Il 9 novembre 1993, crollava, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, lo Stari Most, il bellissimo ponte di Mostar che unisce le due rive della Neretva. Più che un atto strategico, fu un atto simbolico, un attacco alla memoria: “la distruzione deliberata di un patrimonio culturale comune e la cancellazione di secoli di convivenza pacifica”. A 20 anni da quella tragedia, un articolo di Elisabetta Gatto, pubblicato dal mensile internazionale dei Gesuiti Popoli, si interroga su una riconciliazione che non sembra ancora completamente avvenuta nel paese balcanico. Il ponte, che unisce la “zona” ottomana a quella a maggioranza cattolica, è stato ricostruito e inaugurato nel luglio del 2004 ed oggi è una delle attrazioni turistiche più visitate della Bosnia Erzegovina. Vi si possono ammirare gli “Icaro di Mostar”: giovani che si tuffano da 23 metri nelle acque gelide del fiume. Ma in realtà le relazioni tra le due comunità sono ancora ridotte al minimo quando non sfociano in aperte tensioni. Le crudeltà della guerra ha lasciato un segno profondo, non solo negli edifici sventrati, nei cimiteri gremiti di vittime e nelle targhe commemorative, ma anche in una quotidianità fatta di divisioni. Ancora oggi esistono scuole separate per etnia, programmi di studio differenziati, insegnamenti nelle diverse varianti linguistiche diffuse nella regione. C’è una tolleranza dettata soprattutto da ragioni di convenienza ma lontana da una sincera collaborazione.
La rivoluzione dei bebè. Nel giugno del 2013 i genitori bosniaci hanno protestato per chiedere che venisse istituito un sistema di riconoscimento numerico dei cittadini. Il precedente sistema non era più in vigore da mesi e i nuovi nati non potevano avere i documenti ed uscire dal Paese anche per motivi di grande rilievo, come le cure mediche. Quello che è stato il “più grande movimento civile del dopoguerra bosniaco” ha portato all’approvazione di una nuova legge in materia: un sistema di identificazione che comunque ha mantenuto la distinzione per etnie.
Le nuove generazioni vorrebbero scrollarsi di dosso la “macchia” di quei “dieci anni di follia”. Si cercano strade per trovare un cammino comune. Attraverso lo sport e progetti di incontro nelle scuole, che restano comunque rigorosamente separate. O anche attraverso il cibo. L’Oxafam Italia per esempio cerca di promuovere le tipicità alimentari locali (miele, formaggio e vino) cercando al contempo di attivare strade di dialogo.
Sarajevo, “la Gerusalemme d’Europa”, città di convivenza pacifica tra cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani. Nel 1992 questo equilibrio si ruppe, ad aprile cominciò un assedio che sarebbe durato fino al 29 febbraio 1996, quasi quattro anni, il più lungo della storia moderna. Le vittime tra i civili furono 11 mila tra cui 1.600 bambini. Come è potuto accadere?
Secondo Mauro Montalbetti, presidente dell’Ong Ipsia, i Balcani sono una metafora della nostra storia contemporanea: dall’emergere dei nazionalismi all’esaltazione del sangue e delle piccole parie, all’incapacità di trovare una risposta diversa dalla guerra alla sfida della coesistenza. Nella ex Jugoslavia, la crisi economica e politica degli inizi degli anni ’90 ha portato ad un escalation di violenze, paradigma e monito della disgregazione di una comunità, di “qualcosa che può accadere ovunque e in ogni momento”.
9 novembre 1993, crollava lo Stari Most. Bosnia ancora segnata dalla guerra
Il 9 novembre 1993, crollava, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, lo Stari Most, il bellissimo ponte di Mostar che unisce le due rive della Neretva. Più che un atto strategico, fu un atto simbolico, un attacco alla memoria: “la distruzione deliberata di un patrimonio culturale comune e la cancellazione di secoli di convivenza pacifica”. A […]
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