un’orbita polare attorno a Giove con pericentro pari a 1,06 raggi gioviani, ottimizzata secondo i requisiti scientifici e scelta anche in modo da minimizzare l’esposizione degli strumenti alle radiazioni. Juno orbiterà attorno a Giove per un anno effettuando un totale di 33 orbite. La missione Juno ha lo scopo di analizzare le caratteristiche di Giove come rappresentante dei Pianeti Giganti. Giove può fornire le conoscenze necessarie per la comprensione dell’origine del Sistema Solare, dei sistemi planetari alieni che si vanno scoprendo intorno ad altre stelle, dell’origine e dell’evoluzione del pianeta Giove (attualmente ci sono tre teorie diverse sulla sua formazione) per determinare la struttura interna del pianeta e cercare se presenta un nucleo solido, per esplorare la magnetosfera polare e ricercare l’origine del campo magnetico, per misurare l’abbondanza dell’acqua, caratterizzare i venti nella bassa atmosfera e caratterizzare le abbondanze relative di ossigeno e azoto e le variazioni dovute a fenomeni atmosferici. Un altro obiettivo della missione Juno sarà quello di studiare le aurore boreali di Giove, già osservate dalla Terra, e comprenderne i meccanismi, per caratterizzare il campo magnetico del pianeta e la sua interazione con l’atmosfera. Con la sua configurazione spinning, Juno effettuerà una mappa completa dei campi gravitazionali e magnetici di Giove e uno studio della composizione dell’atmosfera. Per raggiungere tali obiettivi particolare attenzione è stata posta nella definizione dell’orbita, che sarà polare e subirà un moto di precessione per ottenere una migliore copertura del pianeta. La partecipazione italiana alla missione Juno si basa sull’esperienza ormai consolidata nel campo degli spettrometri, camere ottiche e radio scienza. L’Italia fornisce due strumenti: lo spettrometro ad immagine infrarosso JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper, PI Angioletta Coradini INAF-IFSI, realizzato da Selex-Galileo) e lo strumento di radioscienza KaT (Ka-Band Translator, PI Luciano Iess dell’Università La Sapienza di Roma, realizzato da Thales Alenia Space-I) che rappresenta la porzione nella banda Ka dell’esperimento di gravità. Ambedue questi strumenti sfruttano importanti sinergie con gli analoghi strumenti in sviluppo per la missione BepiColombo. In genere, lo scopo di un fly-by è quello di imprimere a una sonda spaziale pubblica una spinta sufficiente per farle raggiungere più rapidamente la sua destinazione finale. Nel caso di Juno, la spinta che riceverà durante questo passaggio ravvicinato è circa il 70 percento del cosiddetto DeltaV iniziale, cioè della variazione della velocità fornita dal razzo vettore al momento del lancio. Insomma, una specie di secondo lancio necessario per permettere a Juno di raggiungere il lontano Giove. Un momento che vale sicuramente la pena tentare di immortalare. L’impresa di fotografare Juno è ardua. Per l’occasione, l’Agenzia Spaziale Italiana in collaborazione con Inaf, in particolare con lo IAPS di Roma, l’Istituto dove è nato lo spettrometro ad immagine JIRAM a bordo di Juno, organizza per l’evento una manifestazione dedicata alle scuole, per festeggiare insieme questa ricorrenza spaziale. Al Centro di Geodesia Spaziale ASI di Matera si terrà nella giornata del 9 Ottobre 2013 la manifestazione “Aspettando JUNO… Un fly-by tra scienza, giochi e musica” dove tra giochi didattici, interventi di esperti, musica e mostre, i ragazzi tenteranno l’osservazione della sonda in diretta dal telescopio del centro (www.asi.it/it/eventi/convegni/aspettando_juno). I Sudafricani sono favoriti. Possibilità decisamente migliori si hanno a Cape Town. Il Sud Africa è infatti in assoluto il luogo sulla Terra dove la sonda Juno godrà di maggiore visibilità: sarà un punto luminoso che si muove velocemente sullo sfondo del cielo, nella notte tra il 9 e il 10 Ottobre 2013. Juno avvicinerà la Terra fino ad arrivare alla sua distanza minima alle 19:21 Universal Time (le 21:21 ora italiana). In quel momento la sonda sorvolerà a 559 Km di altitudine un punto a 200 Km al largo della costa sudest del Sud Africa. In teoria Juno è un oggetto dalle dimensioni ragguardevoli, ricoperto di 3 pannelli solari lunghi circa 9 metri ciascuno, e per questo motivo il suo passaggio potrebbe essere visibile con una modica attrezzatura. In Italia le condizioni osservative non sono tra le più favorevoli e forse il momento migliore per osservare la sonda non sarà quello di minima distanza dalla Terra. L’opinione più diffusa è che il momento migliore per tentare l’osservazione di Juno sia circa un’ora dopo il flyby (circa le 22:30 ora italiana) quando la sonda si troverà ad un’altezza di +10°/+15° sull’orizzonte in direzione Est, già a una distanza di 30mila Km dalla Terra. Per complicare le cose a chi si cimenterà nel tentativo, Juno fuggirà via a una velocità molto elevata rendendo le operazioni particolarmente concitate. Passata un’ora dal fly-by, la sonda sarà già a 50mila km da noi. Il prossimo appuntamento con Juno non sarà prima di Luglio 2016, nelle vicinanze del pianeta Giove, a oltre 700 milioni di chilometri di distanza. Juno inizia a essere visibile circa dalle ore 22 con 12° di elevazione sull’orizzonte, nella costellazione del Toro, e una magnitudine di circa 10, per poi allontanarsi dalla Terra nell’ora successiva, passando nella costellazione di Perseo e diminuendo di brillantezza mentre si alza sull’orizzonte. Mentre l’archivio del progetto Galaxy Zoo diventa sempre più corposo. Il sito, lanciato nel 2007 per classificare le immagini scovate dai telescopi nello spazio interstellare, è entrato nella seconda fase, Galaxy Zoo 2. Più di 83mila astronomi volontari da ogni parte della Terra hanno raccolto nel corso degli ultimi anni informazioni e immagini da più di 300mila galassie. Nel corso degli anni, le nuove tecnologie hanno reso possibili scoperte straordinarie dell’Universo e non solo, ma gli esseri umani si sono rivelati molto più bravi dei computer nel classificare la forma delle galassie, motivo per cui gli astronomi hanno chiesto aiuto via Internet a tutti gli appassionati. Tra Febbraio 2009 e Aprile 2010 migliaia e migliaia di cittadini appassionati da ogni parte del mondo ha analizzato le immagini scattate dallo Sloan Digital Sky Survey (SDSS), un telescopio sito nel New Mexico (Usa) e dal telescopio spaziale della Nasa Hubble, rispondendo a una serie di domande sulla forma delle galassie, sulla presenza o meno di spirali o delle barre galattiche. Ogni immagine è stata analizzata 40/45 volte per essere sicuri il più possibile, per un totale di più di 16 milioni di classificazioni morfologiche per 304.122 galassie raggiungendo un totale di 57 milioni di click su pc di tutto il pianeta. Un team di ricerca internazionale, guidato da astronomi dell’Università del Minnesota negli Usa, ha sistematizzato il lavoro fatto dagli appassionati per realizzare un nuovo catalogo di immagini straordinarie di alcune delle più belle e bizzarre galassie. La nuova raccolta è 10 volte più grande di qualsiasi altra mai realizzata finora. Galaxy Zoo 2 è una sorta di censimento delle galassie: nel catalogo ci sono migliaia di foto dello stato attuale delle formazioni stellari. Il prossimo passo sarà di catalogare le immagini delle galassie che risalgono a epoche passate, per studiare meglio l’evoluzione dell’Universo. Rispondere ai questionari e diventare un volontario per il progetto è molto semplice e non ci vogliono capacità particolari o conoscenze scientifiche. Al momento il buco nero al centro della nostra Galassia è un tipo piuttosto tranquillo. Ma due milioni di anni fa si produsse in un’esplosione Quasar così devastante che i suoi effetti si sentono ancora oggi, a 200mila anni luce di distanza. Lo sostiene uno studio dell’Università di Sidney e in pubblicazione su The Astrophysical Journal, in cui Joss Bland-Hawthorn e i suoi colleghi hanno studiato un filamento di gas di idrogeno chiamato Corrente Magellanica che sembra “scorrere” dietro le Nubi di Magellano, le due galassie nane satelliti della nostra. Proprio uno strano bagliore osservato in quel filamento sarebbe, secondo i ricercatori, la prova “fossile” di quella colossale esplosione. Che sia avvenuta, gli astronomi lo sospettano in realtà da molto tempo. La regione attorno al buco nero Sagittarius A* che sta nel cuore della nostra Galassia, emette radiazione in molte lunghezze d’onda (radio, infrarosso, ultravioletto, X e gamma) ma è relativamente quieto come acclarato dal telescopio spaziale nucleare NuStar della Nasa. Molti indizi, però, convergono sul fatto che nel suo passato ci sia stata almeno una grande esplosione causata dalla caduta di nuvole di gas sul disco di materia ad altissime temperature che ruota vorticosamente attorno al buco nero centrale di 4 milioni di masse solari. In particolare, il satellite Fermi aveva individuato nel 2010 due “bolle” di gas caldo che si estendono dal centro della Galassia verso la periferia, e i calcoli al computer avevano suggerito che fossero il risultato di un’esplosione avvenuta negli ultimi milioni di anni dalle parte di Sgr A*. Bland-Hawthorn si interessava da tempo al “misterioso” bagliore ultravioletto che si osserva nella Corrente Magellanica. La radiazione emessa dalle stelle della Galassia non è sufficiente a spiegarlo, nemmeno immaginando un periodo di più intensa formazione stellare nel passato. La luce delle stelle dovrebbe essere almeno cento volte più intensa per produrre quel bagliore. A un certo punto, lo studioso australiano si è reso conto che quel bagliore poteva essere il riflesso della grande esplosione avvenuta in Sagittarius A*. Che avrebbe investito la Corrente Magellanica con una tale emissione di radiazione che una parte del gas idrogeno sarebbe ancora surriscaldato. I calcoli combaciano e sembrano indicare che per spiegare il bagliore osservato oggi, l’esplosione al centro della nostra Galassia dovrebbe risalire a circa 2 milioni di anni fa. Può succedere di nuovo e speriamo non punti altrove. Assolutamente sì. Ci sono altre nubi di gas che potrebbero cadere sul buco nero e produrre un’altra colossale esplosione. La più vicina, che gli astrofisici monitorano da tempo, si chiama G2, e potrebbe incontrare il “mostro” gravitazionale già nel 2014. La Via Lattea è più bella che mai nell’immagine vincitrice del premio Astronomy Photographer of the Year 2013, organizzato dal celebre Royal Observatory di Greenwich. La foto, intitolata “Guiding Light to the Stars”(La luce che guida verso le stelle) è stata scattata da Mark Gee ed è risultata prima sia nella categoria “Terra e spazio” sia nella classifica generale. Gee è un fotografo e un artista di effetti visivi digitali pluripremiato. Giunto alla sua quinta edizione, il premio ha selezionato oltre 1.200 immagini provenienti da 48 Paesi per scegliere i vincitori delle sette categorie, che sono in mostra a Greenwhich da pochi giorni. La spettacolare unica veduta della nostra Galassia è stata ripresa dalla costa dell’Isola del Nord della Nuova Zelanda, la Terra di Mezzo del regista Peter Jackson che ha appena finito di girare il secondo capitolo de Lo Hobbit – La desolazione di Smaug nei cinema italiani il 12 Dicembre 2013 e la versione estesa del primo capitolo. Le luci nella zona centrale sono prodotte, ovviamente, dall’ammasso di stelle nel nucleo della nostra Galassia, distante dalla Terra circa 26mila anni luce. Nella parte a sinistra dello scatto ci sono le due Nubi di Magellano, le piccole galassie satelliti molto più distanti, visibili come delle deboli luci in lontananza. Il bagliore di luce sulla destra è invece artificiale, perché prodotto dal faro di Cape Palliser. I lampi di raggi gamma (gamma-ray burst, GRB) sono i fenomeni più violenti dell’Universo. In un minuto emettono molta più energia di quella emanata dal nostro Sole in tutta la sua vita. Uno dei misteri ancora aperti che li riguarda è la presenza di precursori, cioè brevi e intensi fiotti di radiazione con caratteristiche del tutto simili al picco dell’emissione, ma che lo precedono anche di qualche minuto. L’idea che in natura esista un meccanismo capace di spegnere e riaccendere tali “mostri” è estremamente affascinante, e nessun modello teorico è stato finora in grado di identificarlo. Ma su The Astrophysical Journal, un gruppo di ricercatori italiani dell’Inaf-Osservatorio Astronomico di Brera propone, per la prima volta, un modello in grado di interpretare questo fenomeno. “L’idea su cui questo lavoro si basa – rivela Maria Grazia Bernardini, ricercatrice postdoc all’Osservatorio Astronomico di Brera e prima autrice dell’articolo – è che tale meccanismo abbia origine da uno degli oggetti astrofisici più piccoli da noi conosciuti: una stella di neutroni che, con i suoi 10 Km di raggio, potrebbe essere interamente contenuta dentro il lago di Garda”. Un oggetto così piccolo ma allo stesso tempo così estremo, capace di ruotare circa 300 volte in un secondo, e dotato di un campo magnetico pari a un milione di miliardi di volte quello solare, può essere prodotto durante il collasso gravitazionale di una stella di grande massa, e da solo è in grado di produrre abbastanza energia da alimentare un GRB. Questa energia viene rilasciata quando questo tipo di stella di neutroni (Magnetar) accresce il materiale che le cade addosso dagli strati esterni della stella progenitrice. “In condizioni particolari, la forza centrifuga dovuta alla rotazione a cui è soggetta la Magnetar – spiega Sergio Campana, ricercatore dell’Osservatorio Astronomico di Brera – è in grado di ‘creare una barriera’ che si contrappone alla forza di gravità e inibisce l’accrescimento. Il materiale intorno alla Magnetar continua ad accumularsi finché non riesce a vincere questa barriera, e il processo di accrescimento ricomincia. In questo modo l’emissione del GRB può essere sospesa, e riprendere dopo alcuni secondi”. Le predizioni di questo modello sono state verificate confrontandole con le caratteristiche di un gruppo di GRB con precursori osservati dal telescopio Swift della Nasa, con partecipazione italiana, per lo studio dei lampi di raggi gamma. “Swift è in orbita dal Novembre del 2004 in continua caccia di nuovi GRB, scoperti in un numero di circa 80 all’anno – ricorda Gianpiero Tagliaferri, responsabile scientifico del team italiano che ha condotto la ricerca e che partecipa alla missione della Nasa a cui contribuiscono Asi e Inaf – ma Swift non scopre e studia solo i GRB: grazie alla sua versatilità, rapidità nei tempi di risposta e capacità di osservare in diverse bande di energia, studia centinaia di altre sorgenti variabili nel cielo X ed ottico-UV”. Oltre alla possibilità di spiegare il fenomeno dei precursori nei GRB, questo modello ha una validità più generale: “fornisce un’interpretazione autoconsistente dell’intero processo di emissione dei GRB come il risultato dell’accrescimento su una Magnetar, indipendentemente dalla presenza di precursori”. Il numero di magnetar che ci si aspetta vengano prodotte dal collasso di stelle di grande massa è confrontabile con quello dei GRB, lasciando aperta l’ipotesi che questo tipo di stelle di neutroni possano essere in grado di produrre molti più GRB di quelli con precursori, che sono circa il 15 percento del totale. Se ne parlerà all’evento europeo per l’Alba della ricerca, Origins 2013, il 27 Settembre, in sessione notturna. Cern, Unesco, Esa, Eso e Inaf insieme animano un evento che si snoda attraverso tre città del Vecchio Continente: Ginevra, sede del Cern; Parigi, sede dell’Unesco e Bologna dell’Esa, scelta dall’Inaf per rappresentare le ricerche sull’Origine dell’Universo creato da Dio. Già perché questo evento nell’evento della nona edizione della classica “Notte della ricerca”, affronta il tema dell’Origine dell’Universo da due punti di vista che appaiono diametralmente opposti. Ma che invece sono complementari: l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, la fisica delle particelle e l’astrofisica. Cern, Unesco, Esa, Eso e Inaf sono una parte significativa dei protagonisti di questa manifestazione che si segnala per essere la più importante negli Stati Uniti di Europa della Scienza, perché mette insieme le principali istituzioni pubbliche di ricerca europee. Cos’hanno in comune la fisica delle particelle, l’astrofisica e la ricerca spaziale? Affrontano tutte questioni fondamentali collegate alle nostre origini: dalle origini della materia all’origine dell’Universo. Nei mesi scorsi, il Large Hadron Collider, con la scoperta del bosone di Higgs, e il satellite Planck, con il rilascio dell’immagine più precisa mai ottenuta dell’Universo primordiale, hanno messo a segno scoperte scientifiche fondamentali. Ed è da poco stato inaugurato in Cile un telescopio rivoluzionario come Alma che si accinge a offrire una vista sul cosmo senza precedenti. “Origins 2013” è l’occasione per presentare queste affascinanti imprese scientifiche, tutte caratterizzate da una forte leadership europea. Un evento unico nel suo genere, pensato per mettere in evidenza lo stretto legame fra l’infinitamente piccolo della fisica delle particelle e l’infinitamente grande dell’astrofisica. Ricercatrici e ricercatori di entrambi i campi condivideranno con il grande pubblico la passione per il loro lavoro. A Ginevra presso il Cern, a Parigi nella sede dell’Unesco ed a Bologna in Sala Borsa, il pubblico presente in sala o in collegamento web-cast, avrà occasione di compiere un viaggio all’indietro nel tempo e nello spazio, alla scoperta dell’Origine dell’Universo che ebbe inizio da un’improvvisa espansione avvenuta 13,8 miliardi di anni fa. Per consentire ai visitatori di discutere a ruota libera e di entrare davvero in contatto con i protagonisti di queste scoperte, sono inoltre previsti incontri individuali “faccia a faccia”. Una vera e propria sessione di “speed-dating” fra i partecipanti all’evento e i ricercatori. “Con Origins 2013 vogliamo celebrare le migliaia di ricercatrici e ricercatori che, con il loro lavoro su strumenti scientifici di frontiera come LHC e Planck, stanno contribuendo ad approfondire la nostra comprensione dell’origine dell’universo, fornendoci una nuova immagine dei suoi primissimi istanti” – dichiara Sergio Bertolucci, direttore della Ricerca e del Calcolo scientifico al Cern. Nazzareno Mandolesi, Principal Investigator del Low Frequency Instrument su Planck, sottolinea che “la scoperta delle Origini dell’Universo è solo all’inizio. Planck e LHC hanno fatto un lavoro straordinario, ma ci aspettiamo una sinergia ancora più stretta tra i due ambiti scientifici, Cosmologia e Fisica Fondamentale, per scoprire la necessità di una nuova fisica alle altissime energie e temperature del Big Bang”. Speriamo anche con la Teologia. Non è bene tenere Dio Creatore lontano dalla Scienza Accademica e dalla Didattica. L’Inaf organizza l’evento italiano e molti ricercatori provenienti da istituzioni partner, dall’Infn, dall’Ingv, dall’Università di Bologna e dall’Area della Ricerca del Cnr di Bologna dialogheranno con il pubblico presente in sala e online (via Twitter tramite #nottericercatori) durante le dirette streaming contemporaneamente da Parigi, Ginevra e Bologna. Per l’Italia l’evento sarà trasmesso anche sul circuito Altratv (www.altratv.tv). Ecco alcuni fra gli scienziati ospiti sul palco nelle tre città. A Parigi, François Englert, uno dei fisici teorici che hanno predetto l’esistenza della particella di Higgs, e François Bouchet, vice-PI dello strumento ad alta frequenza di Planck. A Ginevra, il premio Nobel Sam Ting insieme a Fabiola Gianotti e Joe Incandela (i due fisici portavoce degli esperimenti ATLAS e CMS al momento dell’annuncio della scoperta del bosone Higgs nel Luglio 2012). A Bologna, sul palco o in video, Giovanni Fabrizio Bignami (presidente Inaf), Fernando Ferroni (presidente Infn) e Marco Bersanelli, vice-PI dello strumento a bassa frequenza di Planck, Monica Tosi (Inaf), Antonio Zoccoli (Università di Bologna e Infn), Jan Brand e Marcella Massardi (Alma) e Roberto Battiston (vice-PI dell’esperimento AMS sulla Stazione Spaziale Internazionale). Durante l’evento, le tre città europee saranno collegate in videoconferenza anche al centro operativo Esa del telescopio Planck a Darmstadt, con Nazzareno Mandolesi (Principal Investigator dello strumento a bassa frequenza di Planck) e con il sito del telescopio Alma dell’Eso nel deserto di Atacama in Cile, la Stazione Spaziale Internazionale, con l’astronauta Esa, Luca Parmitano, e il Cern di Ginevra. A Bologna l’evento, introdotto alle 18 da un concerto degli oltre 70 elementi delle orchestre giovanili gemellate del CEMI di Bologna e della Musikschule J.S. Bach di Lipsia, avrà inizio a partire dalle 19:30. La serata proseguirà con Ausencia, interazione tra performance teatrale e video, produzione degli Instabili Vaganti e Basmati film e l’esecuzione di Tierkreis di Karlheinz Stockhausen. La partecipazione è completamente gratuita, ma per lo speed-dating occorre registrarsi sul sito dell’iniziativa Origins 2013 (www.origins2013.eu/bologna/) un Progetto ideato dal Cern e realizzato insieme all’Inaf con la collaborazione dell’Eso, dell’Esa e dell’Unesco, finanziato dalla Commissione Europea attraverso l’iniziativa Marie Curie Notte dei Ricercatori. Per l’Alba della ricerca pubblica e privata. E la liberalizzazione della impresa spaziale nella Nuova Economia della Conoscenza e dei Talenti, fondata sul Credito alla persona.

Nicola Facciolini

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