Su La 7 continua l’arrivo di transfughi, conduttori, giornalisti ed anche eventi in cerca di casa, dopo aver perso il posto in Rai o Mediaset.
Il 27 ottobe è stata la volta della serata finale di Miss Italia, cacciata con ignominia dalla Rai dopo un’estate di polemiche, scontri e rischi di cancellazione, con diretta da Jesolo e conduzione del trio formato dagli attori Massimo Ghini e Cesare Bocci e dall’ex vincitrice del titolo di più bella della Penisola nel 2003 Francesca Chillemi.
Una serata non migliore né peggiore di tante altre, con 63 finaliste ordinate e sorridenti sul palco, la Chillemi con ballerini a fare stacchetti e la serissima giuria composta da Rita Dalla Chiesa, Massimo Lopez, Salvo Sottile, Caterina Murino, Lucrezia Lante Della Rovere e il regista Saverio Marconi che vota, naturalmente e pacatamente commenta.
La padrona di casa Patrizia Mirigliani saluta e non polemizza, Max Gazzè canta “Sotto casa” e le selezioni assottigliano le file delle bellissime in vetrina, fino alla proclamazione della diciamnnovenne vincitrice di Messina Giulia Arena che, naturalmente, si sorprende e piange.
I critici hano fatto il loro lavoro criticando e parlando di noia mortale, facendo a pezzettini anche il comico Alessandro Siani che invece ci ha messo per intero la sua verve partenopea per scaldare il pubblico giocando con la giuria, sui luoghi comuni della “ragazza della porta accanto” e sulla sfortunata figura del fidanzato della futura vincitrice (“mentre a lei mettono la corona, a lui mettono le corna”), per poi carrellare su un’Italia disatrata, tra il prezzo della benzina e i nonni che non si ascoltano più, e una chiusura in difesa del concorso, un po’ demagocico certo, ma che in fondo ci ricorda di non togliere i sogni ai giovani che già non hanno nulla ed in cambio ricevono solo un austero niente.
Gli stessi esperti del bon ton televisivo, invece, tacciono e non vergano una sola riga sulla questione calda di questi giorni: compensi Rai milionari mentre la povertà devasta il paese.
Dopo la polemica scoppiata in diretta a “Che tempo che fa” tra il conduttore Fabio Fazio e il capogruppo PDL alla Camera Renato Brunetta, la cui onda lunga avrebbe contribuito anche a far saltare l’accordo tra Maurizio Crozza e l’azienda di viale Mazzini, a rimbalzare sugli organi di stampa sono state le cifre del contratto di un altro “big”: Bruno Vespa, storico conduttore di Porta a Porta che, secondo quanto riportato da “la Repubblica” per il suo contratto triennale come “conduttore, consulente esperto, ideatore, autore di testi” tra settembre 2010 e agosto 2013 ha potuto contare su 4 milioni e mezzo di euro, un fiume di soldi a cui si aggiunge un primo extra per le puntate di Porta a Porta – tutte già in palinsesto – oltre la centesima, che per lui significano 12 mila euro a serata, con un ulteriore surplus di 901 mila euro.
Poi ci sono i compensi per gli “speciali”, sicché, complessivamente, tra prestazioni ordinarie e straordinarie il giornalista porta a casa 6 milioni 320 mila euro lordi nei tre anni.
E siccome è meglio non perdere tempo, pare anche che viale Mazzini starebbe rinnovando il suo contratto per un’altra stagione, alle medesime condizioni economiche e normative con l’eccezione di una piccola riduzione del compenso unitario per le puntate di Porta a Porta eccedenti la centesima.
Come ha scritto Fabio Pavesi c’è una casta di intoccabili in Italia che vince sempre e che alla fine ha trasformato le classi dirigenti in un ceto affaristico-politico criminale fra i più avidi e parassitari del pianeta: un sistema senza progetto, se non quello di arraffare, e durare fra le zuffe, con un Pd ed un Pdl che sono i prodotti finali di un composto bipartitico instabile e degenerato, che ammette una competizione per contendere le cariche, ma che in realtà non affronta mai l’ingombro delinquenziale dei ricatti e degli scambi di favori e favoritismi.
Intanto, nel paese reale, il tasso di disoccupazione ha supeato il 13%, il valore più alto degli ultimi 35 anni, mentre fra i giovani a non lavorare è il 38.5%, con punte del 50 nel sud della penisola e punti vendita chiudono di continuo ad una media di 224 al giorno.
Ma in questo paese a rischio Grecia, che era l’ottava ed ora è la nona (dopo il sorpasso da parte della Russia) economia del mondo, se 5 milioni di persone non arrivano a mangiare, vi sono stipendiati e pensionati che continuano a navigare nell’oro e giornalisti superpagati che fanno trasmissioni in cui si parla di come una ragazza può mettersi tranquilla sposando un milionario.
E nessuno che scriva o faccia repichei dure e vere su questo, sul fatto che vi sono in questo paese della totale decadenza, persone che vivono con oltre 3mila euro al giorno, pensionati come Mauro Sentinelli, ex manager di Telecom Italia, che ogni mese riceve un assegno di 91.337, mentre i dati dell’Inps evidenziano che ben 3.152.000 cittadini debbono campare con una pensione inferiore ai 500 euro mensili.
E secondo la Corte Costituzionale tutto questo è legittimo, tanto da bocciare, lo scorso agosto, il contributo di solidarietà, senza peraraltro una sola parola sul fatto che ciò che pare giusto da un punto di vista legale rappresenta ugualmente qualcosa che indigna e offende i comuni cittadini, soprattutto in un momento in cui il paese è alle prese con l’impoverimento più drammatico della sua storia recente.
E se si tace (o si dice poco) degli stipendi degli anchorman televisivi, ancor meno si dice di quelli dei grandi manager di stato che guadagnono spesso più di 100.000 euro al giorno, signori che messi alla guida di un’azienda pubblica o privata, ne definiscono gli obiettivi da raggiungere, attraverso l’assunzione di decisioni sull’impiego delle risorse economiche disponibili e, in particolare, delle risorse umane, ma che non vengono mai premiati o punti in base agli obbiettivi.
Una considerazione sorge spontanea: se è merito della dirigenza il buon andamento di un’impresa e di un intero paese e per questi meriti viene così profumatamente remunerata, allora non si spiega perché i lavoratori debbano essere gli unici responsabili del fallimento del paese e dello sfascio di un’intera nazione, costretti a stipendi da fame e passibili di licenziamento; mentre buon senso vorrebbe, senza essere tacciati di vetero-comunismo, che utili e perdite, meriti e responsabilità, in una società civile, libera e democratica, fossero equamente redistribuiti tra chi comanda e chi materialmente manda avanti (quando e se ci riesce) la baracca.
E’ interessante notare come quelli che di fronte a questi discorsi parlano di populismo, sono anche coloro i quali di fronte a film come “Sole a catinelli”, terzo di Checcho Zalone che parla degli italiani dopo venti anni di berlusconismo, anestetizzati al punto da giustificare chi ha come scopo solo quello di fare soldi, giudicano il prodotto corrigo e trash, sospetto negli assunti e nello sviluppo, come anche, su un altro piano, lo è stato “L’intrepido” di Gianni Amelio, parabola dal tono velatamente fiabesco che si sofferma senza troppo disincanto sull’amaro periodo che attraversa quella parte di lavoratori, costretti a vivere quotidianamente sul filo del rasoio.
Carlo Di Stanislao
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