Se il “lavoro standard” è quello socialmente sicuro, full time e a tempo indeterminato, il “lavoro atipico” comprende il mare magnum di tutto il resto: contratti a termine e part time non volontari, lavoro serale e nei fine settimana, telelavoro, lavoro a domicilio, e tutte le forme contrattuali che offrono minori protezioni sociali, aumentate, negli ultimi 20 anni, in tutti gli 8 paesi (Italia, Regno Unito, Germania, Svezia, Spagna, Belgio, Slovenia e Francia) presi in esame dal progetto europeo Accessor, con la partnership per l’Italia dell’Inca Cgil. Diversi studi, anche della Commissione europea (2013), concordano “sul fatto che durante la crisi questa dimensione del lavoro non abbia fatto che aumentare, e che quindi l’occupazione sia complessivamente più precaria oggi che nel 2005 o nel 2007”.
Secondo Eurostat, 9 milioni di lavoratori hanno un contratto che dura meno di sei mesi, e l’80% di questi ha meno di 40 anni. Il lavoro atipico è quindi associabile alla giovane età, e ha, inoltre, una declinazione di genere ben precisa: è prevalente, infatti, quello femminile, pur essendo negli ultimi anni in aumento anche quello maschile. In Italia quasi due contratti su tre, tra quelli stipulati negli ultimi anni, sono a tempo determinato, in Svezia costituiscono il 15% dell’occupazione totale, in Germania circa 9 milioni di persone sono occupate con contratti atipici, mentre in Belgio dal 2004 sono è in vigore il sistema dei “titres services” che ha provocato un boom del lavoro domestico a ore, creando di fatto un ghetto lavorativo riservato alle sole donne migranti.
Le tipologie di contratto atipico sono varie, e non ci sono dati certi sul loro numero: se in Belgio e in Slovenia ce ne sono 7, in Italia, paese notoriamente iper-normato, se ne contano da 16 a 45 a seconda dell’ente che esegua il calcolo. Ciò nonostante, è possibile riscontrare almeno cinque forme con cui, pur con le varianti nazionale, viene contrattualizzato il lavoro atipico in Europa, a iniziare da quello interinale, occupato in maggioranza dai giovani: il 57% dei lavoratori interinali europei ha meno di 30 anni. La percentuale della forza lavoro interinale con meno di 25 anni è del 31% in Germania e in Francia, del 34% in Spagna, del 27% in Italia.
Un altro classico contemporaneo è il “finto lavoro autonomo”, basato in realtà sulla dipendenza e autonomo solo di nome, attuato per evadere tasse e contributi. Abbiamo poi i contratti “a zero ore”, più conosciuti come “a chiamata”, che non garantiscono una quantità minima di lavoro e quindi di reddito. Anche in questo caso, la maggiora parte dei lavoratori in queste condizioni sono giovani (il 53% è tra i 16 e i 24 anni), e soprattutto donne.
Ci sono poi i contratti con orario molto ridotto, noti in Italia come “contratto week end”, tra i quali il caso più noto è quello dei mini-jobs tedeschi: se si lavora al massimo per 20 ore alla settimana, con una retribuzione lorda di non più di 450 euro al mese, c’è solo un’assicurazione per gli infortuni, mentre non si devono versare contributi per tutti gli altri rami della sicurezza sociale. I mini-jobs in Germania sono 7,5 milioni, un posto di lavoro su cinque, e più del 63% è occupato da donne. Anche in Slovenia e nel Regno Unito la regolamentazione è simile: non si accumulano contributi utili per la pensione, e si è esclusi da ogni prestazione assicurativa.
C’è infine, il labirinto degli apprendistati, tirocini, stage, etc, che a seconda dei Paesi danno diritto a una copertura assicurativa nulla, parziale, o piena, come accade in Francia, dove gli apprendisti godono della stessa protezione sociale dei lavoratori salariati.
Elisa Manici-RS
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