Spesso si sente parlare di “tempi forti”. L’espressione si riferisce ai momenti della nostra vita particolarmente significativi, dove maggiori sono l’impegno personale e la consapevolezza.
Generalmente se ne parla con spiccata allusione alla vita dello spirito e alla originalissima esperienza morale, individuale e personale. Oppure nei momenti delle grandi scelte.
Chi conserva una visione trascendente della vita e della storia, dell’una e dell’altra si fa una rappresentazione ideale e al confronto di quella vorrebbe parametrare le proprie vicende umane, sia quelle personali che quelle collettive, familiari, sociali, storiche e politiche. Così, su un piano si installano i valori assoluti, illuminati dalla riflessione filosofica, su di un altro vanno a collocarsi tutti i comportamenti della vita pratica, concreti e reali, che quotidianamente mettiamo in atto alla luce – si spera – di quei valori: amore, onestà, solidarietà, giustizia, che, poiché hanno una dimensione relazionale, ci fanno essere comunità di persone; insieme ad altri valori maggiormente legati alla nostra individualità, che chiamiamo virtù, e che caratterizzano la dignità del nostro essere uomini.
A queste condizioni la Storia Sacra, nella quale ci sentiamo anche noi inseriti se riteniamo di appartenere a quella categoria di persone, diviene in maniera esemplare emblema e rappresentazione della nostra miserevole vita di uomini. Un cammino verso la morte con la fede nella risurrezione per proiettare il ciclo vitale nella eternità di Dio.
Con questo spirito la Chiesa (comunità dei credenti) governa il culto – il servizio di adorazione dovuto alla divinità che si svolge nella liturgia annuale secondo riti e formule – proponendoci la storia della salvezza secondo unità tematiche: l’amore del Padre, la donazione del Figlio, l’accettazione della missione (“non mea, sed tua volutas”), la sua morte e risurrezione (il riscatto), la venuta dello Spirito Santo che rinnova l’umanità. Questi temi, di per sé eterni e fissi, ci accompagnano come momenti di meditazione per l’anno liturgico. Il divino si incontra e interferisce con l’umano. In altre parole, s’incarna. Si compenetra dell’umano trasfigurandolo. Ecco i tempi forti. E Natale è uno di essi.
La profondità del Natale è la celebrazione di questo mistero divino. Ma nello stesso tempo è anche la sublimazione dell’atto umano, il più semplice, il più naturale. Forse è questo il valore simbolico delle luminarie, dell’abbondanza, della condivisione. Da una parte si ricerca l’intimità della famiglia, dall’altra il bisogno della più ampia compartecipazione nel sociale.
Su questi motivi ogni cultura ha accumulato una serie di tradizioni peculiari facendone altrettante occasioni di festa, tradizioni che al presente rischiano di essere dissolte dalla mentalità propria di quest’epoca di globalizzazione e di massificazione. E se da qualche parte ancora permangono, esse si riducono a pura manifestazione di folklore, svuotate come sono del contenuto morale e spirituale che in altri tempi costituiva la ragione del nostro umanesimo. Quando il Natale era soprattutto l’Avvento.
Il “calendario d’avvento”, il presepe, l’albero addobbato, la novena o la “corona d’avvento”, la serie di santi portatori di doni: tutti momenti e simboli che cadenzavano l’attesa, a cominciare già dal mese di novembre: la festa di tutti i Santi, la commemorazione dei fedeli defunti, la memoria liturgica di s. Martino, quella di s. Nicola, la festa dell’Immacolata, la memoria di s. Lucia, la solennità del Natale con la presenza del Bambinello, la domenica della sacra Famiglia, e la festa della Epifania. Ogni festa un piccolo dono, soprattutto ai bambini. E lo spirito che animava la comunità era quello del ringraziamento, improntato a propositi di conversione, chiaramente leggibili, oltre che nella formulazione degli auguri, negli atteggiamenti di carità e di speranza per il nuovo che ci attende espressi attraverso l’abbondanza di doni e la celebrazione della luce.
Nella letteratura meridionale c’è un’opera teatrale del genere “teatro religioso” che ben rappresenta tutti questi valori: la luce e le tenebre, il mito e la storia, il cielo e la terra, la vita e il sogno, la richiesta e la donazione dell’offerta, con al centro la nascita del Bambino che cambierà il mondo e la condizione dell’uomo. È quella che noi chiamiamo la “Cantata dei pastori”: un’opera del religioso Andrea Perrucci, dal titolo “Il vero lume tra le tenebre, ovvero la nascita del Verbo umanato” (1698).
In breve: la storia dell’umanità, dove i “pastori” siamo noi.
I segmenti narrativi di questa rappresentazione teatrale vanno dal sogno di Benino, alla vita bucolica della famiglia di Armenzio, dalle vicissitudini di Razzullo alle peripezie di Sarchiapone, dallo scontro titanico di angeli e demoni alla sofferta peregrinazione della sacra Famiglia, fino alla scena finale della natività del Redentore che ritrova tutti i personaggi della sacra rappresentazione inginocchiati davanti alla culla benedetta nella scena del Presepio (compreso il diavolo che per lunga tradizione napoletana si esibisce in una spettacolare caduta, assunta a prova della sua abilità di attore e di acrobata). Intercalati talvolta da chiari riferimenti alla realtà locale. Sempre che gli artefici della messa in scena, ricorrendo ad una ben collaudata tecnica in linea con le migliori tradizioni paesane, riescano a realizzare uno spettacolo che, pur durando più di tre ore, favorisca il diretto coinvolgimento del pubblico.
È proprio l’azione corale, sulla scena e con il pubblico, a farne una “cantata”.
Così si articola la narrazione e si intrecciano i diversi filoni narrativi di un’opera che attinge al poema religioso, al dramma pastorale, al teatro comico, alla commedia dell’arte.
Nella mia prima infanzia, di questa opera teatrale era rimasta una memoria nella nostra famiglia in quelle poche battute dei personaggi, che mia madre utilizzava in funzione gnomica: erano infatti i suoi aforismi. Dal “Lasso sei, o Giuseppe?”, al “Voga Ruscie’, dàll’a ‘stu mazzariello, si no stu maleritto sciummo nce porta ‘nfunno comm’a chiummo”, oppure “…. Tuo fratello è andato a caccia, l’altro a pesca, e tu dormi, Benino!”
Tra le altre sue sentenze ce n’era una, sintesi da lei formulata, la cui idea probabilmente le proveniva proprio dalla conoscenza della Cantata dei pastori. Infatti, con l’avvicinarsi delle feste natalizie, tra le raccomandazioni che faceva a noi bambini soleva dire: “Statevi accorto! Ca ‘i chisti juorni cammìnano i riàvoli”.
Quando ero ancora ragazzino, nel più importante teatro della città tutto il mese di dicembre teneva cartellone la Cantata dei pastori. Delle rappresentazioni di quell’epoca, a parte un certo movimento scenico e qualche passaggio tipico dei personaggi più caratteristici, per il resto ricordo ben poco. Ma solo nel Natale del 1972 ne colsi il senso, quando, perduto ormai il contatto col testo dell’opera (e rara era divenuta per noi l’occasione di poter assistere ad una rappresentazione della Cantata dei pastori), mi capitò di vederla con Patrizia, a Torre Annunziata realizzata dalla filodrammatica degli ex allievi dei Salesiani.
Poi, di nuovo, più recentemente mi è stata offerta l’occasione – forse si era nel 2007 o giù di lì – di rivederla a Castellammare presso la Parrocchia di s. Antonio; e questa volta, adattata dalla locale compagnia di attori secondo una prassi consuetudinaria, essa comprendeva anche il preludio del sogno di Benino con lo scontro tra il diavolo Uriel e l’arcangelo Gabriel.
Quel giorno la visione della scena del sogno di Benino con la guerra dichiarata dell’Inferno contro il Paradiso, mai vista prima, oppure passata inosservata e dimenticata, rischiarò e diede senso alla comprensione della frase di mia madre: “ ‘I chisti juorni vanno camminànno i riavoli”.
Luigi Casale
Lascia un commento