“Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”
Ippocrate di Kos
“Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato . Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l’argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venaturel e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia”.
Seneca
“L’arcano della forma di merce consiste semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. […] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi”
Karl Marx
“Siamo situati all’interno della natura; e dovrebbe essere posto fuori di essa chi vi oppone”, scriveva l’hegeliano Ludwig Feuerbach, eppure, lo scorso 16 ottobre il World Food Prize, il Nobel del cibo istituito nel 1986 dall’agronomo e ambientalista statunitense Norman Borlaug, è stasto assegnato a tre biologi, tra cui Robert Fraley, il biotecnologo dell’azienda Monsanto e Mary-Dell Chilton, che opera presso la società biotech Syngenta a Monsanto, legittimando così la stessa quale azienda pioniera nella modifica genetica degli organismi e favorendo la validazione del modello di business che impoverisce le aziende agricole e m anipola il nostro cibo.
Per coloro ai quali fa difetto la memoria (fra questi gli assegnatoari del premio), la Syngenta, assieme alla Bayer, è tra i maggiori produttori di pesticidi che contribuiscono alla moria delle api, tanto che, tempo fa, la Commissione Europea, ha sospeso l’utilizzo di alcuni di questi prodotti, anche se l’azienda ha presentato ricorso contro la decisione della Commissione adottata, seondo lei, sulla base di una procedura incompleta e su valutazioni inadeguate da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).
Durante la cerimonia di premiazione, avvenuta ieri, nella ricorrenza della Giornata Mondiale per l’Alimentazione, vivaci proteste sono state mese in atto dall’ “Occupy the World Food Prize”, un attivo movimento politico organizatosi su tutto il territorio americano, nato per far conoscere ai cittadini statunitensi il problema relativo alle colture Ogm, soprattutto quelle adoperate dalla Monsanto, e ai rischi che comportano per il nostro organismo e per il nostro pianeta.
Pochi giorni or sono, in Friuli, durante la cosidetta “Festa della Trebbiatura”, che si celebra il 12 ottobre, il mais ogm di Vivaro (del tipo Mon810), sia stato al centro di violwenti polemiche da parte del Coordinamento per la tutela della biodiversità Fvg, che lo ha definito “una tossina vivente” che uccide le larve di piralide e con esse di tutti gli altri lepidotteri ed è insomma l’ennesimo veleno che si intene introdurre nella nostra filiera agrolimentare, ancora più pericoloso dei pesticidi, con la scusa di una presunta biodiversità.
Lo scorso 13 settembre il Corriere ha sviluppato una inchiesta sugli OGM, partendo dalle relazioni di quattro diversi esperti che sul tema hanno parlato al Festivaletteratura di Mantova, due, Dario Bressanini e Beatrice Mautino, divulgatori e giornalista scientifici con argomenti, a favore e due contro, Luca Ruini e Luca Colombo, quest’ultimo segretario della Fondazione italiana per la ricerca in agricoltura biologica e biodinamiche.
Medici, scienziati, agricoltori e nutrizionisti dibattono da tempo sulla questione, aggravata da tanta confusione legislativa, che si traduce in messaggi incompleti al consumatore. In sostanza, oggi l’Italia vive una profonda contraddizione: per fare un esempio, il mais Mon 810 è autorizzato a livello europeo e inserito nel registro varietale, ma nel nostro Paese, che ancora non ha elaborato piani di coesistenza regionali, coltivarlo è vietato. Mentre la Fondazione diritti genetici chiede l’applicazione della clausola di salvaguardia che lasci libertà di scelta a ogni Stato sulla produzione di Ogm, è stato emesso un decreto interministeriale che tampona il silenzio istituzionale con lo stesso effetto, nell’immediato, ma con validità di soli 18 mesi. Il conflitto normativo non è quindi risolto e l’Italia (ma non solo) soffre anche la carenza di vaste aree coltivabili, dove la contaminazione tra Ogm e non-Ogm sarebbe rischiosa. Il dibattito insomma prosegue nelle sue mille pieghe di opportunità e sviluppo sostenibile, ma forse un notevole passo in avanti lo potrebbe fare la comunicazione al pubblico: più informazione significherebbe maggiore partecipazione di pubblico e consumatori a temi certamente non confinati solo a scienza o agricoltura.
Comunque, mentre un premio internazuionale è dato agli OGM, Greenpeace scrive che l’esperienza del mais Bt, e del MON810 in particolare, mostra che troppi “effetti indesiderati” sono stati scoperti dopo che le autorizzazioni sono state concesse e che gli Ogm un rischio inutile e inaccettabile, non offrono vantaggi significativi a nessuno se non alle aziende che li brevettano.
Sempre lo scorso settembre, sulle pagine di “Nature Biotechnology”, Laura De Francesco, senior editor della rivista, in un lungo articolo di commento che analizza a fondo i dati disponibili su uno dei più evidenti paradossi delle politiche e della comunicazione della scienza degli ultimi anni, si chiede se e quando gli Ogm potranno ritenersi sicuri. Se infatti da una parte il cibo geneticamente modificato è stato dichiarato senza rischi da numerosi organismi di controllo nazionali e internazionali, la sigla Ogm per molti cittadini, soprattutto in Europa, in Africa e assai di recente anche nei paesi asiatici, è sinonimo di cibo da evitare, o perché rischioso per la salute o perché imposto al mercato dagli interessi delle multinazionali. Questo paradosso genera un circolo vizioso: quanto più gli Ogm sono percepiti come non sicuri, tanto più si procede a nuove analisi, anche se i cibi derivati da coltivazioni transgeniche attualmente sono gli alimenti in assoluto più regolamentati.
Comunque i dati sono confusi e contradditori e, soprattutto, è ormai quasi certo (ne sonop convinto come allergologo sul campo), che gli Ogm fanno aumentare il rischio di allergie.
Invece, secondo esimi scenziati, come Marion Nestle, professore di nutrizione, studi sugli alimenti e salute pubblica alla New York University, ci sono due modi di guardare al problema della dicotomia tra rischio reale e rischio percepito.
Se si guarda al rischio di malattia, ospedalizzazione e morte, la realtà è che il cibo transgenico pone un rischio molto basso, largamente inferiore a quello delle intossicazioni alimentari dovute a contaminazione microbica. La percezione della sicurezza alimentare dipende da come viene comunicato il rischio e da quanto il cibo è familiare o estraneo, naturale o “tecnologico”.
“Il problema sanitario principale che riguarda il cibo è di carattere batterico o virale, ma dato che l’idea dell’intossicazione è familiare e non deve essere compresa dal punto di vista tecnico, e non è imposta in modo volontario da qualcuno, le persone non si sentono minacciate”, sottolinea Nestle. “Al contrario, non accettano la biotecnologia alimentare perché è poco familiare, tecnologica e imposta, anche se non ci sono prove che possa essere pericolosa”.
Parole apparentemente sagge, ma che non corrispondono a quanto reallmente contastatato da molti utenti e asvariati medici.
Credo quindi che il problema non sia affatto solo di diffidenza e comunicazione, ma reale e che il sospetto sugli organismi geneticamente modificati dipenda dal semplice fatto che i mezzi di comunicazione non sono in grado di fornirne una corretta informazione sull’argomento.
Se è vero che iamo ciò che mangiamo, che il cibo è un alimento e che siamo quindi inevitabilmente composti di cibo, dovremmo fare attenzione al fatto che sembra non esistere più una persona che abbia il tubo digerente in ordine e che nonostante tutto il benessere possibile viviamo in una condizione di salute precaria, turbata da alterazioni funzionali che, con sorridente superficialità, attribuiamo a questo ritmo di vita logorante e stressante e mai a come e a ciò che mangiamo.
Eppure, ovunque scorra il nostro sguardo cogliamo l’eterea essenza energetica della vita, una vita sempre più manipolata e plastificata, a partire dagli alimenti.
Con un’immagine alquanto efficace, Ernst Bloch dice che “l’uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ne ha”: fuor di metafora, è nei momenti più desolati e difficili (le carestie, le guerre, ecc) che si fa sentire con più forza la spinta a trascendere il presente e a sperare in un futuro migliore.
Ma in condizioni normali si può pensare che è il cvibo abbondante che mangiamo e la sua qualità, oltre che quantità, a condizionare negativamente i nostri giorni.
Meglio, io credo, fare come Arthur Schopenhauer, che consumava i suoi pasti generalmente al “Ristorante Inglese”: e che, cominciando a mangiare, metteva sulla tavola, dinanzi a se, una moneta d’oro, che riponeva in tasca a pasto finito., sicché un indignato cameriere gli chiese alla fine il significato di quell’invariabile cerimonia e lui i aver promesso a se stesso di lasciar cadere la moneta nella cassetta dei poveri il primo giorno in cui avesse udito gli ufficiali inglesi, che pranzavano nel ristorante, discorrere di qualche cosa che non fosse di cavalli o di donne o di cani.
Meglio anche, forse, fare la fine del più materialista dei materialisti, l’ateo illuminista La Mettrie, che pare amasse gozzovigliare e fare pasti pantagruelici, a tal punto che sarebbe morto per un indigestione di patè di fagiano, che essere ligio alle più salutari e parche prescrizioni dietetiche, per poi ammalarsi per qualcosa di geneticamente modificato.
Carlo Di Stanislao
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