“È solo una Europa pienamente coesa che può proteggerci tutti da una frammentazione dell’Alleanza. Solo una simile Europa consentirà una piena reciprocità di trattamento attraverso l’oceano nel far fronte all’agenda Atlantica. Solo con una simile Europa potremo realizzare un pieno rapporto di dare e avere tra eguali, una eguale ripartizione di responsabilità, e un uguale livello di sacrificio”(John Fitzgerald Kennedy). Quel giorno a Dallas! La storia cambiò per sempre. Venerdì 22 Novembre 1963. Dov’eravate quando spararono a Kennedy, il Presidente buono? Molti non era neppure nati. In quel tragico appuntamento con la storia nella fatale Dallas (Texas) le drammatiche immagini del filmato di Abraham Zapruder immortalano per sempre, in pochi secondi, le sequenze dell’assassinio del 46enne Presidente John Fitzgerald Kennedy alle 12:30 ora locale, mentre era in visita ufficiale alla città. Fu l’evento più straordinario e devastante del mondo, non solo per la vita di molti Americani, fino all’Undici Settembre 2001. Perché? La domanda posta di frequente negli anni successivi continuò a risuonare nelle menti di tanti. La moglie Jacqueline che subito soccorre il Presidente colpito a morte sulla limousine, cercando di raccogliere frammenti di materia celebrale, la concitazione, il panico, la testa sanguinante esplosa di Kennedy riversa all’indietro. La morte all’ospedale di Dallas dopo 25 minuti. Le ferite non gravi del Governatore del Texas. Il fortemente indiziato giovane 24enne Lee Harvey Oswald, incriminato dell’assassinio di un poliziotto poco dopo l’attentato. La salma di JFK trasportata in aereo a Washington. Il giuramento di Lyndon Johnson accanto a Jacqueline con il tailleur rosa insanguinato. Il saluto militare del piccolo John John davanti al feretro del papà. Immagini commoventi ancora oggi, grazie al capolavoro cinematografico “JFK” di Oliver Stone. Fotogrammi che destano grande commozione con le musiche magistrali di John Williams. La presidenza Kennedy (la 35ma negli Usa) durò poco meno di tre anni, stroncata, secondo la versione ufficiale, dal fucile italiano Carcano 6,5 mm (acquistato per corrispondenza) armato dalla mano criminale di Lee Harvey Oswald, ucciso a sua volta da Jack Ruby, Domenica 24 Novembre 1963, sotto lo sguardo attonito di cronisti e cameramen in presa diretta. JFK, come da allora sarà conosciuto nella storia, fu il Presidente della libertà e della pace mondiale. Seppe evitare la Terza Guerra Mondiale auspicata dai militari. Se oggi siamo vivi, se non siamo i pochi sopravvissuti dell’olocausto e dell’inverno nucleari, lo dobbiamo al Presidente Kennedy che preferì spedire l’Uomo sulla Luna. Grazie al filmato amatoriale del sarto Abraham Zapruder, nacque il giornalismo di prossimità e d’inchiesta. Ma l’America e il mondo non saranno mai più gli stessi. Lee Harvey Oswald, subito accusato di essere a capo del comitato “per un atteggiamento leale nei confronti di Cuba”, venne arrestato alle ore 13:50 del 22 Novembre in un cinema poco distante da Dealy Plaza. Alle ore 19 venne accusato di aver ucciso un poliziotto 38enne di Dallas ed alle ore 23:30 di aver assassinato il Presidente Kennedy nel quadro di una cospirazione “conservatrice”. Oswald venne ucciso dopo appena due giorni la morte di Kennedy, prima di venire portato in tribunale, senza che ci fosse stato il tempo di intentare a suo carico alcun processo. Fu ucciso all’interno del seminterrato della stazione di polizia di Dallas da Jack Ruby, il proprietario di un night club di Dallas, noto alle autorità per i suoi legami con la mafia. Ruby giustificò il suo gesto sostenendo di essere un grande patriota rimasto turbato dalla morte di JFK. Cinque giorni dopo la morte di Oswald, il Presidente Lyndon B. Johnson istituì la commissione d’inchiesta, che poi sarebbe passata alla storia come Commissione Warren perché presieduta dal giudice Earl Warren, per indagare sull’assassinio di JFK che venne sepolto presso l’attuale John Fitzgerald Kennedy Gravesite, ad Arlington in Virginia (Usa), il cimitero nazionale statunitense. I discorsi di Kennedy, il più giovane presidente americano, il primo dell’era televisiva e il più bravo del suo tempo nel riconoscerne il potere grazie al suo aspetto, al suo carisma ed alla sua abilità retorica, sono passati alla storia. Nel 1993, il libro “Case Closed: Lee Harvey Oswald and the Assassination of JFK” del giornalista investigativo Gerald Posner, analizzò le prove su cui si basano le principali teorie cospirative, concludendo che nulla di quanto si sa dimostra l’esistenza di un complotto contro il Presidente. L’opera è stata molto criticata dai Kennedy per avere omesso o interpretato soggettivamente fatti ed elementi tesi ad escludere la cospirazione contro JFK. “Se il nostro paese deve sopravvivere, il mito dell’uomo indispensabile dev’essere spezzato” – disse un giorno Haroldson Lafayette Hunt. A cinquant’anni dall’omicidio del Presidente, sono state rese due testimonianze che sembrano apporre ulteriori tessere a un complesso mosaico molto più vasto: quella di E. Howard Hunt e di Madeleine Duncan Brown. Entrambi hanno rilasciato dichiarazioni che sembrano combaciare su molti punti per avvalorare la tesi cospirazionista. Resta il fatto che la signora Brown si è spacciata per amante di Lyndon Johnson e Hunt addirittura dichiara di aver partecipato all’omicidio di JFK. Ma senza provare tali affermazioni. Nel 1994, avvalorando la tesi complottistica, il detenuto James Files, ex sicario della mafia di Chicago, dichiarò di aver partecipato all’assassinio di John F. Kennedy assieme al mafioso Charles Nicoletti, sparando il terzo colpo ferale dalla collinetta erbosa di Grassy Knoll in Dealey Plaza a Dallas. La testimonianza di James Files non è mai stata presa davvero in considerazione per l’attitudine del medesimo personaggio a reinterpretare i fatti. In Italia furono tre giorni di lutto (23-24-25 Novembre 1963) con le bandiere a mezz’asta, su disposizione della Presidenza del Consiglio. I telegrammi di Segni a Jacqueline Kennedy e al Presidente Lyndon Johnson. Il cordoglio di Leone e Moro. Il pianto di Nenni. La comunicazione della morte di Kennedy si sparse a Roma e in tutta Italia alla velocità della luce, suscitando un’ondata di profondo e sincero dolore in tutti gli ambienti. Il ricordo della visita ufficiale di Kennedy a Roma e Napoli, il 1° e il 2 Luglio 1963, era ancora molto vivo. Fu l’ultimo viaggio del Presidente in Italia e in Europa. Una sorta di addio di Kennedy al vecchio continente. Il viaggio in Italia fu interessante perchè coincise con un momento molto particolare per la gestazione politica italiana e il Vaticano. Il giorno prima era stato eletto papa Paolo VI, dopo la morte di Giovanni XXIII ed, ancora, il giorno prima era entrato in carica il Governo Leone, un monocolore democristiano. L’arrivo di Kennedy a Roma e Napoli si inserì in un momento storico di profonda trasformazione della politica italiana, europea e kennedyana. Il 10 Giugno 1963 Kennedy aveva elaborato una nuova strategia di pace che si sarebbe concretizzata con il nuovo il Trattato di non proliferazione nucleare. L’11 Giugno 1963 Kennedy aveva annunciato una nuova legge sui diritti civili. Qualche giorno dopo, durante la tappa berlinese del suo tour europeo, Kennedy aveva parlato davanti al muro di Berlino pronunciando il celebre discorso dell’“Io sono berlinese”. Si trattava senza alcun dubbio di un viaggio molto interessante proprio mentre le forze politiche italiane erano impegnate nella formazione del nuovo governo. Nei filmati d’epoca, pubblicati su Internet, è possibile ascoltare e vedere l’intervento del Presidente della Repubblica Antonio Segni. Accanto a Kennedy notiamo un giovane Giulio Andreotti, ministro della Difesa. Tra le prime strette di mano del Presidente sbarcato a Fiumicino alle ore 9:45 del 1° Luglio 1963, notiamo anche quella con il generale De Lorenzo. Appresa la conferma ufficiale della tragica fine di John Kennedy, il Presidente della Repubblica Italiana, Antonio Segni, dichiarò: “la ferale subitanea notizia della morte del Presidente Kennedy, ha colpito come una folgore il popolo italiano, la cui costernazione è accentuata dall’ancora vivissima eco della recente visita in Italia del grande scomparso. La Nazione italiana si associa con profonda e intima partecipazione al lutto dell’amica ed alleata America, lutto che investe il mondo intero; chè il mondo intero è stato testimone del diuturno sforzo con il quale il Presidente Kennedy, prima che mano assassina lo distogliesse brutalmente dal compimento della sua missione, ha dedicato se stesso e la sua politica alla fondazione di una base più solida, nell’interesse di tutti, per la convivenza tra i popoli nella libertà e nella giustizia. È scomparso un uomo di pace. In questo doloroso momento – scrisse il Presidente Antonio Segni – tutti coloro che della pace hanno fatto il loro supremo ideale dovranno stringere ancor più le loro file affinchè la grande opera da lui intrapresa sia continuata e condotta a termine nell’interesse di tutta l’umanità”. Nel telegramma inviato a Jacqueline Kennedy, il Presidente Segni dichiarò: “La tragica notizia della morte del Presidente Kennedy ha commosso l’intero popolo italiano che anche recentemente aveva espresso la calda simpatia che la sua nobile figura ispirava. A lei ed ai suoi figlioli giungano le condoglianze più sentite mie e di mia moglie. Preghiamo Dio onnipotente, che ha accolto nelle sue braccia la grande anima dello scomparso perché sia a lei ed ai suoi cristiano conforto e rassegnazione ai voleri dell’altissimo. Devotamente, Antonio Segni”. Al Presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, il Presidente Segni inviò il seguente telegramma: “Nefando attentato che ha reciso giovane vita Presidente Kennedy è un delitto contro l’umanità intera. La sua figura resterà nella storia come quella di uno strenuo difensore dei principi più elevati di libertà, pace e giustizia. Porgo alla nobile Nazione americana, cui ci uniscono indissolubili legami e nella quale si contano tanti cittadini di origine italiana, le più fervide sentite condoglianze a nome del popolo italiano e mio personale”. Il Presidente Segni dispose che fosse officiato un rito funebre al Quirinale in suffragio del Presidente Kennedy. La signora Laura Segni, appresa la notizia della morte del Presidente degli Stati Uniti, si recò nella cappella privata del Quirinale, dove rimase lungamente in preghiera. Universale fu la costernazione nel mondo politico italiano. Scrive Monsignor Loris Francesco Capovilla, già segretario particolare di papa Giovanni XXIII, sul Presidente americano John Kennedy, nel volume di Mauro Colombo e Rita Salerno, “Il giorno in cui ci svegliammo dal sogno” (edizioni Monti di Varese, pp. 230): “Nel terzo anno di Pontificato giovanneo (1960), il quarantacinquenne John Fitzgerald Kennedy venne eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Si disse allora che in ambienti cattolici, negli Usa e nel mondo, si temessero difficoltà a motivo dell’area religiosa del neopresidente, e che anche in Vaticano ci fosse chi gli avrebbe preferito Richard Milhous Nixon, candidato repubblicano. Secondo la prassi, il Papa inviò all’eletto un caloroso messaggio, senza dare rilievo al suo status di cattolico: «Mi congratulo con voi per la elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America. Con la preghiera che l’Altissimo Iddio voglia assistervi nel superare le difficoltà del vostro alto ufficio, esprimo cordiali sinceri auguri per il benessere vostro e della vostra famiglia e per la felicità e la prosperità dell’amatissimo Popolo Americano». Quattro eventi intrecciati a Papa Giovanni restano impressi nella memoria: l’aver Kennedy accolta con simpatia (condivisa da Nikita Kruscev) la mediazione papale sui generis, durante la crisi dei missili di Cuba; il valido apporto dato alla liberazione dell’arcivescovo ucraino Josyf Slipyj dalla segregazione impostagli dalle autorità dell’Urss; la presentazione della Pacem in Terris che volle fare lui stesso a Boston e la sua singolare testimonianza («Questa enciclica mi rende fiero di essere cattolico»); infine, il conforto procurato a papa Giovanni quasi morente, con lettera recata a mano dal cardinale Richard Cushing, in cui asseriva che l’Esecutivo americano si dissociava nettamente da commenti sfavorevoli, sollevati qua e là, sulle iniziative pastorali del Pontefice, riferiti in particolare alla situazione politica italiana ed europea. Per l’appoggio dato alla liberazione di Slipyj, a Natale 1962, a mezzo dello scrittore Norman Cousins, il Papa inviò a Kennedy una icona orientale. Il presidente, nel ringraziare, confidò di averla collocata nel suo appartamento privato. Tramite canali diplomatici ed ecclesiastici, Kennedy aveva fatto sapere che desiderava vivamente recarsi in Vaticano. Venne fissata la data, ma l’aggravarsi (maggio 1963) della malattia di Giovanni XXIII fece annullare la visita. Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963; John Kennedy venne assassinato sei mesi dopo. A cinquant’anni di distanza rivedo le mie note di quel giorno e dei successivi e le trovo conformi alle valutazioni che mi si son maturate dentro col passare del tempo. Qualunque cosa si pensi del presidente americano, ho la persuasione che l’altissimo ufficio avesse acceso in lui il corrispondente senso di responsabilità, che ne determinò il pensare e l’operare. Giovanni XXIII aveva apprezzato la conclusione, quale venne riportata dalla stampa di allora, del volume di Kennedy Profiles in courage: «Nel vivere, crescere ed essere fonte di la vera democrazia pone la sua fede nel popolo: fede che presuppone che il popolo non sceglierà semplicemente uomini che rappresenteranno le sue opinioni con abilità e fedeltà, ma eleggerà anche uomini che eserciteranno un giudizio coscienzioso; fede che presuppone che il popolo non condannerà coloro la cui devozione a un’idea condurrà ad agire in maniera impopolare, e saprà ricompensare il coraggio, rispettare l’onore e infine riconoscere il diritto…»”. Ci sono poi altri libri che hanno una strana natura. Si occupano di misteri, “cold case”. Magari vengono stampati e redatti in maniera altrettanto rocambolesca, segreta e clandestina. È il caso del volume ristampato da Nutrimenti, “Il Complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull’omicidio di JFK”(pp. 265), un lavoro a metà tra il giornalismo d’inchiesta e l’intelligence scritto dopo la conclusione delle indagini ufficiali della Commissione Warren (27 Settembre 1964) sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy. Il libro, firmato da un misterioso James Hepburn, venne pubblicato con il titolo “Farewell America” nel 1968 negli Usa e subito dopo in Francia e in Italia con il titolo “L’America brucia”. Il testo che circolava in forma semiclandestina (in Italia venne pubblicato da un piccolo editore vicino alla famiglia Agnelli) conteneva delle tesi esplosive ormai ben note: l’omicidio del Presidente più amato della storia americana e mondiale era l’esito di un complotto, non del gesto isolato di Lee H. Oswald, forse un agente della Cia. La manovalanza dell’omicidio era stata reclutata in quella zona grigia di connivenze che legavano i servizi segreti americani e la malavita, i mandanti sarebbero stati petrolieri e membri dell’establishment del complesso militare e industriale che Kennedy stava riconvertendo nell’impresa spaziale lunare che avrebbe sottratto risorse preziose all’industria della guerra in Vietnam. Il principale indiziato sarebbe stato il miliardario texano Haroldson Lafayette Hunt. E tutto questo prima che, a partire dal 1969, il procuratore distrettuale Jim Garrison rendesse noti alcuni dettagli della sua indagine, come l’analisi del filmato di Abraham Zapruder, e la teoria della misteriosa “pallottola magica”. James Hepburn, quindi, con le fonti di prima mano, complottiste quanto si vuole, che sarebbero diventate di dominio pubblico soltanto tempo dopo, avrebbe già risolto il caso del secondo millennio cristiano. Da decenni ci si chiede quale sia stata la genesi del piccolo pamphlet. La risposta offerta dalla curatrice dell’edizione, la giornalista Stefania Limiti, è che dietro l’inchiesta parallela ci fosse direttamente la famiglia Kennedy. I Kennedy diffidarono da subito dell’indagine ufficiale e si rivolsero a Daniel Moynihan, futuro Senatore dello Stato di New York. Non riuscendo Moynihan a cavare un ragno dal buco, si rivolsero ad amici d’Oltreoceano, ossia ai servizi segreti francesi ed allo stesso Generale De Gaulle, che poco amavano le grandi industrie petrolifere americane e i rapporti tra l’Oas e certi ambienti americani. Sarebbero così spiegate in gran dettaglio le informazioni presenti nel libro-dossier. Complotti, forse sì, ma di altissimo livello, perché quello che si trova nel testo, ahinoi, pare non sia ancora sufficiente a convincere alcuna Giuria del mondo, almeno fino all’Anno Domini 2017. Certo però che a leggerlo, pensando in che anno è stato scritto, si prova un nodo alla gola. Per conto di chi, come e perché fu ucciso JFK? La convergenza di interessi economici e politici dietro l’attentato è probabile. L’assassinio di JFK ha avuto fin dagli Anni Settanta del XX Secolo una troppo facile verità ufficiale, quella stabilita dalla commissione Warren, che identificò in Lee Harvey Oswald l’unico cecchino responsabile. Ma la dinamica della sparatoria, le lacune nelle indagini, i poteri coinvolti, spinsero i Kennedy a cercare un’altra verità. La controinchiesta fu sostenuta dal Generale De Gaulle e dai servizi segreti sovietici. Nacque così un dossier in forma di libro, intitolato “The Plot”, da cui emergeva, con nomi e cognomi, il quadro di una cospirazione ai danni del Presidente americano. Pubblicato nel 1968 da una casa editrice presto scomparsa con sede in Liechtenstein, il libro uscì nello stesso anno anche in Italia su richiesta di un misterioso committente. Poche copie che sfuggirono ai più ma non al giornalista Saverio Tutino, il quale arrivò a ipotizzare che la pubblicazione fosse avvenuta per scelta di Gianni Agnelli. L’edizione, a cura di Stefania Limiti, ripropone una parte dell’inchiesta segreta dei Kennedy con una dettagliata introduzione e un’intervista inedita a uno dei protagonisti della vicenda, William Turner, l’investigatore che lavorò con il Procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, il giudice immortalato dal regista Oliver Stone in “JFK – Un caso ancora aperto” (Usa, 1991) nella magistrale interpretazione di Kevin Costner. Nella postfazione Paolo Cucchiarelli mette a confronto la vicenda Kennedy con una tragedia italiana: la strage di piazza Fontana. “L’assassinio di Kennedy ha profondamente turbato la mia generazione e la nostra cultura – scrisse Oliver Stone nelle note di produzione del film JFK – penso che molti dei nostri problemi, la sfiducia nel governo, siano iniziati nel 1963. Da allora non abbiamo più creduto ai nostri leader. Gli americani sono diventati sempre più cinici. Non votano. I giovani non votano. Il Paese da allora ha conosciuto gli scontri razziali e una vera guerra civile”. Almeno fino all’avvento del Presidente Barack Hussein Obama che oggi ha l’onere di raccontare finalmente la verità al mondo sia sul caso Kennedy sia sulla presenza degli Alieni Extraterrestri. Il film JFK espone i fatti immediatamente precedenti all’assassinio del Presidente e le successive indagini di Garrison che dubita della tesi ufficiale della commissione Warren. Fu il più celebre dei tre film di Stone dedicati alle figure di Presidenti americani, tra cui ricordiamo “Gli intrighi del potere” con Anthony Hopkins nella parte del Presidente Nixon e “W.” con Josh Brolin nel ruolo di George W. Bush. La pellicola JFK si basa sulle opere d’inchiesta dello stesso Garrison e di Jim Marrs, dalle quali il regista trae una sceneggiatura ai limiti tra il documentario e l’orazione civile per denunciare una situazione di totale degrado della giustizia e del valore della verità negli Usa, fino al coinvolgimento delle più alte istituzioni statunitensi. Stone traccia con dovizia di particolari e un ritmo incalzante gli eventi che caratterizzarono la storia degli Stati Uniti di quegli anni. Delineato l’affresco storico, il regista racconta le indagini, prima personali e poi pubbliche, dell’unico Procuratore che, come tutti capiscono al termine del film, sia riuscito a portare in un’aula di tribunale il caso dell’omicidio del Presidente Kennedy. Punto focale del film e dei documenti di Garrison da cui trae spunto, è la tesi del complotto che si celerebbe dietro l’omicidio del Presidente, a dispetto della conclusione ufficiale cui giunse la Commissione Warren istituita dal governo, e cioè che il solo a sparare e ad uccidere Kennedy fu Lee Harvey Oswald. Secondo l’ipotesi di Garrison, la cospirazione sarebbe stata studiata e pianificata dai più alti vertici dei servizi segreti statunitensi, con la complicità di FBI e Forze Armate, in collaborazione con la mafia americana e con l’avallo dell’allora vicepresidente in carica Lyndon B. Johnson, allo scopo di poter proseguire la guerra del Vietnam, a vantaggio delle gerarchie militari e delle industrie belliche. Nel 1963, a seguito dell’assassinio del Presidente John Fitzgerald Kennedy, il procuratore distrettuale Jim Garrison decide di indagare su possibili collegamenti tra l’omicidio e certi loschi ambienti di New Orleans. Con il suo team di collaboratori controlla molte piste, la più importante delle quali conduce all’istrionico pilota di aerei privati David Ferrie. Ma Garrison è costretto a fermare le indagini quando il governo federale respinge formalmente l’inchiesta. Nel frattempo, il presunto unico esecutore materiale dell’assassinio di Kennedy, Lee Harvey Oswald, viene ucciso a sua volta da Jack Ruby prima di poter affrontare un processo. Garrison chiude ufficialmente le indagini. Nel 1966 l’investigazione viene riaperta, dopo una discussione in aereo tra Garrison e il Senatore Russell B. Long. Senza fare nomi, Long gli confida che nei piani alti del governo la morte di Kennedy era stata accolta favorevolmente da molti esponenti politici. Long mette in luce molte contraddizioni del rapporto ufficiale dell’inchiesta. Il Procuratore legge tutti i corposi fascicoli ufficiali della Commissione Warren e scopre numerose imprecisioni e molti passaggi superficiali. Assieme al suo staff interroga svariati testimoni diretti dell’omicidio di Kennedy. Tra questi, Willie O’Keefe, prostituto gay che sta scontando una pena in carcere. O’Keefe rivela di aver assistito personalmente ad una riunione nella quale Ferrie discuteva l’ipotesi di uccidere Kennedy con Clay Shaw, Oswald ed altri esuli cubani anticastristi. Con una serie di altri lunghi interrogatori, Garrison arriva alla conclusione che Oswald non poteva aver agito da solo: alle sue spalle, una complicata vicenda che emerge solo a brandelli, in cui il giudice scorge l’ombra delle più alte istituzioni del governo americano, dell’esercito, esponenti della mafia, della CIA e dell’FBI. Nel 1969 Garrison ha modo di dimostrare le proprie tesi e i difetti delle conclusioni della Commissione Warren, processando Clay Shaw. Con il contributo della visione in aula del celebre filmato di Zapruder, propone uno scenario con tre diversi esecutori che avrebbero potuto sparare e uccidere Kennedy con un fuoco incrociato di 6 pallottole in totale. Il giudice Garrison proscioglie Shaw da ogni accusa poiché non riesce a dimostrare che egli facesse parte della CIA e conoscesse Oswald e Jack Ruby. Mentre esce dal tribunale, Garrison afferma davanti ai giornalisti di voler continuare la sua battaglia per la verità. Zachary Sklar, giornalista e docente di giornalismo alla Columbia School of Journalism, incontrò Garrison nel 1987 e lo aiutò nella revisione di un manoscritto sull’assassinio di Kennedy al quale il giudice federale stava lavorando da diversi anni. Sklar ne modificò l’impostazione scolastica in terza persona trasformando il tutto in una “detective story” narrata in prima persona. Il libro di Garrison venne poi pubblicato nel 1988. Mentre si trovava al Latin American Film Festival di L’Avana, a Cuba, Stone incontrò in ascensore l’editrice Ellen Ray della Sheridan Square Press. La donna si era occupata della pubblicazione del libro di Jim Garrison “On the Trail of the Assassins”. Nel 1967 la Ray era stata a New Orleans ed aveva lavorato con Garrison. Fu lei a dare una copia del libro a Stone consigliandogliene la lettura. Il regista lo lesse mentre stava lavorando alla sceneggiatura del film “Nato il quattro luglio” e rimase affascinato dalla storia affrettandosi ad acquistare di tasca propria i diritti del libro per la somma di 250mila dollari con in mente il progetto di farne una trasposizione cinematografica. L’omicidio di Kennedy era da sempre una delle ossessioni di Stone che racconta: “L’assassinio di Kennedy fu uno di quegli eventi epocali che segnarono la generazione del dopoguerra, la mia generazione”. Stone conobbe Garrison e gli porse una grande quantità di domande in un incontro che durò circa tre ore. Garrison rispose alle domande di Stone e poi se ne andò. L’orgoglio e la dignità dell’uomo impressionarono fortemente il regista. L’impressione di Stone avuta dall’incontro fu che Garrison “anche se aveva commesso numerosi errori, fondamentalmente era dalla parte del giusto”. Stone non era interessato a fare un film biografico sulla vita di Garrison, ma piuttosto voleva raccontare i retroscena della cospirazione ordita per uccidere il Presidente Kennedy. Per poter attingere da altre fonti, il regista si assicurò anche i diritti del libro di Jim Marrs “Crossfire: The Plot That Killed Kennedy”. Uno degli obiettivi principali di Stone attraverso JFK era quello di fornire una realtà alternativa alla versione ufficiale messa in piedi dalla Commissione Warren che egli riteneva essere “un gran mito, e per contrastare un mito, forse bisogna crearne un altro, un contro-mito”. Anche se il libro di Marrs collegava tra loro svariate teorie, Stone voleva sapere di più ed assunse Jane Rusconi, fresca di laurea alla Yale University, per guidare un team di ricercatori ed assemblare maggiori informazioni sulle possibili teorie del complotto. Stone lesse due dozzine di libri e saggi sull’assassinio di Kennedy, mentre la Rusconi ne lesse più di cento. Nel Dicembre 1989, Oliver Stone iniziò ad avvicinare vari studios hollywoodiani per la produzione del film. Alla fine, si accordò con la Warner Bros. che stanziò venti milioni di dollari di budget per la pellicola, poi saliti a quaranta in sede definitiva. Quando Stone iniziò la stesura del copione, chiese a Sklar che aveva supervisionato anche il libro di Marrs, di scriverla insieme a lui cercando di riassumere il contenuto dei libri di Garrison, Marrs e le ricerche fatte dalla Rusconi. Per condensare il tutto in una sceneggiatura cinematografica di (sono le parole del regista) “un grande detective movie”. Stone illustrò a Sklar la sua personale visione del film. Anche se il regista utilizzò spunti presi da Rashomon, la sua fonte principale per JFK fu il film di Constantin Costa-Gavras, “Z – L’orgia del potere. Certe volte avevo l’impressione che in Z venisse mostrato il fatto criminoso e poi fatto rivedere ancora e ancora per tutta la durata del film fino a quando non lo si vedeva sotto una luce differente. Questa era l’idea per JFK, l’essenza del film: per questo lo chiamai JFK e non J.F.K.: JFK era un codice, come anche Z era una sorta di codice”. Stone spezzettò la struttura del film in quattro sottotrame principali: l’investigazione di Garrison sulle connessioni tra New Orleans e l’assassinio di Kennedy; l’indagine che rivela come, secondo Stone, Lee Harvey Oswald fosse stato solo un capro espiatorio; la ricostruzione meticolosa dell’omicidio del Presidente a Dealey Plaza e le sensazionali rivelazioni che il personaggio di X confida a Garrison, che per il regista sono le vere motivazioni dell’attentato. Sklar lavorò sulla parte di storia relativa alle indagini di Garrison, mentre Stone aggiunse la storia relativa a Oswald, gli eventi accaduti a Dallas in Dealey Plaza e il personaggio di Mr. X. Sklar passò un anno a fare ricerche e scrisse una bozza di sceneggiatura di circa 550 pagine che Stone riscrisse e condensò in un copione cinematografico. Per dare maggiore risalto e credibilità alla storia, Stone e Sklar ricorsero anche all’uso di personaggi di finzione, come Mr. X interpretato da Donald Sutherland o il marchettaro Willie O’Keefe di Kevin Bacon. Questa tecnica sarebbe stata fortemente criticata dalla stampa in seguito, anche se Stone si difese affermando che il personaggio di X era parzialmente ispirato al realmente esistente L. Fletcher Prouty, colonnello in pensione della United States Air Force. JFK uscì nelle sale il 20 Dicembre 1991. Gli incassi del film partirono a rilento ma progredirono velocemente. Alla prima settimana del Gennaio 1992, JFK aveva già totalizzato più di 50 milioni di dollari nel mondo. Con il passare del tempo, incassò 205 milioni di dollari nel mondo e 70 milioni nei soli Stati Uniti nel primo periodo di programmazione. A seguito dell’enorme successo della pellicola, gli eredi di Garrison, nel frattempo deceduto poco tempo dopo l’uscita del film, intentarono una causa legale alla Warner Bros. per ricevere una parte dei profitti, ma la causa si risolse in un nulla di fatto. Il film iniziò a provocare controversie fin dalla sua lavorazione, diventando sempre più oggetto di forti critiche man a mano che la produzione procedeva. A poche settimane dall’inizio delle riprese, il 14 Maggio 1991, Jon Margolis scrisse sul Chicago Tribune che JFK era “un insulto all’intelligenza”. Cinque giorni dopo, il Washington Post pubblicò un articolo duro nei confronti del film, opera del corrispondente della sicurezza nazionale George Lardner, dove la prima stesura del copione veniva utilizzata per stigmatizzare “le assurdità e le vere e proprie menzogne” contenute nel libro di Garrison al quale era ispirato JFK. L’articolo poneva l’accento sul fatto che Garrison aveva perso la causa intentata a Clay Shaw e di come egli cercò di screditare Shaw utilizzando come pretesto l’omosessualità di quest’ultimo come prova della sua colpevolezza. Anthony Lewis del New York Times affermò che il film “distorceva enormemente la realtà piegandola ai fini sensazionalistici della sceneggiatura” e come anche la figura storica stessa del Presidente Kennedy ne uscisse manipolata. Da parte sua, per difendersi dalle critiche, il regista iniziò un periodo di presenzialismo televisivo (anche in Italia) apparendo in numerosi talk show per difendere l’opera, rispondere alle critiche e proclamare il suo diritto alla libertà di espressione artistica. Quando infine il film uscì nelle sale, l’enorme successo di pubblico ebbe l’effetto di smorzare le critiche. Ma lo scalpore suscitato dalla tesi del complotto contenuta nella pellicola JFK, portò alla redazione dell’atto di legge “President John F. Kennedy Assassination Records Collection Act of 1992”, conosciuto anche semplicemente come JFK Act, ed alla formazione di una commissione d’inchiesta denominata “U.S. Assassination Records Review Board” incaricata di riesaminare l’inchiesta successiva all’omicidio di Kennedy. La legge venne firmata dal repubblicano Presidente George H.W.Bush alla fine di Ottobre 1992. La commissione operò fino al 1998. Furono ascoltati nuovi testimoni mai presi in esame all’epoca dei fatti, inclusi molti medici che avevano visitato il cadavere del Presidente Kennedy. Il governo degli Stati Uniti acquistò ufficialmente il filmato di Abraham Zapruder, in precedenza proprietà della Time-Life Corporation, e rese pubblici alcuni documenti relativi all’attentato poco prima dichiarati Top Secret. Per effetto della nuova commissione, inoltre, tutti i restanti documenti sull’assassinio di Kennedy saranno resi di pubblico dominio nel 2017 anziché nel 2029 come aveva invece stabilito la precedente Commissione Warren. Grazie a Oliver Stone. Quando l’arte muove il mondo. JFK è stato pubblicato in formato vhs, laser disc e svariate volte in dvd. L’unica versione del film mai pubblicata in versione dvd e blu-ray negli Stati Uniti è la quella estesa della Director’s Cut. La versione uscita nei cinema è stata pubblicata in dvd soltanto in altri Paesi esteri, inclusa la Gran Bretagna. Nel 2001, la versione Director’s Cut di JFK è stata pubblicata come parte del cofanetto “Oliver Stone Collection” a due dischi. Stone contribuì a questa edizione con diversi contenuti speciali, incluso un suo commento audio, due speciali sul film e 54 minuti di scene tagliate o estese. L’11 Novembre 2008 il film è stato pubblicato in formato blu-ray. Il disco comprende numerosi contenuti extra inclusi quelli presenti nelle precedenti uscite dvd, con l’aggiunta del documentario “Beyond JFK: A Question of Conspiracy”. Nel cast è presente anche Jim Garrison in carne e ossa, poi scomparso nel 1992, che interpreta il ruolo di Earl Warren, capo dell’omonima commissione che indagò sul caso e la cui tesi fu aspramente attaccata proprio dallo stesso Garrison. Per ricreare la Dealey Plaza di Dallas del 1963, così com’era ai tempi dell’omicidio di Kennedy, lo scenografo Victor Kempster riportò il Texas School Book Depository (oggi meta di pellegrinaggio mondiale) all’aspetto esterno originario dell’epoca, fece rimettere i binari della ferrovia dietro la collinetta erbosa sede degli altri presunti killer di Kennedy e fece potare gli alberi per riportarli all’altezza in cui vegetavano nel ‘63. Abraham Zapruder (1905-1970) era un sarto statunitense di origine ebraica, divenuto celebre per aver ripreso con una cinepresa 8 millimetri il corteo presidenziale di John Fitzgerald Kennedy a Elm Street nel momento dell’omicidio del Presidente degli Stati Uniti. Nel ‘63 Zapruder era un cinquantottenne residente nella città di Dallas. Nato in Russia ed emigrato negli Stati Uniti nel 1920, aveva lavorato a New York come assistente di un sarto e, trasferitosi nel Texas nel 1941, aveva intrapreso una piccola carriera imprenditoriale. Nel 1949 fondò la Jennifer Juniors, una ditta di confezione di abiti creata con il socio Irwin Schwartz. La piccola azienda, nel 1963, impiegava Marilyn Sitzman come receptionist, Beatrice Hester in veste di impiegata amministrativa e Lillian Rogers come segretaria. Aveva sede al 501 di Elm Street, al quinto e al sesto piano del Dal-Tex Building, il palazzo costruito accanto al tristemente celebre Deposito dei libri della Texas School. La mattina del 22 novembre 1963 Zapruder andò al lavoro e, pur sapendo della parata presidenziale che gli sarebbe passata sotto l’ufficio, decise di non portare con sé la cinepresa acquistata nel 1962, una Bell&Howell Zoomatic Director Series otto millimetri modello 414 PD. Fu proprio Marilyn Sitzman a convincerlo a tornare a casa per prenderla: così facendo avrebbe potuto filmare il Presidente John Fitzgerald Kennedy e la consorte per mostrarli ai figli ed ai nipoti. Sceso in Dealey Plaza con la signora Sitzman, il sarto Zapruder si mise alla ricerca del miglior luogo da cui filmare il passaggio del corteo. Individuò, in cima al terrapieno sul lato destro di Elm Street, un muretto di cemento e decise di salirvi sopra per documentare il passaggio di JFK con la sua cinepresa. In ventidue secondi (gli altri quattro che compongono i ventisei totali non riguardano il corteo presidenziale) impressi su una pellicola 8 millimetri Abraham Zapruder filmò la scena storica. Accortosi della tragedia che aveva appena documentato, Zapruder tornò sconsolato verso il suo ufficio, passando davanti all’entrata del Deposito dei libri da cui, secondo la commissione Warren, erano partiti gli spari. Nel breve tragitto incontrò il giornalista Harry McCormick del Dallas Morning News e gli raccontò di aver ripreso l’attentato. McCormick si mise d’accordo per andarlo a trovare nel pomeriggio in ufficio ma si premurò di informare immediatamente della cosa Forrest Sorrels, un agente del servizio segreto di Dallas. Schwartz, il socio di Zapruder, telefonò in ufficio pochi minuti dopo l’attentato e parlò con la segretaria. Si fece passare Zapruder che, in lacrime, gli disse: “Irwin, ho filmato tutto. Ho visto la sua testa esplodere!”. Schwartz si precipitò in ufficio e, poco dopo, arrivarono anche McCormick e Sorrels. Insieme a due poliziotti del dipartimento di Dallas si recarono alla redazione del Dallas Morning News, poiché McCormick era certo che l’ufficio disponesse dell’apparecchio per riprodurre il nastro. Ma non era così, quindi i quattro, accompagnati dagli agenti, si recarono nel palazzo accanto, quello della rete televisiva WFAA. Non appena arrivò, Zapruder fu fatto sedere accanto al direttore delle news di WFAA, Jay Watson, e intervistato in diretta televisiva. Zapruder raccontò ciò che aveva visto attraverso la lente della cinepresa. Disse di aver sentito un colpo e, poco dopo, un altro sparo o altri due. Alla fine dell’intervista McCormick disse che solamente la Kodak poteva sviluppare il filmato e fu costretto a tornare in città alla notizia dell’arresto di un sospetto, Lee Harvey Oswald. Poco dopo, nello stabilimento della Kodak a Dallas, Zapruder e Schwartz videro per la prima volta il film dell’assassinio, aiutati da un impiegato di nome Phil Chamberlain, alla presenza di una decina di persone della Kodak. Furono fatte tre copie del filmato, due delle quali vennero consegnate dallo stesso Zapruder, la sera del 22 Novembre, agli agenti del servizio segreto presso la Centrale di polizia di Dallas. Nel pomeriggio del 22 Novembre si erano già mossi gli organi di stampa: il più veloce fu Richard Stolley, un dirigente della casa editrice proprietaria del periodico Life, intenzionato ad acquisire i diritti del filmato. La mattina del 23 Novembre 1963 Stolley si recò nell’ufficio del sarto e trattò la cessione dei diritti. Dopo una breve discussione Stolley offrì 50mila dollari, cifra accettata da Zapruder, per poter riprodurre i fotogrammi del filmato. Il giorno successivo l’editore di Life, C.D. Jackson, pagò a Zapruder altri 150mila dollari per acquistare i diritti di riproduzione televisiva e cinematografica. Fu ancora Stolley a trattare con Zapruder e da questa trattativa scaturì un fatto spesso interpretato come “copertura di un complotto”. Secondo la versione ufficiale, in realtà non corrisponde al vero che il filmato sia stato nascosto agli occhi della pubblica opinione per non doversi arrendere all’evidenza di una cospirazione, anche perché le immagini non mostrerebbero l’esistenza di due o più sparatori in Dealey Plaza: si trattò di un accordo economico privato tra il proprietario del filmato e un editore. Fu poi C.D. Jackson che ritenne, autonomamente e in maniera opinabile, il pubblico non pronto a vedere le immagini e decise di conservare per qualche anno la pellicola negli archivi della Time-Life Corporation, limitandosi a pubblicare quei fotogrammi che non mostravano l’esplosione del cranio del Presidente. Abraham Zapruder donò immediatamente 45mila dollari alla vedova del poliziotto J.D. Tippit, l’agente ucciso, secondo le inchieste seguite all’attentato, da Lee Harvey Oswald pochi minuti prima del suo arresto. Tra il Novembre 1963 e il Gennaio 1964 l’FBI esaminò, per conto proprio prima e insieme alla Commissione Warren poi, una copia del filmato. Si stabilì che la cinepresa impressionava 18,3 fotogrammi al secondo e il documento fu usato per completare il quadro probatorio a carico di Lee Harvey Oswald. Il 30 Agosto 1970 Abraham Zapruder morì. Senza volerlo era diventato una superstar del giornalisto d’inchiesta: non si prestò a diventare il simbolo di questa o quella bandiera, si espose solo per confermare la veridicità del suo documento filmato quando il Procuratore distrettuale Jim Garrison lo volle utilizzare per perseguire Clay Shaw, poi giudicato estraneo alla vicenda al termine del celebre processo. Qualche ricercatore lo iscrisse d’ufficio al “partito dei complottisti”. Ma al sarto giornalista Zapruder si possono solo attribuire due convinzioni: la prima è che affermò di aver sentito due o tre colpi; la seconda è che, nella sua testimonianza davanti alla Commissione Warren, ribadì di non essere in grado di stabilire la fonte degli spari: “C’era un riverbero troppo forte, l’eco faceva sentire i colpi come se arrivassero da tutte le direzioni”. Cinque anni dopo la morte di Zapruder la testata Life restituì i diritti alla sua famiglia mentre l’originale del filmato finì, per essere conservato con maggior cura, negli Archivi Nazionali americani. Il 3 Agosto 1999 il Dipartimento di Giustizia staccò un assegno di 16 milioni di dollari a beneficio degli eredi di Zapruder per l’acquisizione da parte del Governo del documento. Occorre ricordare l’intervento del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, del 1° Luglio 2008, pronunziato a Roma, alla presenza del “cervello” sacro del potere Henry Kissinger, in occasione della conferenza internazionale “Italy, Europe and the U.S. – The Transatlantic link and its future”, in memoria di Gianni Agnelli e John Kennedy, per capire il profondo legame esistente tra Usa e Italia. “Per una singolare coincidenza, che nel mio personale ricordo ha assunto un suo significato – dichiarò il Presidente Napolitano – accadde che incontrassi per la prima volta Gianni Agnelli proprio a New York. Era quella, nella primavera del 1978, anche la prima volta che visitavo gli Stati Uniti, col proposito di conoscere più da vicino quel mondo e di suggerire un’idea non convenzionale del cammino della sinistra italiana. Per Gianni Agnelli, era invece solo una delle innumerevoli tappe del suo continuo muoversi tra le due sponde dell’Atlantico, nel segno di un duplice amore, per l’Italia e per l’America, e così sempre di più, di fatto, rappresentando oltreoceano il nostro Paese, nel suo profilo più moderno, più dinamico e accattivante. Da quel giorno, dopo quel mio primo incontro con “l’Avvocato”, molti altri ce ne sarebbero stati, in un rapporto – credo di poter dire – di reciproca attenzione, stima e simpatia. E allora, come si potrebbe meglio che nel nome di Gianni Agnelli riflettere su quel che ha legato e lega Stati Uniti e Italia, noi italiani e l’America, in un vincolo di solidarietà e alleanza che si è venuto intrecciando sempre di più con quello tra Europa e Stati Uniti? Noi Italiani, noi Europei, non dimenticheremo mai la parte che ebbero le forze armate americane, con un costo di vite umane ingente, nella liberazione del nostro Paese, e di tutta l’Europa, dal dominio nazista. Se mi è consentita una testimonianza personale aggiungerò che egualmente non posso dimenticare quale rapporto di compenetrazione e simpatia si stabilì tra la popolazione e le truppe americane che rimasero a lungo nella città di Napoli, dopo averla liberata il 1° Ottobre 1943, e condivisero la drammatica condizione umana in cui la guerra l’aveva precipitata. L’intervento americano, nel secondo come nel primo conflitto mondiale, fu determinante per le sorti dell’Europa, e fu prova di un legame dell’America con il vecchio continente che aveva profondissime radici. Ed è motivo di orgoglio per noi che, dopo la caduta del fascismo, gli Italiani abbiano partecipato, con la cobelligeranza e con la Resistenza, di militari e di civili, alla lotta per la Liberazione. Quando le forze politiche italiane, dopo il voto popolare da cui nacque la nostra Repubblica, seppero, sulla base di valori comuni radicati nell’antifascismo, tenere a freno i dissensi politici e ideologici per dare vita insieme, con coraggio, alla nostra Costituzione, esse si collocarono, consapevolmente, nella scia della lunga storia della democrazia moderna. Sappiamo bene che questa storia ebbe uno dei suoi punti di partenza nella Rivoluzione americana e nei grandi principi di libertà e di uguaglianza fra tutti i cittadini su cui si fondava la giovane democrazia che ne era nata, ispirandosi a sua volta a ideali illuministi e cristiani, espressione della civiltà europea. Ci riesce talvolta difficile – osservò il Presidente Napolitano – non considerare la storia americana come un capitolo di storia europea. A sua volta, ancora negli anni del dopoguerra, l’America – dapprima con il Piano Marshall, da cui venne, insieme con una straordinaria prova di solidarietà, l’impulso a una prima concertazione di sforzi in Europa, e quindi con la dichiarata simpatia per il progetto comunitario – mostrò di guardare all’Europa con un istinto di partecipazione alle vicende del vecchio continente che è molto più della semplice espressione di puri interessi politici. Poi fu la Guerra fredda, che divise l’Europa, e anche l’Italia, in due campi politici. Nacque, non senza una forte contrapposizione nel nostro Paese, l’Alleanza Atlantica. Ma ebbe presto inizio anche un intenso, a mio avviso ancora oggi esemplare processo di negoziati per il controllo degli armamenti che si protrasse per decenni e che diede vita a un succedersi di trattati, fondamento di quella che fu chiamata la coesistenza pacifica tra le grandi potenze. Le tensioni, internazionali ed interne, si attenuarono. In Italia si giunse, attraverso una graduale evoluzione degli orientamenti e dei “clivages” politici, a una larghissima condivisione delle grandi scelte che avevano segnato la nostra collocazione internazionale: Comunità Europea e Nato. Venne meno, in sostanza, anche nella sinistra di opposizione, l’antiamericanismo ideologico. La grande maggioranza degli italiani si riconobbe via via in un ricco patrimonio di valori comuni : in quello spazio politico che chiamiamo Occidente, come luogo della democrazia politica e del pluralismo economico, sociale e culturale, i cui principi hanno finito per estendersi a tutto il Continente, quasi interamente riunificato nell’Unione Europea. Il cammino dell’integrazione e dell’unità politica dell’Europa rimane ancora incompiuto; ha conosciuto e continua a conoscere battute d’arresto. Ma non ho dubbi che operino a suo sostegno ragioni e spinte oggettive profonde. E non è soltanto la storia passata che ci spinge a completare, passo dopo passo, la costruzione delle istituzioni comuni capaci di garantire il progresso economico, sociale e civile dell’Europa unita: ma è anche la coscienza che i popoli europei potranno salvaguardare i loro interessi e i loro valori, e dare un contributo peculiare al governo globale in un mondo di pace, soltanto se sapranno esprimere la loro volontà e capacità d’azione unitaria. Nel quadro così complesso del nostro tempo si propone in modo nuovo anche il legame, storicamente fortissimo, fra America ed Europa, e oggi, fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea in quanto tale, come ci dicono anche i periodici summit e le dichiarazioni comuni che ne scandiscono il dialogo. Se tuttavia emergono talvolta ancora legami particolari, privilegiati, fra Washington e questa o quella capitale europea, ciò si deve, a mio avviso, soprattutto alla difficoltà che ancora troviamo noi Europei per esprimere una solida politica comune. Ma confido che non sia troppo lontano il momento in cui, per parlare con l’Europa, il Presidente degli Stati Uniti, o il Segretario di Stato, disporrà di un singolo numero di telefono cui rivolgersi, e troverà all’altro capo della linea telefonica chi sappia e possa rispondergli rappresentando e impegnando l’Unione nel suo insieme. Comprendo quanto sia complicato e talvolta difficile il dialogo dell’America con una Unione di Stati ancora sovrani. Ma credo che l’America debba incoraggiare, anche nel suo stesso interesse, l’Europa a non funzionare come mera “collection of nation-states” bensì come entità politica unitaria. È così che possono meglio consolidarsi le relazioni transatlantiche rendendo vitale l’Alleanza che le suggellò. Non lo disse forse già nel 1963 il Presidente Kennedy? Cito le sue parole: “È solo una Europa pienamente coesa che può proteggerci tutti da una frammentazione dell’Alleanza. Solo una simile Europa consentirà una piena reciprocità di trattamento attraverso l’oceano nel far fronte all’agenda Atlantica. Solo con una simile Europa potremo realizzare un pieno rapporto di dare e avere tra eguali, una eguale ripartizione di responsabilità, e un uguale livello di sacrificio”. Oggi come non mai – disse il Presidente Napolitano – sentiamo quanto debba ancora rafforzarsi quella coesione, e il senso di una identità comune, dell’Europa, affinché l’Unione possa esprimere sulla scena mondiale – ai fini della resistenza a minacce gravi come è nella fase attuale il terrorismo, e quindi ai fini del mantenimento della pace e dell’avanzamento economico e sociale di tutti i popoli, in modo particolare di quelli più poveri, tutto il suo peso, non soltanto economico. È vero: la nostra è ancora una “Europa in transizione”, come Lei, caro Kissinger, l’ha definita. E ciò crea difficoltà sul terreno di un impegno comune fra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America per la sicurezza mondiale. Ma non regge la polemica distinzione fra “Marte e Venere”. Si è manifestata in Europa in misura crescente la consapevolezza dell’impossibilità di fare esclusivo affidamento sulla forza degli Stati Uniti per fronteggiare sfide molteplici e crisi acute, la consapevolezza cioè del non poterci sottrarre alle nostre responsabilità in senso globale. È quel che dimostra la forte e costruttiva presenza europea, e segnatamente italiana, in missioni multilaterali di stabilizzazione di numerose aree, a noi vicine e lontane, in cui sono insorti conflitti e permangono pericolose tensioni. Una presenza anche militare – dichiarò Giorgio Napolitano – con uno spiegamento di uomini e mezzi mai raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. L’Europa nel suo insieme ha riconosciuto e riconosce di dover rafforzare la sua “capability” militare, anche per rendere credibile una sua identità di sicurezza e di difesa, e una sua politica comune in questo campo. Nonostante le difficoltà finanziarie e di altra natura che a ciò fanno ostacolo soprattutto in alcuni dei nostri Paesi, dobbiamo riuscirvi, pur nel calcolo realistico dei limiti entro cui può concepirsi un apprezzabile impegno militare europeo nel panorama mondiale. Abbiamo, europei e americani, grandi obbiettivi comuni da perseguire, e lo spostarsi del baricentro degli affari internazionali, il mutare degli equilibri tra le grandi aree continentali, nulla tolgono al significato e all’essenzialità dei rapporti e dell’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico. In questo spirito, possiamo ben discutere e affrontare serenamente le differenze di approccio tra europei e americani sui complessi problemi di un nuovo ordine mondiale: sull’evoluzione del ruolo della Nato; sul rapporto tra il ricorso alla forza e la ricerca di soluzioni negoziali; sull’equilibrio e sulla sinergia tra gli strumenti militari e quelli civili cui ricorrere nelle aree di crisi; ed anche sul rapporto, cui attribuiamo grande importanza, fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea da un lato e la Russia dall’altro, una Russia potenza europea ed asiatica, oggi mossa da rinnovate ambizioni ma pur sempre consapevole dell’importanza vitale, nel suo stesso interesse, e nell’interesse del mantenimento della pace nel mondo, di un continuo rafforzamento dei legami economici e istituzionali con l’Unione e con gli Usa, indispensabili per il suo stesso progresso. Il nostro sguardo, di europei e americani, deve comunque farsi più comprensivo e dirigersi più lontano. La complessità e contraddittorietà del processo di globalizzazione, il rapporto tra le opportunità e i benefici che esso porta con sé e le insoddisfazioni e le inquietudini che provoca, l’emergere di nuovi grandi attori sulla scena mondiale, il manifestarsi di diversità storiche, sociali, religiose di grandissimo impatto: tutto ci spinge a misurarci con dilemmi che non sono soltanto economici ma richiedono grande sapienza politica e grande apertura culturale. Penso che in questo senso abbiamo entrambi, europei e americani, fondamentali risorse di civiltà e di esperienza cui attingere. Se, come lei, caro Kissinger, scrisse non molti anni fa, “la sfida per l’America sta in ultima istanza nel trasformare la sua potenza in consenso morale”, la sfida per l’Europa sta nel far pesare, con uno sforzo nuovo di unità, le sue potenzialità al di là dei limiti in cui restano ancora ristrette. No, non sono soltanto le nostre radici, pur così forti; non sono soltanto i nostri valori comuni, a volere che rimaniamo uniti, e che insieme esprimiamo capacità di leadership e cultura, nel segno di un’incrollabile fede nella forza della libertà e della democrazia. Non è solo il passato, è anche il futuro, un futuro quanto mai incerto, che ci chiama a questa prova solidale”. Se così non fosse, avrebbero ragione Jim Garrison (cf. arringa finale del processo) e il regista Oliver Stone nel dichiarare che “in America lo Stato ha tradito la Costituzione, ha ucciso Kennedy e ha occultato le prove. Il problema del mio Paese è un problema comune a molti altri Paesi, forse anche all’Italia. È il problema del popolo contro lo Stato. Nel mio Paese lo Stato ha occultato le prove e continua a farlo”.
Nicola Facciolini
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