“La sfera di cristallo della sacralità attraverso cui guardavamo il mondo ci faceva vedere la vita come buona in sé. Invece occorre convincersi che buona non è la vita in sé, ma la vita buona, ossia la vita con contenuti buoni”
Maurizio Mori
Non ha vinto Malala Yousafzai, la sedicenne che nell’ottobre del 2012 fu gravemente ferita dai talebani e venne poi trasferita in un ospedale britannico, ma l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, (Opac), a cui è andato il Nobel per la Pace 2013, dopo che era entrata a sorpresa nella rosa dei candidati a causa del conflitto siriano.
Scrive Sandro Iannaccone che, nonostante la commissione abbia precisato che l’ Opac non sia stata premiata per i risultati ottenuti in Siria – che, in effetti sono ancora piuttosto scarsi – ma per l’ attività decennale per ridurre l’uso di armi chimiche nel mondo, il riferimento con l’ attualità è lampante, anche se il premio ha sorpreso molti ed amareggiato Vladimir Putin, incredibilmente candidato da una non meglio identificata International Academy of Spiritual Unity and Cooperation of Peoples of the World.
Tornando a cose più serie, sebbene una recente ricerca internazionale dimostri che l’arma più letale in assoluto resti il kalashnikov, il Post, in una recentissimo inchiesta, ha potuto dimostrare come, di là dalla letalità diretta, ha ragione Obama quando dice che l’uso di armi chimiche significhi il superamento di una “linea rossa”, che non devrebbe mai essere oltrepassata.
Obama ha fatto riferimento a una serie di trattati – per ultimo la Convenzione di Parigi sulla Proibizione delle Armi Chimiche del 1993 – coi quali negli anni si è cercato di limitare o impedire la proliferazione degli arsenali di armi chimiche. A oggi si stima che sia stato distrutto circa il 78,57 per cento dell’arsenale chimico in circolazione, pari a 55.939 tonnellate di sostanze e tale convenzione è l’ultima espressione di un pensiero comune che si sviluppò a partire della Prima guerra mondiale nella comunità internazionale: l’utilizzo delle armi chimiche va limitato, se non vietato del tutto.
Infatti, nonostante il numero dei morti causato da armi chimiche nei conflitti sia sempre stata una piccola parte rispetto al totale – nella Prima guerra mondiale e nell’attuale conflitto in Siria la percentuale è la stessa, cioè vicina all’1 per cento – il loro utilizzo è da molti considerato estraneo al “normale” comportamento bellico.
Nell’antichità, popolazioni come i Sumeri, i Greci, i Romani e i Cinesi hanno utilizzato con varia frequenza tecniche per avvelenare pozzi o le punte delle proprie frecce, oppure per soffocare i nemici con particolari sostanze tossiche generate da rudimentali reazioni chimiche. Nel Medioevo si diffuse la conoscenza di particolari composti sulfurei che venivano utilizzati durante gli assedi delle città, per asfissiare i nemici.
Con lo sviluppo della chimica moderna, i governi di varie nazioni dotarono il proprio arsenale di sostanze chimiche create artificialmente e sintetizzarono composti da utilizzare in guerra: l’esercito francese fu il primo a lanciare un gas lacrimogeno durante i primi mesi della Prima guerra mondiale, e da lì l’uso si diffuse in fretta. Nel corso della seconda battaglia a Ypres, in Francia, il 22 aprile 1915, l’esercito tedesco attaccò quello francese con del gas clorato: durante le battaglie nei territori al confine fra Francia e Germania, detto il fronte occidentale, si è stimato che furono utilizzate circa 50.965 tonnellate di gas tossici, fra cui cloro, fosgene e iprite. Quest’ultimo è considerato uno dei più dannosi per l’uomo: può penetrare i vestiti e creare piaghe nella pelle difficilmente curabili. Un’elevata esposizione all’iprite può provocare danni gravissimi all’apparato respiratorio e la morte.
Nel 1925, 38 nazioni firmarono il cosiddetto “Protocollo di Ginevra”, che divenne effettivo nel 1928: proibiva l’utilizzo di armi chimiche anche in contesti di guerra, ma non la sua produzione. Nonostante ciò, diversi paesi negli anni successivi violarono il protocollo.
Quanto a noi, nel 1935 Benito Mussolini ordinò l’utilizzo di gas all’iprite durante la guerra coloniale che l’Italia stava combattendo in Etiopia. Cinque anni più tardi, nel 1940, il Giappone lanciò sul territorio cinese alcune bombe contenenti gas tossici: molte finirono sottoterra e nonostante il governo giapponese si sia impegnato a rimuoverle a proprie spese, fino al 2005 circa duemila cittadini cinesi sono morti in seguito al loro ritrovamento accidentale.
Fino al 21 agosto scorso, quando un bombardamento con armi chimiche in Siria ha costretto la comunità internazionale a occuparsi con urgenza della guerra civile che va avanti da oltre due anni, e l’uso delle armi chimiche è diventato per diversi stati occidentali la cosa da provare per iniziare un intervento militare contro il presidente Bashar al Assad.
Dopo il Ginevra e Parigi, nel 1997, la comunità internazionale ha di nuovo messo al bando le armi chimiche, con la “Convenzione per la Proibizione dello sviluppo, della produzione, dell’immagazzinamento e dell’uso delle Armi chimiche e per la loro distruzione, ma la Siria è rimasta uno dei paesi non firmatari dell’accordo, e non ha quindi l’obbligo internazionale di distruggere il suo arsenale chimico. Negli anni seguenti il governo siriano fu accusato di provare a produrre dei gas chimici ancora più letali del sarin e del gas mostarda, come il nervino VX e i o. I rapporti più recenti da parte dell’intelligence statunitense (datati 2002 e 2006) che Assad sta da tempo cercando di sviluppare armi chimiche più letali e sofisticate, con un episodio almeno, prima di quello di Damasco, verificatosi nel 1982 e documentato da Amnesty International che accusò la Siria a di avere usato del cianuro contro alcuni membri dei Fratelli Musulmani durante la sanguinosa repressione delle proteste di Hama.
A luglio, il gesuita padre Dall’Oglio, noto per aver rifondato, in Siria, negli anni ottanta, la comunità monastica cattolico-siriaca Mar Musa, erede di una tradizione cenobitica ed eremitica risalente al VI secolo, espulso dal governo siriano il 12 giugno 2012, rifugiatosi a Sulaymanya, nel Kurdistan iracheno, dove è stato accolto nella nuova fondazione monastica di Deir Maryam el Adhra; sxcrisse che l’eroismo dei siriani è ragionevole e dunque morale perché proporzionale alla mostruosità e durevole caparbietà del regime baathista-alawit e che tale eroismo è ormai adeguato alla prospettiva di farci ammazzare in massa qualora rinunciassimo a proseguire la lotta fino ad una sostanziale vittoria.
Contestando con iò l’affermazione di dieci mesi prima dell’allora Papa Ratzinger in visita in Libano, che aveva detto, sicuramente per effetto delle opinioni dei prelati mediorientali favorevoli al regime del clan Assad, che era peccato mortale vendere le armi ai contendenti nella guerra intestina siriana.
Ora il Nobel per la Pace assegnato all’ente intergovernativo che ha il compito di far applicare la Convenzione di Parigi del 1993 sul bando delle armi chimiche, fa vedere chiaramente quale è la posizione degli accademici assegnatari: convincere non soltanto gli ultimi sei Paesi restii a mettere al bando le armi chimiche (si tratta di Angola, Birmania, Corea del nord, Egitto, Israele e Sud Sudan), ma il mondo intero a rinunciare ad ogni forma di prevaricazione e di strage.
Il Nobel per la pace, che consiste in un diploma, una medaglia d’oro e la relativa ricompensa da 10 milioni di corone (1,2 milioni di euro), sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre, nelle mani del presidente della organizzazione: Ahmet Uzumcu, che ha giudato per 16 anni il gruppo, portandolo ha distruggere nel complesso 57.000 tonnellate di armamenti, per lo più prelevati dagli arsenali americani e russi risalenti all’epoca della Guerra Fredda.
Mentre sogniamo il momento in cui il Nobel per la Pace possa essere consegnato al’Europa per il superamento della tragedia dei migranti, ricordiamo che lo scorso 5 aprile, Le Scienze, ha pubblicato un articolo sulle necessità di rivedere la convenzione vigente, tre giorni prima che si aprissero all’Aia, i lavori per il rinnovo della Convenzione sulle armi chimiche (CWC, Chemical Weapons Convention), a cui aderiscono 188 nazioni e che ha permesso di distruggere il 78 per cento delle scorte di armi chimiche precedentemente accumulate, una percentuale che entro il 2017 dovrebbe arrivare al 99 per cento, con lo smantellamento completo o la riconversione a usi pacifici degli impianti di produzione noti; ma che non basta ancora come sottolineava su un articolo “Nature”, perché malgrado questo indubbio successo i problemi non mancano e la Convenzione ha bisogno di una radicale revisione. Il primo e più ovvio problema sono i sei paesi che non hanno sottoscritto l’accordo – Siria, Corea del Nord, Somalia, Egitto, Angola e Sud Sudan (lo stato nato il seguito al referendum del 2011 che ha sancito l’indipendenza delle provincie meridionali del Sudan) – a cui si aggiungono Israele e Myanmar che, pur avendolo sottoscritto, non lo hanno ancora ratificato.
Poi, c’è il problema ancora più preoccupante che la convenzione è stata redatta nel 1992, ma da allora il quadro internazionale è cambiato, e fra gli attori non ci sono più soltanto gli stati. Oggi anche gruppi terroristici potrebbero produrre armi chimiche letali contando sia sulla disponibilità di piccoli reattori compatti, assai più difficili da individuare dei grandi impianti, sia su diversi composti tossici che possono essere sintetizzati sfruttando processi di tipo biotecnologico, processi che attualmente non contemplati dalla Convenzione. In questo modo, per esempio, è possibile produrre due sostanze proibite dalla CWC come la ricina, un inibitore della sintesi delle proteine, e la sassitossina, una neurotossina paralizzante.
Per questo è importante, da un lato, che venga messa sotto controllo tutta la filiera di produzione dei microreattori, e dall’altro che si proceda all’unificazione della CWC con un’altra convenzione, quella sulle armi biologiche (BWC, Biological and Toxin Weapons Convention), estendendo anche a quest’ultima il regime di ispezione internazionale degli impianti, che finora la BWC non prevede.
Il riconoscimento della Accademia di Svezia va soprattutto per ciò che è stato fatto, ma anche per quello che si deve ancora fare, affinché, ad esempio, il divieto sia esteso divieto a un’ampia gamma di sostanze invalidanti, che teoricamente sono state messe a punto per il controllo delle folle durante moti di piazza, e che, sempre teoricamente, non sarebbero letali, fra cui diverse fenilpiperidine, degli oppioidi con effetti analgesici e anestetici che possono diventare letali per persone con problemi di salute, oppure quando la loro concentrazione è elevata. Nel 2002, sarebbe stata proprio l’immissione di una di queste sostanze, il fentanil, nella sala del Teatro Dubrovka di Mosca, dove un gruppo di terroristi ceceni teneva in ostaggio 850 persone, a provocare la morte di almeno 150 persone tra ostaggi e terroristi. L’ordine, naturalmente, veniva dal candidato al Nobel Vladimir Putin.
Nel 1947 Ennio Flaiano, scrisse “Tempo di Uccidere” (vincendo il primo premio Strega) è dimostrò, con un racconto da thriller, che se si uccide, indipendentemente dal modo, da ogni circostanza sembra scaturirne un’altra, è tutto appare concatenato, tutto concorre a trascinarci in una cupa crisi esistenziale.
Papa Francesco ha twittato più volte e detto nei suoi discorsi “mai uccidere”,. In alcun modo e per nessun motivo e calandosi nella attualità, avvertito che: “La via di soluzione dei problemi della Siria non può essere quella dell’intervento armato. La situazione di violenza non ne verrebbe diminuita. C’è, anzi, il rischio che deflagri e si estenda ad altri Paesi”.
La vita, qualunque vita, è un bene sacro e supremo, non solo per i cristiani, ma ogni uomo che possa dirsi tale.
Se si conserva l’orizzonte trascendente e creazionistico la vita è sentita come dono anche quando è lotta e l’amore verso la vita fruttifica verso la solidarietà sociale; ma anche nella visione laica la vita è un bene supremo che nessuno può togliere e per nessun motivo ad un altro.
Dice bene G. Fornero in “Bioetica cattolica e bioetica laica” (Bruno Mondadori, 2005): nel caso del tema centrale della vita non rimane altro, che riconoscere il pluralismo di fatto (ovvero l’esistenza della libertà umana) senza rinunciare tuttavia a domandarsi non tanto se le varie scelte siano cattoliche o laiche, ma se siano moralmente giuste, senza rinunciare, a fare bioetica tout court, ovvero a esercitare una riflessione razionale capace di fondare adeguatamente i nostri giudizi morali.
E nell’esercizio di questa riflessione razionale la distinzione tra cattolici e laici è senz’altro innegabile che togliere la vita in modi modo è un atto orribile e scellerato.
Nel vasto territorio del laicismo bioetico, definito per la vastità ddi linguaggi una vera e propria “famiglia”, con membri diversi ma accomunati dal non credere nell’esistenza e nella conoscibilità di Dio e di conseguenza nella negazione della creaturalità dell’uomo, il valore trascendente della persona resta fissato sull’esistenza di una legge eterna e di una legge morale naturale, che impediscono comunque a ciascuno di sentirsi padrone e signore della vita e della morte.
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