La marcia di Natale

A Pompei fin verso la fine degli anni Settanta veniva allestito il Presepe dei figli dei carcerati, una struttura sotterranea e labirintica, dove in molte scene c’erano solo suppellettili e strumenti di lavoro, sedie, forni, cesti, botti, sacchi di farina… dove la presenza dei soli oggetti della realtà quotidiana e l’assenza di personaggi creava un […]

presepe_Pellaloco_2011_2A Pompei fin verso la fine degli anni Settanta veniva allestito il Presepe dei figli dei carcerati, una struttura sotterranea e labirintica, dove in molte scene c’erano solo suppellettili e strumenti di lavoro, sedie, forni, cesti, botti, sacchi di farina… dove la presenza dei soli oggetti della realtà quotidiana e l’assenza di personaggi creava un senso di inquietante disagio. Bene ce lo racconta Roberto De Simone nelle sue pagine sul presepe napoletano, che della vita (e della morte che nella vita siamo così bravi a portare) tutto ci narra.
Per quel cenno sotterraneo, che ricorda chi è in carcere, non c’è più spazio nei nostri presepi, un po’ meno ricchi di simbologie e verità. Ma la brutta verità del carcere rimane, nelle sue peggiori articolazioni ed espressioni, e per ricordarlo il 25 ci sarà la marcia per l’amnistia, voluta dai Radicali, ma che giorno dopo giorno va affollandosi di “parteciperò”. Parteciperò anch’io, magari dietro lo striscione contro l’ergastolo di quelli della Comunità Papa Giovanni XXIII, e con un “voto” in più, perché se l’affollamento delle nostre carceri è una “prepotente urgenza”, e ben venga il decreto del governo, oggi il rischio è che questo lasci in ombra altri, altrettanto gravi, momenti critici della pena e della sua esecuzione. Mi riferisco non solo all’ergastolo ma anche a quel meccanismo di norme che produce l’ostatività, che è l’esclusione dall’applicazione dei benefici di legge per chi, accusato di reati associati a mafia e quant’altro, non sia stato collaboratore di giustizia. Insomma l’art.4bis, che applicato a chi sia condannato all’ergastolo si traduce in un fine pena mai effettivo. Condizione in cui si trova più di un terzo degli ergastolani italiani. Con buona pace di chi continua a dire che l’ergastolo in Italia non lo sconta nessuno. Parteciperò anche per questo, perché molti di questi “cattivissimi” ho conosciuto, e di loro continuo ad occuparmi scoprendo, giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, l’inferno della morte viva. Sì, la chiamano così… Persone in carcere da venti, trenta e più anni, senza alcuna speranza di uscirne. E la domanda è se questo abbia un senso. E quale.
I primi “cattivi” li ho incontrati nel carcere di Padova, il Due Palazzi. Quelli del circuito dell’alta sicurezza. Che sono vite invecchiate, in celle di solitudine. I loro sguardi…, ecco non riesco a liberarmi di quegli sguardi, delle molte parole di chi era lì a fremere per parlare e raccontarsi e chiedere del senso della pena, se l’assunto è “cattivi per sempre”…
Ma soprattutto non riesco a liberarmi dei molti silenzi di chi non ha più parole… Sguardi e silenzi che urlano una domanda: perché ci è negata la speranza? La speranza di dimostrare che si è cambiati. Una speranza che non passi necessariamente per l’essere “collaboratore di giustizia”. Che significa magari mettere in pericolo la vita dei familiari, ad esempio. Che è scelta processuale ( ed è strumento delicato e complesso) e non necessariamente dimostrazione di pentimento vero, come la cronaca del processo Borsellino insegna…
Sguardi, silenzi, parole, e un unico accento, in tutte le sfumature del sud… E forse ha proprio ragione chi suggerisce che questo vorrà anche significare che la ‘questione meridionale’, se ancora esiste, passa anche per la questione meridionale delle carceri. Queste nostre carceri, dove c’è un suicidio ogni 6 giorni, e proprio un giorno che ero fra gli uomini dell’AS1 di Padova, qualcuno, si sussurrava, quella notte se ne era andato, e la parola pronunciata a bassa voce era ancora, forse, suicidio…
Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, si impara. Così realizzo che la media di queste persone è entrata in carcere molto giovane, e vi è invecchiata dentro. Ma abbiamo mai provato a chiederci che significa invecchiare in un carcere senza avere la speranza di uscirne se non da morti? E’ questa la “giustizia” che vogliamo?
Mi è capitato, in questi mesi, di parlare con conoscenti e amici di questi miei incontri. Ebbene “azzardando” dubbi sul diritto di cittadinanza di pene senza fine in uno Stato che voglia dirsi democratico e civile, la reazione media è sempre una sorta di irrigidimento: “ma sono persone che hanno commesso gravi reati!”, “ma sono criminali!”, “omicidi” . Forse, certo. Ma (ingenuamente?) mi ha davvero inquietata, e spaventata, il fatto che la stragrande maggioranza dei miei interlocutori, anche quelli che so convinti “democratici” (ma che significherà mai a questo punto?), possano davvero pensare che quel che accade di queste persone sia giusto. E parlo s’intende di persone che il debito con la giustizia lo stanno scontando fino in fondo, con decenni di carcere. E con nessuna speranza, che significa tortura, che si aggiunge alla normale tortura che comunque è la pena carceraria, che, checché se ne dica, rimane pena violenta del corpo e della psiche. Significa, ho capito, solo una cosa: vendetta. Le pene devono tendere alla rieducazione, recita la nostra Costituzione. Rieducazione, sì, ma non come la intendevano i nostri padri costituenti, piuttosto a volte mi sembra, nel senso dei “campi di rieducazione” di orientale memoria. Ogni volta ripeto e mi ripeto le parole di Aldo Moro che era fermamente contrario all’ergastolo e che tutti dovrebbe farci riflettere, e ci scavalca ( a sinistra?): “… capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano. Qualunque cosa il soggetto faccia (si penta, magari, com’è pur possibile) non si può immaginare una modifica della sua vita che sia influente sul suo modo di essere, in presenza di una pena che è uguale alla vita della persona. Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. (…) Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta”.
Interrogarsi di fronte a queste vicende ho capito significa provare a sciogliere nodi che sono dentro di noi, guardare cose che non ci piace guardare. Con alcune domande che si leggono in filigrana: che significa lottare contro le mafie? che significa essere di sinistra? Cos’è la legalità, quella parola “magica” di cui tanto ci riempiamo la bocca.
Una risposta, che ci inchioda alle nostre responsabilità, l’ho sentita durante un incontro organizzato da Libera. L’intervento di Salvatore Striano ( l’attore di “Cesare deve morire”, per intenderci), che uscito dal carcere non dimentica chi in carcere è rimasto. La legalità, ha detto, significa seguire la legge, e le leggi le fanno gli uomini, e posso essere sbagliate. Troppa legalità, senza che il principio informatore ne sia la giustizia, può creare mostri… Ricordo sempre queste parole, che servano a farci sentire un po’ meno tranquilli, nella nostra agiata vita, un po’ meno a posto con la nostra coscienza, che servano a insinuare qualche dubbio, ad aprire crepe nel muro della nostra ipocrisia. Perché di un sistema carcerario ai limiti della tortura siamo tutti complici, se questo è il prezzo della nostra presunta tranquillità. Personalmente ritengo che sono altri e più alti i livelli ai quali le mafie vanno combattute perché si speri di poterle sconfiggere… intelligenze contemporanee e non manovalanze di uomini che nella persona che sono stati, dieci venti anni fa, a volte neanche si riconoscono più. Ma a chi importa saperlo?
In questi mesi sto seguendo la scrittura dell’autobiografia di Mario Trudu, condannato per sequestro di persona ( due sequestri, di uno si dichiara innocente e la normativa che comporta l’ostatività la subisce retroattiva). Vi anticipo le ultime parole: “Sono sequestrato in mano di questo mostro disumano dal maggio 1979, trentatré anni, lascio a voi immaginare… dove vi trovavate nel 1979? cosa facevate? solamente tornando indietro con la mente potete riuscire a capire quanto sono lunghi trentatré anni”.
Mi permetto di invitare a pensarci. E non per essere buoni o perché sia Natale, perché poco cattolica mi sento, e forse cattolica non lo sono affatto. Ma convinta della necessità della giustizia, giustizia in questa terra, sì.
Tornando al presepe dei figli dei carcerati. I presepi… nella tradizione più classica fedeli alla simbologia di un viaggio misterico, della discesa in un mondo dove, superate le angosce del buio, sarà possibile partecipare all’epifania della nuova luce che determinerà, ricorda De Simone, il capovolgimento della morte e il ritorno del ciclo vitale. Ma quale buio nel presepe che ci portiamo dentro, se ci permettiamo l’arroganza di negare a chicchessia la possibilità del ritorno alla luce…

Buon Natale a tutti

Francesca de Carolis

Una risposta a “La marcia di Natale”

  1. Ranglisten ha detto:

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