Ho assistito ad una zuffa tra due automobilisti, uno bianco e l’altro nero, qualche parolaccia, un digrigno di denti, eppoi via ognuno per la propria strada.
E’ andata bene mi sono detto, nessuno si è fatto male, i tribunali italiani notoriamente congestionati da tonnellate di carta vecchia e cause decennali ancore aperte, hanno evitato un sovraccarico dibattimentale.
Di per se la violenza verbale usata da entrambi non è stata la causa che ha messo in moto la mia attenzione o preoccupazione, in fin dei conti accade ben di peggio persino nei salotti bene oppure negli spazi agguerriti di qualche trasmissione televisiva che ha un bisogno disperato di fare audience.
Una discussione come tante, un diverbio per futili motivi, ma in questa scenetta c’era da attenzionare altro rispetto alla fisicità dei contenuti.
C’era “altro” a fare la differenza, a creare un confine sempre più simile a un recinto di filo spinato, infatti il cittadino nero inveiva nei riguardi dell’altra persona, perché a suo parere, l’uomo bianco non ammetteva di avere torto, urlava e usava le parole come sassi, andava in scena una sorta di razzismo al contrario, a tal punto da passare dalla ragione al torto, se mai questa fosse stata dalla sua parte.
Non si tratta di dare addosso a qualcuno perché ha la pelle diversa dalla mia, io non ce l’ho con i cinesi, i coreani, gli asiatici, perché mangiano i cani, io ce l’ho e di brutto anche, con tutti quelli che uccidono i cani e se li mangiano anche, mi pare diversa la sostanza.
L’avversario dalla pelle chiara a sua volta additava lo straniero per arrogante e violento, fino ad apostrofarlo “brut negher”, insomma tra un bianco di merda e un negher di cacca, a più riprese si sono avvicinati e allontanati, fortunatamente senza fare uso delle mani o di altri corpi contundenti.
Chi dei due stava cavalcando la tigre? Ho seguito l’alterco con una certa urticanza, perché davvero veniva voglia di prenderli a calci nel sedere entrambi, ma per evitare ulteriori dinamiche razziste-globalizzanti, ho desistito da ogni intervento, in controtendenza con la pratica del “vale tudo” appena recitata.
La ragione stava chiaramente dalla parte del conducente che circolava al centro della propria carreggiata, il torto aveva domicilio in chi era posteggiato sbracatamente in doppia fila.
Eppure l’ovvietà della norma infranta, del codice della strada, dell’educazione civica intesa come equilibrio e rispetto di atteggiamenti e comportamenti, soccombevano all’esposizione delle parole brandite come clave, per l’inossidabilità di culture sideralmente distanti, per la violenza insita in ogni forma di incomunicabilità, di conflittualità persistente derivante dal percepire l’altro come un pericolo, una minaccia, un portatore di ulteriore limitatezza umana, un invasore della propria libertà.
Esiste e come il razzismo, permane e progredisce anche una sorta di razzismo al contrario, di illegittima autodifesa, ricercando una provocazione insopportabile a scatenare una reazione anche violenta e qualche volta incontrollata, si comunica sempre più sbrigativamente, in modo tendenzialmente emotivo e spesso violento, per cui chi sta nello spazio del rispetto reciproco, per una sua impreparazione educazionale, per una incapacità a gestire il proprio self-control, si ritrova a pagare un dazio non voluto né cercato, ma soccombente rispetto ai propri diritti calpestati.
Gran brutta bestia il razzismo, ancora peggio se strumentalizzato, fino a farlo diventare una uscita di emergenza per i soliti furbi, siano essi residenti, resistenti, o imparentati con un qualche diritto di cittadinanza.
Vincenzo Andraous
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