“Perché la violenza nelle nostre vite fu terribile, ma l’indifferenza fu peggio”(Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz). “Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”(H. Heine). “Se capire è impossibile, conoscere è necessario”(Primo Levi). Il 27 Gennaio 2014 si celebra in Italia come in tanti altri Paesi del mondo, il XIV Giorno della Memoria per non dimenticare la Shoah. Una ricorrenza condivisa e istituzionalizzata che finisce puntualmente sui corsivi dei giornali e di Internet tanto quanto nelle trasmissioni televisive. Un evento che assume ogni anno un significato particolare poiché i testimoni di quell’orrore sono fondamentali ma purtroppo il tempo passa e si avvicina il momento in cui non potremo più ascoltare la voce di chi quella tragedia l’ha vissuta realmente. Nessun filo spinato potrà fermare il vento della Memoria della Shoah. Nel Memoriale Yad Vashem a Gerusalemme mancano all’appello tre milioni di Nomi della Shoah! Nel 2014 cade il 27mo anniversario dalla scomparsa di Primo Levi, lo scrittore torinese che ha contribuito a descrivere e decifrare la barbarie dei campi di sterminio nazisti. E il 21mo anniversario (5 Marzo 1993) della monumentale pellicola cinematografica Schindler’s List di Steven Spielberg, le cui immortali sonorità fanno da cornice ogni anno alle celebrazioni ufficiali. Con la Legge n. 211 del 20 Luglio 2000, la Repubblica italiana ha riconosciuto il 27 Gennaio come Giorno della Memoria per ricordare la data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa (1945) e commemorare la Shoah, le leggi razziali, la deportazione, la prigionia e la morte di oltre sei milioni di Ebrei vittime innocenti e di un milione e 800mila cittadini sterminati dai nazisti perché giudicati “diversi” per etnia, religione, indole sessuale, condizioni psicofisiche. Nonché tutti coloro che, pur in campi e schieramenti diversi, si opposero al progetto di sterminio nazifascista, salvando altre vite e proteggendo i perseguitati anche a rischio della propria vita. Punti focali di una ricorrenza annuale oggi celebrata dalle Nazioni Unite e da più di due dozzine di Stati. L’apertura della mente corrisponde all’apertura di quei “cancelli” con tutte le conseguenze che essa comporta per tutti noi e per sempre. Sono migliaia le mostre, i convegni, i progetti, gli incontri, i viaggi in Polonia e i dibattiti organizzati in queste settimane. Con un unico obiettivo: il ricordo di ciò che fu la Shoah, per tramandare alle nuove generazioni i valori di chi, pagando di persona, contribuì alla speranza di un mondo migliore. Perché è giusto che la parola sia data ai sopravvissuti Ebrei dei campi di sterminio nazifascisti e, poi, comunisti d’Europa e d’Asia. A coloro che in prima persona hanno subito le leggi razziste, le deportazioni, la fame, le violenze e sono stati privati di ogni diritto. Ai loro familiari, i primi custodi di quelle memorie. Ascoltare le parole degli ultimi testimoni di quel periodo buio della storia mondiale, è un dovere etico per tutti, non istituzionale per pochi. I loro racconti toccanti, drammatici, fanno soprattutto riflettere, ci fanno sentire vicini, solidali e uniti attorno a chi ha capito che quei momenti devono essere custoditi e trasmessi ai giovani affinché non si ripetano mai più sulla Terra e altrove. Ognuno a suo modo, ognuno con il suo tremendo bagaglio di ricordi, molti di loro combattuti fino a pochi anni fa sul se fosse giusto raccontare o dimenticare. Nelle loro storie nessun gesto di odio, rancore, risentimento, richiesta di vendetta, ma solo il racconto sofferto di ciò che fu. Purtroppo l’antisemitismo non è finito 69 anni fa con l’apertura dei cancelli di Auschwitz, perché Israele è sempre in pericolo come Popolo e come Stato. E i giovani italiani sono ancora antisemiti ed antisionisti come rivela uno studio del Parlamento. Per gli Ebrei l’Olocausto è una tragedia unica e senza precedenti. Nei lager tutti i bambini di età inferiore ai 14 anni e tutti i vecchi, venivano mandati direttamente alle camere a gas. Deposizioni nei tribunali militari internazionali (Norimberga ed altri), interviste, memorie, disegni, diari, lettere, annotazioni private scritte, atti, lo confermano scientificamente. “Come è possibile che non sia più ritenuto degno di essere figlio d’Italia?”(Ada Carpi e Aldo Neppi Modona). Il dovere etico della Memoria va esteso a tutto il periodo della persecuzione: dalle leggi razziali del 1938 quando gli Ebrei italiani, nipoti di quei patrioti-eroi del Risorgimento (poi, da sopravvissuti, della Resistenza) persero la loro cittadinanza e le possibilità di vivere in una patria (molti scienziati come Rita Levi Montalcini) che non li riconosceva più come Italiani, alla liberazione dai lager e al ritorno dei deportati (1945). Tale liberazione è ormai assurta a simbolo dell’immane tragedia della Shoah. Non basta annunciare la Giornata della Memoria. Occorre (saper) raccontare e decifrare l’inenarrabile. Quando si parla di Memoria della Shoah bisogna specificare chi ricorda e cosa ricorda. L’adesione degli Ebrei italiani al Risorgimento fu convinta e largamente diffusa. “Gli Ebrei vi parteciparono – spiega Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane – passando dall’attività cospirativa mazziniana, alla Repubblica Romana del 1848, alla spedizione dei Mille, sino alla conquista di Roma del 20 Settembre 1870. Con l’Unità della nazione, dopo molti secoli, tutti gli Ebrei italiani vedevano riconosciuto il loro diritto ad una cittadinanza piena ed essi, divenuti Uomini liberi, sprigionarono una grande forza creativa e parteciparono alla vita culturale, spirituale, politica ed economica distinguendosi anche nelle forze armate durante il primo conflitto mondiale”. Una domanda focale attende una risposta: dov’era Dio durante la Shoah e com’è potuto accadere che la stessa piccola, civile, pacifica minoranza ebraica che dette un così alto contributo all’Unità della Patria, possa essere stata, solo pochi decenni dopo, tradita, discriminata e perseguitata? “Il regime fascista con l’emanazione delle leggi antiebraiche sulla razza del 1938 – fa notare Gattegna – sancì il definitivo discostamento dell’Italia dalle idee di libertà, uguaglianza e democrazia fondative della Nazione. Quelle leggi che fecero precipitare gli Ebrei in una condizione di disumana discriminazione furono al tempo stesso la dimostrazione della fragilità politica dello stato monarchico che, dopo aver abolito nel 1925 la democrazia parlamentare, giunse a violare per la prima volta nella sua storia i propri princìpi fondanti. Si trattò di un’involuzione e di un regresso per il quale gli Ebrei per primi pagarono il prezzo più alto, ma che costò sofferenze e sangue a tutti gli italiani che furono trascinati in rovinose sconfitte militari e furono costretti a subire la feroce occupazione nazista fino all’Aprile del 1945”. L’Italia iniziò a risorgere nel 1946, con due eventi di grande valore istituzionale, politico e simbolico. “La trasformazione da monarchia in Repubblica e la creazione e promulgazione, nel 1948, di una Costituzione di altissimo livello civile, giuridico e sociale, fatti questi che le permisero di riconquistare la concordia interna e quella credibilità internazionale che le garantì un posto tra le grandi Democrazie occidentali”. Ma che cosa accadde nel frattempo alle vittime delle persecuzioni e delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti, a quei pochi che riuscirono a sopravvivere e a tornare nelle loro case? “Nel Dopoguerra, per anni, la Shoah non fu raccontata, spesso neanche all’interno delle famiglie. I pochi sopravvissuti, i testimoni diretti, prima di riuscire a parlare attraversarono un lungo periodo di tragica solitudine, di incomunicabilità, a volte di vergogna, presi da assurdi, ma umanamente e psicologicamente comprensibili, sensi di colpa per essersi salvati, a volte per paura di non essere creduti”. L’istituzione del Giorno della Memoria trova la sua ragion d’essere nella necessità di colmare il grave deficit di conoscenza (nelle famiglie, nella scuola pubblica, nella cultura, nella società) dovuto al ritardo con il quale la Shoah è stata raccontata e studiata in Italia, in Europa e nel mondo. La Shoah è stata un’immensa tragedia che ha colpito il popolo ebraico con un tentativo di distruzione totale. I princìpi ideologici che ne furono alla base causarono la persecuzione anche di altri gruppi e categorie; si trattò di una barbarie che agì contro la diversità in generale. Solo quando i crimini commessi emersero in tutta la loro enormità, la Shoah divenne un parametro di riferimento per giudicare il comportamento del genere umano tenuto da persone, gruppi e nazioni negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Auschwitz divenne lo spartiacque simbolico tra civiltà e barbarie al punto che, da alcuni storici, il Ventesimo Secolo è stato denominato il Secolo di Auschwitz. La Shoah avvenne nel cuore dell’Europa, il continente, allora, più moderno sul piano tecnologico e più avanzato culturalmente. “Non sempre i passi in avanti della scienza e della tecnologia vanno in parallelo con il progresso civile e morale dell’uomo e dei popoli. Il Giorno della Memoria non è un’iniziativa finalizzata a perpetuare conflitti e rancori – dichiara Gattegna – ma a formare la coscienza civile delle giovani generazioni. Questo è il modo migliore per ricordare e onorare milioni di vittime, facendo sì che il loro sacrificio non resti vano, ma diventi un monito che contribuisca al progresso dell’umanità”. La Memoria consente di esprimere il sentimento di coesione e di unità che viene rinsaldato con questo contributo offerto dagli Ebrei italiani a tutti i loro connazionali. “Crediamo, infatti, che il nostro Paese sarà più libero e migliore solo se, attraverso la conoscenza e la comprensione della propria storia, rimarrà consapevole che la conquista della Democrazia costituisce un passo fondamentale ed un bene prezioso da consegnare con orgoglio alle nuove generazioni”. In effetti il germe dell’odio e dell’intolleranza viene coltivato nell’ignoranza e nell’oscurantismo. Conoscere la storia è il rimedio per prevenire il ripetersi di tragedie come la persecuzione e lo sterminio delle vittime del nazifascismo e del comunismo. Perché gli Ebrei furono perseguitati anche da Stalin nelle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) e nei paesi del blocco comunista. Le foreste d’Europa e d’Asia e i gulag siberiani sono pieni di corpi che attendono Giustizia. Allo Yed Vashem di Gerusalemme mancano all’appello tre milioni di Ebrei sterminati in Europa. I giovani di tutto il mondo hanno il diritto di conoscere gli avvenimenti che hanno segnato la storia e la cultura dell’Italia e dell’Europa, e il dovere di comprendere gli eventi del passato per non commettere gli stessi errori nel futuro. Nel calendario ebraico la prima giornata della Memoria (yom hazikkaron) è il Capodanno, quando il Signore ricorda tutte le sue creature con misericordia. Poi c’è il ricordo dell’uscita dall’Egitto che gli Ebrei fanno a Pesach, di Sabato (Pasqua), anche in tutti giorni, ed alla vigilia di Purim, il ricordo di Amalek, nello Shabbat Zakhor, il Sabato in cui “ricorda” è un imperativo. Quindi il ricordo della distruzione del Tempio e di tutto il resto, nei giorni di digiuno stabiliti, in cui gli Ebrei commemorano e chiedono al Signore di ricordare cos’è successo al popolo eletto. C’è poi il ricordo della Resistenza al nazifascismo e delle guerre recenti di Israele e delle loro vittime. Ma in questa Giornata della Memoria, per essere chiari, sono soprattutto i cristiani-cattolici e i mussulmani che debbono ricordare le “premesse” della Shoah nei secoli passati e cos’è realmente accaduto prima, durante e dopo l’Olocausto. “Gli Ebrei – osserva lo storico Gadi Luzzatto – hanno salutato generalmente con gioia e partecipazione l’emancipazione civile ottocentesca (ricordiamolo, però, concessa sempre dall’alto) e ne hanno constatato con amarezza il repentino fallimento nel 1938 e poi con maggior durezza hanno affrontato la prova della persecuzione dopo il 1943. La demografia ci dice che gli Ebrei del secondo Dopoguerra in Italia sono diversi da quelli del 1861 o del 1945: in decrescita quelli italiani, numerosi quelli immigrati dal bacino del Mediterraneo (Libia, Egitto, Turchia, Libano e in seguito dalla Persia). A lungo ufficialmente “apolidi”, sono tutti portatori di esperienze storiche spesso dure, di sradicamento e spaesamento, e hanno vissuto in Italia la stessa sorte fatta di diffidenza e di relativamente non amichevole accoglienza che troppo spesso questo paese riserva agli immigrati. Soprattutto, sono figli di un vissuto differente: ragionare insieme della memoria del Risorgimento, della Resistenza antifascista, a volte della stessa Shoah, può essere molto impegnativo e costituisce un terreno di sfida aperta per la costruzione di un’identità nazionale riconoscibile e, nuovamente, di un condivisibile concetto di cittadinanza”. Eventi commemorativi nazionali ed internazionali per loro natura rilevano le lezioni universali che vi si possono trarre. Convegni, film, tavole rotonde, libri, foto, testimonianze, viaggi, conferenze, reti accademiche e Internet della Memoria, sono utili per ricordare l’Olocausto del popolo ebraico. Ma non basta il 27 Gennaio. La Memoria della Shoah non può limitarsi alla commemorazione ufficiale, cerimoniale, autoreferenziale, protocollare e cinematografica in un solo giorno. Occorre (far) visitare tutti i luoghi dell’abisso per rendersi effettivamente conto del male assoluto sceso sulla Terra durante la seconda guerra mondiale. Occorre far capire agli “storici” negazionisti e ai mistificatori come l’universo concentrazionario e di morte, nazifascista dei lager e comunista dei gulag, fosse il risultato di una pianificazione politico-economica di menti umane normali (non aliene, non extraterrestri, fino a prova contraria) non folli. Visitare Auschwitz in Polonia significa vedere l’ordinarietà industriale del male che è il contrario della vita, della pietas e del rispetto dell’Uomo. Occorre organizzare viaggi e percorsi culturali direttamente nei luoghi dello sterminio che sono molti in Europa. Non solo Auschwitz. Bisogna visitare lo Yed Vashem, il Museo-Memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme in Israele, dove sono anche esposte le mappe del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. Le piantine originali con i dettagli della costruzione di Auschwitz sono l’illustrazione grafica dello sforzo industriale tedesco di attuare sistematicamente la soluzione finale. Per mostrare come le attività apparentemente convenzionali di gente ordinaria hanno portato alla costruzione del più grande campo di sterminio degli Ebrei d’Europa. Si può anche cominciare con una pedalata nei luoghi della Memoria di Roma, dalle Fosse Ardeatine al Museo della Liberazione di via Tasso fino al Portico d’Ottavia. Una pedalata in ricordo di Settimia Spizzichino, unica donna romana tra quelle deportate il famigerato 16 Ottobre del 1943, ad essere sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Bergen Belsen oltre che alle atrocità del dottor Mengele nel terribile blocco 10. I ciclisti convogliano inizialmente al Largo Martiri delle Fosse Ardeatine con visita al mausoleo che commemora l’eccidio del 24 Marzo del 1944 quando i nazisti fucilarono 335 civili inermi come rappresaglia all’azione partigiana di via Rastella. Segue una sosta in via Licia 56, nella casa che fu di Giacchino Gesmundo, professore del Liceo Cavour morto in quella drammatica circostanza. Poi le biciclette si dirigono in via Tasso dove ha sede il Museo della Liberazione. Qui si ricorda la figura di Elvira Sabbatini Palladini, a lungo direttrice del Museo e moglie di Arrigo Palladini, partigiano duramente provato dalle torture subite in quella che fu la sede della Gestapo durante l’occupazione nazista. Penultima tappa al Portico d’Ottavia, in Largo 16 Ottobre, dove viene ricordata la deportazione degli ebrei romani iniziata proprio in quel tragico giorno del 1943. Durante la retata furono catturati 1043 ebrei. Tornarono in 16, nessun bambino, 15 uomini e una sola donna, Settimia Spizzichino, che passò la vita a raccontare alle nuove generazioni l’orrore dei campi di sterminio anche grazie al suo libro di memorie “Gli anni rubati”. L’iniziativa vuole ricordare la figura straordinaria della Spizzichino e farsi promotrice di un messaggio di speranza per il futuro. Che sulla spensieratezza e sulle ali di una pedalata in bicicletta possa emergere la convinzione e la fiducia di poter uscire da tutti i tunnel del nostro mondo, quali la miseria, il razzismo, la violenza e il terrorismo. Per commemorare la Shoah, l’annientamento del popolo ebraico e l’orrore dell’antisemitismo-antisionismo, si ricorda Giovanni Palatucci, morto in Germania all’età di 36 anni nel campo di sterminio di Dachau a pochi giorni dalla Liberazione. Ricordare è utile alla ricostruzione di una memoria condivisa europea, elemento base per l’affermazione dei principi costituzionali e dei diritti di cittadinanza, fondativi degli Stati Uniti d’Europa. La Memoria allora rappresenta uno strumento di conoscenza indispensabile per educare alla pace, alla tolleranza e alla fratellanza. Le vie, le piazze e le targhe intitolate a Palatucci onorano la memoria dell’uomo per il quale è in corso il processo di Beatificazione. Palatucci salvò la vita a più di 5mila Ebrei. È un dovere etico e morale, onorare lo sconosciuto commissario di Polizia, dirigente dell’Ufficio Stranieri di Fiume, poi Questore, ritenuto “negligente ed inaffidabile” dai diretti superiori e dalle gerarchie ministeriali. Ma che la prima Conferenza mondiale ebraica svoltasi a Londra nel 1945, accertò avere salvato la vita a più di cinquemila Ebrei e che, per questo, nel 1990 (anno dell’Istituzione del Memoriale Ebraico dell’Olocausto) fu insignito alla memoria del massimo onore tributato dagli Ebrei, il titolo di Giusto tra le Nazioni. A questa figura straordinaria di italiano e al tragico scenario in cui lo stesso si è trovato ad operare tra il 1938 ed il 1944, è dedicata la nostra XIV Giornata della Memoria. L’importanza di organizzare su tutto il territorio iniziative e cerimonie, anche in sede istituzionale, nasce non solo dalla Legge ma dal dovere etico di partecipare a momenti comuni di riflessione per rammentare a tutti quanto accadde al popolo ebraico ed alle minoranze etnico-religiose europee. Purtroppo la storia del Novecento ha registrato una serie di crimini contro la pace e contro l’umanità, da quelli dei nazisti a quelli perpetrati dal comunismo, entrambi regimi negatori di libertà. Come ci ricorda il massimo storico dell’Olocausto, “il ricordo non può mai essere imposto, ma solo trasmesso; e quello del genocidio resta vivo”. Sono organizzate manifestazioni ed incontri, moltissimi dei quali coinvolgono i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado, grazie alle iniziative patrocinate dal Comitato di coordinamento per le celebrazioni in ricordo della Shoah (www.governo.it). Per diffondere un clima orientato al rispetto reciproco, nelle diversità di culture e religioni e per contrastare ogni manifestazione di razzismo e antisemitismo è necessario l’impegno di tutti attraverso la consapevolezza di ciò che è stato lo sterminio certamente favorito da Mussolini. Durante la cerimonia per l’anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, nell’irreale scenario del campo sotto la neve, si ricorda con sgomento la descrizione di Primo Levi, soprattutto il suo monito a considerare i “campi di distruzione come un sinistro segnale di pericolo”. Essi, secondo Levi, sono alla fine di una catena che inizia con una convinzione che giace in fondo agli animi come un’infezione latente: una convinzione più o meno consapevole secondo la quale “ogni straniero è nemico”. Una convinzione che, quando diventa idea fondante di un sistema di pensiero, ha nel lager la sua coerente ed estrema realizzazione. La Memoria non è un patrimonio cristallizzato, ma è quel filo che lega saldamente il passato, il presente e il futuro. E lo condiziona. Ricordare il passato significa strapparlo all’oblio e tenerlo sempre come monito affinché gli errori commessi non si debbano ripetere, affinché lo “straniero”, il diverso, non debba mai più essere odiato, affinché l’ignoranza ed il pregiudizio non conducano ancora all’intolleranza e all’odio. È stato proprio in fondo a questo percorso plurisecolare europeo che milioni di esseri umani hanno trovato in Europa e in Asia i campi di sterminio nel XX Secolo. Non bisogna stancarsi di ripetere, soprattutto ai giovani, che tutti gli esseri umani sono uguali, appartenenti all’unica razza umana, di fronte a Dio ed alla Legge, e che tutti hanno diritto al rispetto, alla dignità e alla libertà. La difesa di questi valori è un dovere di tutti e in particolare di chi ricopre incarichi di responsabilità nell’educare le nuove generazioni, affinché attraverso la consapevolezza delle proprie radici e la riflessione sul significato della propria esistenza, possa essere sradicata dalle coscienze quell’infezione latente di cui parla Primo Levi, e possa essere infine proclamata la vittoria del Diritto sulla sopraffazione e della Civiltà sulla barbarie. Perseguitati dopo l’introduzione delle leggi razziali, espulsi dalle scuole all’inizio dell’anno scolastico del 1938, gli Ebrei diventarono presto in Italia cittadini di seconda categoria: furono licenziati dai pubblici impieghi, radiati dagli albi professionali. Alle grandi discriminazioni si sommarono le umiliazioni di ogni giorno come il divieto di frequentare locali pubblici, con la scritta: “vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. Le comunità ebraiche dovettero addirittura stampare degli elenchi telefonici propri, poiché gli Ebrei erano stati cancellati dagli elenchi pubblici. Il 30 Novembre del 1943 il ministro Buffarini-Guidi emanò l’Ordine di Polizia numero 5 in cui veniva annunciato che tutti gli Ebrei, residenti nel territorio nazionale, sarebbero stati inviati in appositi campi di concentramento. Poi iniziò la deportazione di donne, vecchi e bambini. La maggior parte decise di restare, ignara di quello che gli sarebbe successo, alcuni fuggirono in campagna o si unirono ai partigiani. Altri, con le loro famiglie, tentarono di raggiungere la Svizzera e gli Stati Uniti d’America come la famiglia di Tullia Zevi che ricordiamo con affetto nel terzo anniversario dalla scomparsa. Molti furono rispediti indietro alla frontiera, i più fortunati riuscirono a passare il confine pagando cifre altissime ai contrabbandieri. Per tutto il 1944 ci fu una vera e propria caccia all’uomo, con uno stillicidio di persecuzioni e deportazioni da parte delle SS e dei fascisti. Con la Liberazione i sopravvissuti per anni rimasero in silenzio, cercando di negare anche a sé stessi la verità su ciò che avevano vissuto. Come negare che tra i cittadini di una città ormai estranea, c’erano anche i delatori che per pochi denari avevano denunciato gli Ebrei nascosti? Benedetto XVI, nella sua visita alla Sinagoga di Roma, riafferma categoricamente “l’impegno della Chiesa cattolica e il suo desiderio di approfondire il dialogo e la fraternità con il Giudaismo e con il popolo ebraico, secondo la Nostra Aestate, il conseguente magistero e in particolare quello di Giovanni Paolo II”. Dalla scuola i bambini non devono essere tolti “neppure per la costruzione del Tempio”, insegna il Talmud. È possibile una memoria condivisa incardinata nella pedagogia ebraica (“mi-dòr ledòr”, di generazione in generazione) e cristiana? Negli ultimi duemila anni le fantasie dei bambini ebrei e cristiani hanno lasciato il segno nelle nostre città. Sappiamo del fascino esercitato da alcuni episodi biblici, ma non sappiamo con quali occhi giudicassero la trasformazione antropologica in atto. A 14 anni dalla sua istituzione ufficiale in Italia, il Giorno della Memoria ha ancora un significato oppure il suo contenuto si è ormai svuotato? Che efficacia possono avere oggi i racconti quando anche gli ultimi testimoni stanno scomparendo e la Memoria cede definitivamente il passo alla storia? I riti e le commemorazioni pubbliche sono solo retoriche scadenze di un evento passato o sanno essere interrogazione sul presente e sulle sue contraddizioni? Come si pongono le nuove generazioni nei confronti della persecuzione e dello sterminio degli Ebrei europei e quale può essere il ruolo della scuola, oltre il dovere della Memoria? Sono questi alcuni dei principali interrogativi su cui bisogna riflettere. La sfida è nuovamente lanciata a chi sul territorio rappresenta le Istituzioni e si deve barcamenare fra retorica e realtà presente. Prima ancora che tentare di dare risposte o fornire spunti di riflessione su tali quesiti, bisogna far conoscere e ricordare la Storia degli Ebrei che vissero in prima persona la persecuzione e l’annientamento, oltre che fisico, morale negli ultimi duemila anni nel Mediterraneo, in Italia e in Europa. Storie come tante in quel periodo di persecuzioni che ci aiutano a comprendere i meccanismi dell’esclusione, dell’intolleranza e della violenza razzista ma anche a riflettere sulla presenza, se pur minimale rispetto alla foga nazifascista, dei giusti e di quanti seppero dire di No, mettendo in pericolo la propria vita pur di aiutare le vittime ingiustificate della furia di Hitler, Stalin Tojo e Mussolini. Fare il punto sulla nostra memoria, sull’intreccio fra oblio, rimozione e ricordo, e sulla necessità dell’elaborazione di un passato che non abbiamo ancora saputo guardare in faccia fino in fondo, questo è il nodo principale del Giorno della Memoria della Shoah. Purtroppo l’antisemitismo non è finito. Ogni anno è il peggiore dalla fine della Seconda Guerra Mondiale per gli episodi di antisemitismo nell’Europa occidentale e orientale. Si registrano violenze nei confronti di Ebrei in Gran Bretagna, Francia e Olanda. La ragione è che l’antisemitismo da odio alla religione e alla fede ebraica si è spostato a odio per Israele, l’Ebreo dei popoli. Il risultato è sempre lo stesso. Perché ad essere colpite sono le persone, gli Ebrei. Anche se la Germania celebra il Giorno della Memoria del 27 di Gennaio sin dal 1996, la spinta a fare lo stesso in molti altri Paesi è arrivata solo dopo il decisivo Forum Internazionale sull’Olocausto tenutosi a Stoccolma nel 2000, dieci anni dopo la caduta del comunismo che aveva permesso un’esplorazione senza censure della storia. In molti paesi comunisti, lo studio e la commemorazione della Shoah erano stati limitati e le questioni ebraiche soppresse. Al Forum di Stoccolma, i leader di 46 Nazioni promisero di promuovere l’educazione e la ricerca sull’Olocausto, e di “incoraggiare forme appropriate di commemorazione dell’Olocausto, inclusa un’annuale Giornata della Memoria”. Molte delle Nazioni partecipanti scelsero il 27 Gennaio, data l’importanza di Auschwitz come simbolo dell’Olocausto, e l’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 scelse questa data come il Giorno Internazionale della Commemorazione in onore delle vittime dell’Olocausto. Molti Paesi hanno scelto, invece, date che marcano momenti dell’Olocausto all’interno dei loro territori. In Polonia è il 19 Aprile, anniversario della Rivolta del Ghetto di Varsavia. In Romania è il 9 Ottobre, il giorno del 1941 in cui il governo rumeno alleato dei nazisti cominciò a deportare gli Ebrei. Ogni anno non è facile selezionare i vincitori del concorso “I giovani ricordano la Shoah”. Anche quest’anno la qualità dei lavori pervenuti da tutt’Italia era elevatissima sia dal punto di vista dei contenuti sia per le modalità di espressione che hanno spaziato dalla scrittura al cartone animato, dal disegno all’installazione artistica. “Il Giorno della Shoah per riprendere il pensiero di Elie Wiesel, costringe tutte le sfere della società a fare in modo che il nostro passato non diventi il futuro dei nostri figli” – scrive Leone Paserman della Fondazione Museo della Shoah – dopo Auschwitz si pensava che l’antisemitismo non ci sarebbe più stato purtroppo non è così”. Per questo è importante inserire il concetto di interesse per il Giorno della Memoria e non solo quello di dovere. “Se dieci anni fa la parola memoria era un termine tipicamente ebraico e fortemente legato alla vicenda della Shoah – spiega Victor Magiar – oggi è un termine che appartiene anche ad altre grandi questioni e ha aiutato a costruire consapevolezza e coscienza. Un altro risultato d’importanza fondamentale è il fatto che da un decennio nelle scuole si realizzano importanti attività di divulgazione e di approfondimento. Abbiamo visto anche che l’esperienza dei viaggi nei luoghi simbolo della Shoah, se preceduti da un’adeguata preparazione, rappresentano per i ragazzi una delle esperienze più formative e più forti. L’impatto sulle nuove generazioni di tutte queste iniziative è considerevole. I ventenni di oggi sanno della Shoah cose che i coetanei delle generazioni precedenti ignoravano. E sapendo cos’è la Shoah comprendono le ragioni profonde del vivere in una società democratica e libera: capire la Shoah immunizza da rischi di demagogia o intolleranza e crea giovani cittadini democratici. La soddisfazione di riscontrare una costante crescita d’attenzione e di coscienza civica, soprattutto nei giovani, grazie alla narrazione della vicenda della Shoah, ci obbliga a un salto di qualità: non solo raccontare quanto accaduto ma fare sì che il racconto serva a capire come ciò è potuto avvenire, quale sia stata la logica che ha generato questa tragedia, perché solo questo ci può aiutare a prevenire che avvenimenti di questo genere abbiano a ripetersi. La stessa naturalezza con cui oggi, davanti ai nuovi timori delle società europee, alla grande confusione e demagogia sui temi del razzismo, dell’immigrazione e del terrorismo, possono prevalere indifferenza, irresponsabilità, paura. Quando si analizza un disastro si scopre sempre che questo avviene perché l’opinione pubblica non ha vigilato e le istituzioni pubbliche non hanno fatto il proprio dovere. Se la Shoah è stata un punto di svolta nella storia, il Giorno della Memoria deve essere un momento apicale, una sorta di vedetta da cui osservare la nostra esperienza storica e la nostra società. Noi tutti, non solo gli Ebrei, siamo come sentinelle che non devono vigilare sul passato ma proteggere il futuro. Non dobbiamo diventare guardiani della memoria, non siamo conservatori di un museo”. L’intenzione va rivolta al futuro, grazie anche al libro di Pierluigi Battista “Lettera a un amico antisionista” (Rizzoli). “Il tentativo di annientamento degli Ebrei d’Europa perpetrato dal nazismo e dai suoi alleati, nel segno di una ideologia criminale che si abbatté anche contro altre categorie, teorizzando la supremazia di uomini su altri uomini e portando l’Europa e il mondo a una immane catastrofe – fa notare Gattegna – è una parte della nostra storia collettiva che scuote le coscienze, spingendo le persone a chiedersi come possa essere potuto accadere. Molti saggi e opere letterarie hanno posto questioni filosofiche e teologiche in merito alla tragedia della Shoah, quale abisso nella storia umana. Per questo, il monito che la Shoah rappresenta è valido per tutta l’umanità, e da esso nasce l’imperativo: dobbiamo conoscere quel che è stato, perché non dobbiamo permettere che accada di nuovo”. L’orrore per quanto avvenuto fu alla base della fondazione di una Europa incentrata sui valori del rispetto dei diritti umani e della dignità di ogni persona. “E proprio partendo dalla cesura storica che la Shoah rappresenta, fu promulgata nel 1948 dalle Nazioni Unite la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui primo articolo, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali, in dignità e diritti”, ne è il significativo fondamento”. L’Europa è culla e depositaria del bagaglio morale, filosofico e culturale che quegli eventi, tragicamente, ci hanno lasciato. “E in un momento di crisi quale è quello che stiamo vivendo, è molto importante tenere presenti le radici e i valori sui quali si fonda il vivere nel nostro consesso civile. Perché la crisi può essere anche una risorsa, una opportunità e una occasione di riflessione e di verifica. Al contempo occorre, senza allarmismi e con fermezza, tenere d’occhio le storture e i veleni, anche razzisti e xenofobi, che i momenti di difficoltà possono far emergere. Per questo oggi più di ieri dobbiamo prestare attenzione, operando per prevenire la deriva nazionalista e razzista di alcune frange della società, in Italia e all’estero”. Per molti secoli gli Ebrei sono stati perseguitati perché legati tenacemente alla propria identità, e hanno dunque una plurisecolare esperienza dell’essere minoranza, molto spesso discriminata quando non perseguitata. “La nostra storia può fungere dunque da esempio, per quei gruppi ed etnie che faticano a integrarsi e che ritengo costituiscano, per le moderne società plurali e multiculturali, un vero patrimonio. Il Giorno della Memoria che è stato istituito con una Legge dello Stato, coinvolge, ed è fondamentale, il mondo della scuola: in questi anni ha contribuito a generare in tanti giovani gli anticorpi contro il pregiudizio, a diffondere una cultura dell’accoglienza, del rispetto delle diversità. E anche, ci auguriamo, a stimolare la voglia di conoscere, di studiare, di approfondire la storia”. Determinanti sono gli incontri con i testimoni della Shoah. “È grazie alla loro disponibilità, che a volte comporta per essi impegni non poco gravosi, che è possibile tramandare una esperienza diretta di quanto avvenne nei campi di sterminio nazisti, e per questo desidero indirizzare loro il mio caloroso ringraziamento e un affettuoso abbraccio”. Nel 2014 cade il 27mo anniversario dalla scomparsa di Primo Levi, lo scrittore torinese che con le sue alte testimonianze ha contribuito a descrivere e decifrare la barbarie dei campi di sterminio. “I suoi libri sono un patrimonio di tutto il mondo, e uno degli strumenti di conoscenza di maggior valore. “Se capire è impossibile, conoscere è necessario”, scrive Levi. È con un pensiero rivolto a lui, fondamentale testimone e divulgatore dell’odissea e della tragedia degli Ebrei italiani, che intendo salutare le iniziative e le celebrazioni del Giorno della Memoria”. Non possiamo celebrare il Giorno della Memoria semplicemente ricordando, sia pure con tutto il cuore e la migliore buona volontà. L’illusione che la storia del mondo marci verso il progresso, ci ha illuso che “mai più” non fosse un auspicio, ma una constatazione. Invece, è una tragedia durissima. L’Onu, nata sulle ceneri della Shoah, è stato innanzitutto fondata per garantire che la politica o l’incitamento per il genocidio siano proibiti su tutto il pianeta Terra secondo la Legge internazionale. Le convenzioni dell’Onu contro il genocidio lo prevedono. Ma nella realtà, abbiamo visto cos’è accaduto in Cambogia, in Darfur, in Rwanda, in Mali, in Nigeria, abbiamo visto i tentativi di genocidio in Tibet e in Bosnia. Quanto all’incitamento all’odio razziale e tra le generazioni, ormai è cibo quotidiano anche in Italia, e basterebbe un tribunale internazionale ad hoc per giudicarlo come di dovere. Ma chi lo fa? “Ricordare per non dimenticare” è lo slogan più diffuso in questi giorni. Eppure c’è chi non si accontenta, c’è persino chi protesta contro una Memoria data per scontata, che rischia di offuscare il diritto individuale alla singole memorie. Una Memoria sbandierata per ripulire le coscienze collettive e che, in alcuni casi, ha persino prodotto una classe di “professionisti della Memoria”. Tra i “ribelli della Memoria” spiccano i nomi di due personaggi diversissimi tra loro, ma uniti dal rifiuto della museificazione-conservazione della Shoah, e della dolorosa esperienza ebraica più in generale. “Sono la storica francese Annette Wieviorka, classe 1948, docente del Centre National de la Recherche Scientifique, la più autorevole istituzione accademica d’Oltralpe, e lo scrittore di Tel Aviv, Etgar Keret, classe 1967, che negli anni Novanta ha dato il via a una new wave della letteratura israeliana” – rivela Anna Momigliano. Annette Wieviorka, che ha ripetutamente denunciato la “riduzione della Memoria a una ideologia”, se non addirittura a un’industria, scrive su “Pagine Ebraiche”, il mensile dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: “Sono appena rientrata da una riunione della giuria del concorso annuale per la tutela dei valori espressi dalla Resistenza e contro la deportazione in Francia. Si tratta di una grande iniziativa che coinvolge molte scuole francesi e tutte le organizzazioni di ex deportati. La giuria è composta da 40 persone e fra di loro ho contato tre anziani, che rappresentavano il mondo di chi era in grado di portare una testimonianza e una conoscenza diretta sul tema. Tutti gli altri componenti erano rappresentanti di enti pubblici e di fondazioni private, direttori di musei, docenti di vario genere. Tutte persone degnissime, ma che traggono la loro esclusiva legittimazione dal fatto di aver ottenuto un impiego in questo settore. Sono funzionari della Memoria, appositamente retribuiti. E la Memoria rischia di ridursi a un’ideologia, se non addirittura a un’industria”. Non nasconde che, talvolta, una Memoria troppo esibita può nascondere il tentativo di esorcizzare un confronto con la coscienza storica o politica. “Possiamo osservare che sulla Memoria si dimostrano non a caso particolarmente sensibili governi e istituzioni ansiose di far dimenticare qualche imbarazzo del passato (per esempio una politica di estrema tolleranza nei confronti di Arafat e del terrorismo palestinese, o radici che affondano nel terreno avvelenato dell’estrema destra antisemita). E possiamo osservare che in occasioni di importanti contatti istituzionali le istanze che provengono dal mondo ebraico e le disponibilità che provengono dal mondo politico tendono a incrociarsi sul terreno della Memoria”. Con tutto un altro tono, e altre motivazioni, lo scrittore israeliano Etgar Keret estende l’attacco a una Memoria troppo istituzionalizzata (e spersonalizzata) non solo alla Shoah, ma anche alla storia recente ed alle guerre dello Stato di Israele. Keret, che in questo è stato il precursore di una serie di giovani scrittori iper-individualisti e intimisti, rivendica prima di tutto il diritto a una memoria personale, legata al vissuto reale più che alla lettura che le istituzioni offrono di questo vissuto. “La gente si è arrabbiata molto” – racconta lo scrittore in un’intervista al mensile The Believer. “Parlare della Memoria, di Rabin, dell’Olocausto o delle vittime di guerra, è una sorta di monopolio nazionale. Eppure i miei genitori sono sopravvissuti dell’Olocausto, ho votato per Rabin, ho creduto in lui, e il mio migliore amico è morto durante il servizio militare. La Memoria è anche mia, ma se tento di appropriarmene a modo mio la gente si arrabbia”. C’è poi la memoria cinematografica universale. Il Cinema della Shoah è da molti anni oggetto specifico di attenzione critica da parte di studiosi e osservatori in tutto il mondo. Prima di tentare una riflessione sullo “stato dell’arte”, facciamo un rapidissimo excursus storico per rintracciare alcune tipologie nel tempo. Nulla come il cinema risveglia la memoria e il vissuto di ciascuno. “Sin dall’inizio, documento e fiction si intrecciano strettamente – spiega il professor Mino Chamla – certo il documentario presenta modalità che appaiono assai ben scandite e distinguibili nel corso degli anni. Dopo le riprese effettuate dagli stessi nazisti, e destinate a essere riesumate variamente più tardi, è quanto filmato in presa diretta dagli Alleati, a Est e a Ovest, alla liberazione dei campi, a occupare la scena, anche se nella maggior parte dei casi queste pellicole dovranno aspettare almeno una trentina d’anni per venire proposte al pubblico nella loro – peraltro sempre relativa – integralità”. “Memory of the Camps”, girato da Sidney Bernstein dopo l’arrivo di inglesi e americani nel campo di Bergen-Belsen, ebbe la consulenza di Alfred Hitchcock, specialmente per quel che riguarda la scelta decisiva di fare riprese in campi lunghissimi, e testimonia la veridicità dei luoghi e dei tempi. “È il film, per intenderci, nel quale i buoni cittadini tedeschi dei dintorni vengono portati a vedere quel che era accaduto nel campo, e questo, com’è stato notato, non soltanto a scopo punitivo-educativo, ma anche e soprattutto per rafforzare quell’aura di autenticità che si voleva perseguire”. A partire dagli anni Cinquanta sono i film di montaggio a prevalere, “film cioè che per definizione assemblano variamente materiale di provenienza eterogenea, con l’intento retorico (nel senso buono del termine) di mostrare la natura criminale in generale del regime nazista, a partire dal sistema concentrazionario”. L’apice è costituito dal pur breve (e proprio la brevità è uno dei suoi elementi di forza) “Notte e nebbia” (Nuit et brouillard, di Alain Resnais, 1956), con il forte commento di Jean Cayrol e con incredibili conseguenze già “mediatiche” negli anni a seguire. “Si pensi alla scena di Anni di piombo (Die bleierne Zeit, di Margarethe von Trotta, 1981) nella quale giovani tedeschi, alcuni dei quali destinati a intraprendere la strada del terrorismo, vedono il film, ne restano scioccati e ne discutono, soprattutto per quel che riguarda “le colpe dei padri”. Ma si devono notare, a proposito di Notte e nebbia, almeno due cose. C’è il fatto, innanzitutto, che non si tratta già più di puro montaggio, con scene a colori, sui luoghi coinvolti, che si alternano a quelle di repertorio in bianco e nero. Ed è pure molto significativo che nel cortometraggio di Resnais non si parli praticamente mai di ebrei, quasi a indicare con forza il valore universalmente umano della vicenda”. Con gli anni Ottanta matura anche nel cinema l’era del testimone, ed è appunto il film di testimonianza e memoria a emergere con forza, “anzi a divenire un genere quasi codificato”. Ma all’origine sta subito “un capolavoro assoluto e fuori dalle righe” come “Shoah” di Claude Lanzmann (1985). “L’invenzione narrativa si intreccia sin dal principio, per il cinema della Shoah, con la ripresa documentaria dal vero. E questo è vero alla lettera, qualora si pensi alla fiction drammaticamente docu (ma comunque fiction) di Wanda Jakubowska, vera ex deportata polacca che realizza ad Auschwitz il suo film, “L’ultima tappa” (Ostatni etap, 1948), collaborando strettamente con molti altri sopravvissuti. E c’è un evidente parallelo con la prima ondata, in quegli stessi anni dell’immediato dopoguerra, di diari e testimonianze della persecuzione e della prigionia; l’ondata, cioè, di Primo Levi e di tanti altri che, allora, nessuno volle ascoltare”. Abbiamo poi una lunga fase, tra anni Cinquanta, Sessanta e primi Settanta, “in cui il tema della Shoah è affrontato, nel cinema di finzione, americano e non solo, con maggiore o minore coraggio, ma comunque sempre “di lato”, come ingrediente narrativo tra altri, e spesso come mero elemento di spettacolarizzazione”. Vanno ricordati, anche per il modo sempre più esplicito col quale vengono affrontate le tematiche, film come “Kapò” di Gillo Pontecorvo (1960) e soprattutto alcune straordinarie pellicole realizzate nell’Europa orientale, come “La passeggera” di Andrzej Munk (Pasazerka, Polonia, 1963), “Il negozio al corso” di Jan Kadár e Elmar Klos (Obchod na korze, Cecoslovacchia, 1965), e altri ancora. “Dov’è senz’altro notevole il fatto che nel cinema, all’Est, il discorso sulla catastrofe occorsa al popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale è molto più esplicito che nelle parallele celebrazioni ufficiali degli stessi anni negli stessi paesi, quando gli ebrei in quanto tali spariscono e divengono soltanto vittime come tutte le altre”. Alla fine degli anni Settanta comincia un’epoca decisamente nuova e di distacco dal passato, con ricorrenti film-evento: dal televisivo “Holocaust” (Usa, 1978, vincitore di 8 Emmy Awards, tra cui Migliore Miniserie, e di 2 Golden Globe, tra cui Miglior Attore Tv Michael Moriarty), al decisivo “Schindler’s List”, a “La vita è bella”, e moltissimi altri capolavori minori. “Una copiosa letteratura si è sviluppata contemporaneamente a quest’ultima fase, ed è cosa che è già significativa di per sé, come se soltanto a partire da una produzione cinematografica matura sull’argomento si potesse passare a una vera ricognizione critica, anche retrospettiva e anzi risalente alle origini. Questa letteratura critica è spesso, innanzitutto, repertorio e catalogazione, in quello che è forse il più puro stile, peraltro benemerito, degli studiosi soprattutto americani, con una spiccata tendenza, cresciuta negli anni e a tratti alquanto fastidiosa, a cadere in una sorta di bizantinismo classificatorio tale da mettere in evidenza ogni possibile intreccio tra argomenti, generi e sottogeneri. Ma c’è anche, in questa letteratura, molta e mai sopita vis polemica, ad esempio in termini di critica della “riduzione a spettacolo” e di attenzione al fenomeno della americanizzazione della Shoah”. Fenomeno quest’ultimo che va ben oltre l’ambito cinematografico, ma che indubbiamente nel cinema trova un suo terreno particolare d’elezione. “Ed è pure evidente come l’americanizzazione della Shoah non debba necessariamente comportare soltanto elementi negativi. Soprattutto, e non può essere altrimenti, gli studiosi hanno in qualche modo portato al dibattito e quasi codificato i problemi classici relativi a un “cinema della Shoah”, e cioè quelle grandi questioni che si impongono con necessità all’osservatore”. E quali sono questi problemi classici? “Per primo, c’è senz’altro il problema della “rappresentazione vera”, con tutto il suo seguito di realismo, realtà storica, accurata ricostruzione, attenzione ai particolari ecc. Ma subito dopo vengono questioni come quella dell’orizzonte di pre-comprensione che sta dietro a un film come a qualsiasi altro prodotto creativo: di cosa si vuol parlare quando si filma la Shoah; quali sono i preconcetti, le finalità e i più generali orientamenti ideologici alla base dell’ispirazione e della realizzazione; ma anche quel che si sceglie di rappresentare e come. Infine, last but not least, è certamente la rilevanza data alla dimensione ebraica dell’evento che costituisce un topos critico di urgenza sempre maggiore col passare del tempo”. A modo di esempio il professor Mino Chamla prova a leggere attraverso quest’ultimo paradigma, quello appunto dell’ebraicità dell’Evento, alcuni film-evento degli ultimi decenni. “Olocausto (Holocaust, di Marvin Chomsky, 1978) è, com’è stato notato, un programmato e pantografato riassunto, attraverso la storia di una famiglia ebraica tedesca, di tutto quel che ha subito il popolo ebraico nel periodo 1933-45, dalle Leggi di Norimberga all’imbarco di tanti sopravvissuti per la Palestina. In altre parole, si tratta (da parte di un regista che poco prima, peraltro, aveva realizzato “Radici”, alla ricerca dunque di altre tormentate genealogie) di offrire, attraverso il mezzo popolare per eccellenza della televisione, davvero una prima esplicita ricostruzione (narrativamente sapiente anche se storicamente debole) dell’intera vicissitudine nel suo impatto complessivo sul popolo che ne è stato la vittima designata. E si capisce come Olocausto abbia costituito un vero e proprio trauma soprattutto per gli spettatori tedeschi. Schindler’s List di Steven Spielberg è invece, in modo dichiarato e nonostante il protagonista non ebreo del titolo, un tentativo di leggere la Shoah come un evento che si inserisce fino in fondo in una prospettiva storica ch’è pure fortemente ebraica, in senso molto identitario, come bene indicano l’inizio e la fine del film, e dunque la collocazione della vicenda tra la tradizione, anche e soprattutto “religiosa”, e il moderno inveramento del Sionismo e dello Stato d’Israele. La vita è bella (di Roberto Benigni, 1997) rappresenta bene, da questo punto di vista, un’intenzione molto lontana e quasi opposta, rispetto a quella spielberghiana, con una marcata ri-universalizzazione del dramma, sia pur partendo esplicitamente dalla “questione ebraica”, e anzi dalla questione razziale nell’Italia fascista. I protagonisti (tra l’altro, una famiglia “mista” che irride, già con il suo stesso esserci, questioni e leggi razziali di ogni ordine e grado) sono persone qualunque esposte alla violenza insensata della storia, prima ancora che portatori consapevoli di una qualche comunanza di destino storico e meta-storico. Molto diverso pare, da questo punto di vista, un film spesso accostato (per una serie di ragioni delle quali la quasi contemporaneità risulta tutto sommato la meno importante) a La vita è bella, e cioè “Train de vie” (di Radu Mihaileanu, 1998), dove tutto, dal titolo all’«umorismo sognatore e difensivo» alla dimensione collettiva della vicenda, rimanda a una forte e “segnata” connotazione ebraica – fino all’estremo dell’incontro/confronto con un’altra cultura “forte”, e senza nazione, dal punto di vista identitario, come quella degli zingari. “Il pianista” di Polanski (2002) sarà invece, alla fine di questo breve excursus, il ritorno alle ragioni dell’individuo, un film soloista, come è stato definito, dove appunto la sopravvivenza anche casuale del singolo viene in primo piano, sia pure in un contesto storicamente accuratissimo, e quindi fatalmente molto “ebraico”. E siamo pressoché agli antipodi di quell’Olocausto da cui eravamo partiti…”. Dunque, anche da questo punto di vista, ci manca fortissimamente quel “Film sulla Shoah” che Kubrick aveva in progetto di realizzare nei suoi ultimi anni di vita. “Tuttavia, la vera, grande e anzi somma questione alla quale si deve ritornare è pur sempre quella della rappresentazione, in tutte le sue declinazioni possibili. Ed è la grande questione anche perché è, spesso e volentieri, assolutamente fraintesa e mal posta. In effetti, il cinema è, in senso lato, una forma di narratività particolare; il cinema è anche un peculiare ritorno alla realtà fisica, come voleva Siegfried Kracauer; il cinema è forse davvero, infine, per dirla con Gilles Deleuze, omologo al pensiero e alla filosofia “creativa”; ma, insomma, il cinema non è mai mera rappresentazione. Semmai, è appunto il cattivo cinema a essere, o a tentare di essere, pura rappresentazione, mentre quello “importante” ed epocale non lo è mai, né può esserlo”. È proprio la storia del “cinema della Shoah”, che potrebbe riceverne un po’ di luce. “Quando si parla dell’irrappresentabile per eccellenza, non si tratta principalmente di un presunto sviluppo del linguaggio cinematografico, o anche di un adeguamento progressivo della forma al suo contenuto. Anzi, da questo punto di vista si potrebbe ricorrere a una formula quasi provocatoria, e cioè che: il cinema della Shoah è passato, nel corso del tempo, da un non sapere rappresentare a un sapere e volere non rappresentare.
In realtà, la non-rappresentazione, a volerla chiamare così, per i film soprattutto più recenti, va ricollegata strettamente a uno sfondo complesso, senza aver cognizione del quale è impossibile, letteralmente, capirci qualcosa – a meno che, appunto, ci si voglia accontentare di qualche delirio cinefilo sullo “specifico filmico” o simili”. In altre parole? “Dietro i grandi film che hanno fatto discutere, negli ultimi anni, c’è proprio il contesto della “memoria della memoria”, o anche, semplicemente, quel pressante problema dell’interpretazione della Shoah che, da almeno 25-30 anni, incalza tutti, o comunque tanti, ebrei e non ebrei, quasi ossessivamente, spingendo a rivedere via via tutte le categorie riguardanti la storia, la memoria, il pensiero, l’etica, anche la rappresentazione, in senso lato, e quant’altro, intorno all’Evento. Né si può dir molto, anche se si vorrebbe, sulle relative questioni di periodizzazione, tra “era del testimone” e suo ineludibile destino a essere “oltrepassata” (senza troppo danno, si spera, per la memoria, e quindi per noi), tra guerre d’Israele e costruzione dell’identità europea, tra lo svariante intensificarsi del vissuto ebraico della Shoah e l’immonda risposta costituita dal proliferare, negli ultimi decenni, di negazionismi e revisionismi assortiti – anche se, molto spesso, in tutto questo, non è facilissimo rintracciare la vera direzione dei rapporti di causa-effetto, azione e reazione ecc”. Ma anche i film sono un riflesso e insieme una manifestazione degli atteggiamenti, nel tempo, nei confronti della Shoah, e insomma del dibattito pubblico (anche quando coinvolge, all’apparenza, pochi specialisti) su questi temi. “Che i film siano poi, a volte, occasione ancor più notevole di reazione, emotiva e riflessiva, nonché di dibattito e di estensione dello stesso, si spiega facilmente con il fatto che si tratta appunto del linguaggio più potenzialmente popolare, non certo per una sua presunta essenza, quanto per le sue infinite possibilità nei termini della comunicazione a più livelli – ed è chiaro allora che, quando diciamo cinema, intendiamo qui, sbrigativamente, anche moltissima televisione “di qualità”, mentre escludiamo totalmente, e pour cause, altri, più recenti linguaggi multimediali. Insomma, i film nascono da quel che si agita loro intorno, e a loro volta tornano a esercitare, potentemente, quasi sempre, un profondissimo feedback su quello sfondo”. Per questo possiamo parlare di film-evento, ben oltre quanto potesse accadere, ancora qualche decennio fa, a partire da un film che toccasse l’argomento dello sterminio nazista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. “Così, per esempio, Shoah di Lanzmann non è soltanto l’opera, già solo per questo straordinaria, di un uomo non proveniente dal cinema che pretende di riproporre in modo nuovo, attraverso un mezzo cinematografico utilizzato con inaspettata e quasi istintiva sapienza, la memoria dell’Evento. Shoah ricrea la Shoah con la testimonianza, e anzi crea quest’ultima in una versione nuova e dirompente, senza alcun intento meramente documentario, ma piuttosto con una forte operazione che è, insieme, ri-nominazione delle vittime, narrazione straziante senza consolazione finale, e vero e proprio “pensiero della Memoria”; il tutto a monte e a valle di quell’era del testimone, appunto, che Annette Wieviorka ha evocato a definire tanti nuovi orientamenti nei confronti della “cosa”, e prima di tutto nel mondo ebraico, che hanno caratterizzato gli ultimi decenni”. Shoah non è soltanto il poema, la vetta suprema, sul piano espressivo, della testimonianza filmata riguardante la Shoah, ma “è pure una sorta di inaggirabile unicum per chiunque, dopo, abbia cercato di capire qualcosa sull’argomento e sulle sue possibili interpretazioni. Da un punto di vista più strettamente “filmico”, Shoah è insieme il prototipo e il modello insuperabile per ogni film di testimonianza sulla Shoah che sia venuto dopo. Anzi, Shoah è il meta-testo che ha indicato agli altri di che cosa si dovesse parlare se si voleva parlare di questo. E questo vale sia, in generale, quando si tratti di raccogliere in modo sistematico, finché si è in tempo, le testimonianze filmate dei sopravvissuti, alla maniera della Foundation voluta da Spielberg; sia quando si tratti di raccogliere qualche testimonianza con intento ben diversamente “consolatorio” (ma non per questo di per sé disprezzabile) rispetto a Lanzmann, come è il caso di “The Last Days” (di James Moll, 1998); sia infine quando si tenti una ricostruzione “forte” della memoria testimoniata, con soluzioni espressive se non del tutto vicine a quelle di Shoah, certo consapevoli della sua lezione, come nell’italiano “Memoria” (di Ruggero Gabbai, 1997)”. Shoah ha veramente reinventato dalle fondamenta la testimonianza relativa alla Shoah, compresa, oltre alle vittime, quella dei carnefici e degli spettatori, “secondo l’ormai classica tripartizione proposta da Raul Hilberg che, non a caso, è anch’egli protagonista-ispiratore del film, quando ancora la sua fama internazionale non era allo zenit. E non si tratta affatto di “rappresentazione”. Piuttosto, davvero Lanzmann vuole riportare alla luce il trauma originario, imponendo spesso alle vittime non soltanto di ricordare, ma anche di riprodurre i gesti di allora – non senza, spesso e volentieri, una necessaria crudeltà. In un libro recentissimo interamente dedicato a Shoah, Aline Alterman ne ha proposto una lettura tanto radicalmente cinematografica che filosofica, in cui ci si aggira tra reminiscenze del cinema noir classico (la fine, cioè l’esito negativo, è noto sin dal principio), volti di levinassiana memoria e traumatismi da “storia dei vinti” di Walter Benjamin – laddove nella “dialettica alternante”, Visages-Dires- Silences, ancora proposta dalla Alterman, sembra compendiarsi un ventennio di discussioni sul film”. Certamente si può essere più o meno d’accordo con letture come questa, ma non si può non riconoscerne la necessaria radicalità e il rinvio continuo a un contesto amplissimo di vissuti, riflessioni, collocazioni nella storia, ben oltre un film, per quanto importante “senza contare in quale misura Shoah abbia poi costituito fonte di ispirazione e insieme inesauribile arsenale di spunti contenutistici e formali per il cinema successive anche di fiction. Ma anche Schindler’s List merita, in questo contesto, un ripensamento critico, che, tra l’altro, liberi un po’ il film dalla fatale “imbalsamazione epocale”, nel bene e nel male, di cui è stato fatto oggetto nel corso del tempo. In effetti, non si tratta soltanto di rilevarne il già citato, forte, esplicito e per noi anche coraggioso carattere identitario ebraico. Ancor più interessante è quel che, dietro l’apparente spettacolarizzazione a tutto tondo – a prima vista un trionfo, appunto, della rappresentazione “ben fatta” – sembra essere la ratio più profonda, e perciò nascosta, dell’opera, e cioè proprio una riflessione radicale sui limiti, insieme, della rappresentazione e della responsabilità morale di noi contemporanei nei confronti della Shoah”. In tale prospettiva, Schindler’s List è davvero “un film potente costruito a partire da una serie di dissimulate, forse, ma non per questo meno esibite impotenze: l’impotenza a ricostruire un “quadro generale degli eventi”; l’impotenza a parlare davvero dei morti, i sommersi di Primo Levi – scegliendo anzi di parlare proprio e soltanto di (pochi) salvati, appunto la Lista di Schindler; l’impotenza a cogliere e rappresentare l’essenziale, come se un essenziale poi ci fosse; l’impotenza a fare vera chiarezza sul sistema concentrazionario e dello sterminio nel suo complesso; l’impotenza a raccontare la morte, tutta la morte, per quantità e per qualità; l’impotenza a dar conto di cosa sia stato veramente, per ciascuno, il sopravvivere alla Shoah”. Sono emblematici la celebre bambina col cappottino rosso, prima in fuga e poi cadavere, sotto lo sguardo attonito e impotente di Schindler, e il pianto finale del protagonista, per non aver potuto salvare più vite. “Ma è soprattutto la sequenza dell’incursione di Schindler ad Auschwitz, per riprendersi le sue donne e i suoi bambini dirottati là per errore, che si fa metafora del film e delle necessità che forse lo muovono: scendere nell’Inferno, nell’anus Mundi di Auschwitz, per prendersi la responsabilità della scelta nel mentre stesso in cui si guarda impotenti a tutto il resto”. È una metafora che fa giustizia, una volta e per sempre, anche di qualunque discorso intorno a una completa e compiuta rappresentazione della Shoah. È esagerato dire tutto questo? Significa attribuire troppe “buone intenzioni” a Spielberg, che in fin dei conti è il re dei cinematografari hollywoodiani contemporanei? “Forse. Ma se si assume fino in fondo il rischio dell’interpretazione, allora si può sostenere questo e altro, e anche navigare controcorrente rispetto a personaggi come David Mamet, che parlò di “pornografia emotiva”, o come, nientedimeno, il Claude Lanzmann di Shoah e l’Art Spiegelman di Maus, entrambi critici aspri e implacabili, da subito, di Spielberg e della sua definitiva “americanizzazione dell’Olocausto”. Certo, analoghi discorsi e andirivieni interpretativi potrebbero e dovrebbero essere fatti su e per qualsiasi altro film della Shoah”. La vita è bella, dopo Schindler’s List, più di ogni altro si è meritato nel mondo intero il titolo di film-evento sull’argomento. “È un film che, sostanzialmente, non piacque affatto, alla prima visione, a chi scrive, ben oltre un significativo giudizio di Roman Polanski che ne parlò come di un film “brutto ma importante”, o qualcosa del genere. In effetti, pur giudicando assolutamente buone e non bassamente commerciali le intenzioni di Benigni, appariva del tutto irrisolta la cifra stilistica del film, e beninteso non nel senso banale della commistione di comicità e tragedia, o in quello della forse neppure ricevibile domanda:“si può ridere della/sulla/nella Shoah?”. Piuttosto, era il cortocircuito di favola e realismo (soprattutto, com’è ovvio, nella seconda parte, quella “nel campo”) che lasciava fortemente perplessi, e ancor più l’insistita focalizzazione sulla vicenda del padre e del bambino, a scapito di tutto il resto, fino a rendere vere e proprie “comparse”, per esempio, le altre vittime – con un effetto estetico-morale, si vorrebbe dire, a tratti assai discutibile e anche “sgradevole”. Ebbene, a distanza di qualche anno il film pare da rivalutare, al di là dell’immediata risonanza mediatica, non soltanto perché ha comunque alimentato l’interesse e l’attenzione del “vasto pubblico” sull’argomento (in modo forse ancora più intenso di Schindler’s List), ma soprattutto perché ha reso di fatto un po’ più ricco il dibattito contemporaneo intorno alla Shoah e alla memoria della stessa, disseminandovi, perché no?, i propri e peculiari spunti interpretativi – compresa, è certo, la sempre aperta interrogazione intorno al significato ebraico e universale della Shoah”. Ancora una volta la “rappresentazione” in quanto tale, c’entra molto poco. Il professor Chamla osserva, poi, come “nella didattica, vacca sacra, o forse semplicemente un idolo, dei nostri tempi, intesa troppo spesso come finale ed esigente destinazione di qualunque discorso serio intorno a “storia e memoria”, e massimamente quando si tratta della Shoah, sia davvero ora che si utilizzi il “cinema della Shoah” non (o almeno non soltanto) come inerte documentazione, quanto invece come contributo importante all’interpretazione e all’intreccio sempre rinnovato tra conoscenze, interpretazioni, appunto, e vissuti, di ieri e di oggi. Pretendere di utilizzare un film come documento “assoluto” e autosufficiente, col suo contenuto di rappresentazione, per insegnare qualcosa a studenti di qualunque età, è cosa assai frequente ai nostri giorni, ma non per questo, e soprattutto per la “memoria della Shoah”, meno oscena e immorale. I film devono essere continuamente “rilavorati”, per poter essere utilizzati nell’insegnamento della memoria; ci vuole un travaglio di cui, in tutta onestà, non sembra affatto capace la stragrande maggioranza degli insegnanti, troppo irretita in un acritico flusso mediatico e troppo pronta a utilizzare un “bel film” per uscir d’obbligo nel Giorno della Memoria o in altra ricorrenza. La memoria richiede sempre continua rielaborazione e molto, moltissimo lavoro di prospettiva. E proprio come recita il titolo di un libro recente sul “cinema della Shoah”, giocando sulla ricchezza e l’ambiguità delle parole, si tratta pur sempre di proiettare l’Olocausto dentro il presente”. In Italia, quindi, occorre una legge, generale ed astratta quanto si vuole, ma altrettanto efficace contro chi nega la Shoah. Sembra inutile ribadire ogni volta che ci sono state le camere a gas in Europa. Che i forni crematori durante la seconda guerra mondiale hanno industrialmente vaporizzato milioni di corpi, per volontà politica di Adolf Hitler e compagni. Che c’è stato lo sterminio degli Ebrei nel cuore dell’Europa. Che la Shoah ha effettivamente avuto luogo. Che non si deve lasciar scivolare il mondo in uno stato psicotico in cui sia possibile insinuare il dubbio che l’annientamento di oltre sei milioni di Ebrei e di 1,8 milioni di persone “diverse” abbia avuto luogo. Qualcuno ha giustamente osservato che la risposta a chi nega l’annientamento non può essere solo una risposta basata su cifre, dati, documenti, prove e testimonianze. Lo sterminio non è solo una questione di numeri, argomenti o di storia. Uno dei tratti che caratterizzano il negazionismo è quello di ritenere ogni testimonianza diretta di un Ebreo una menzogna (Hitler definisce l’Ebreo un “maestro nell’arte di mentire”) e dunque lo sterminio un’invenzione della propaganda sionista mondiale. Ora, la testimonianza è l’essenza della nostra civiltà giuridica occidentale. Chi sono oggi i negazionisti che mutano pelle? Chi sono quelli che dichiarano che le camere a gas non sono mai esistite? Chi sono coloro che tentano di organizzare ed insegnare una menzogna così enorme? La loro “verità” è quella di Hitler, Mussolini e compagni. I negazionisti pensano che Hitler ha fatto quello che ha potuto, ma che la guerra totale contro gli Ebrei deve ancora essere portata a termine. Che cosa vuol dire negare che le camere a gas abbiano avuto luogo? Vuol dire assumerne la necessità nel domani. Magari servendosi delle tecnologie nucleari. La negazione di quel che ha avuto luogo è il “dover essere” dell’antisemitismo assoluto. I
negazionisti, cioè gli hitleriani della seconda e della terza generazione dopo la Shoah, sono andati costruendo il luogo della loro negazione nell’ombra propizia dell’accademia di periferia. Hanno approfittato di un atteggiamento eccessivamente difensivo, di un racconto affidato alla memoria “provinciale”, alla testimonianza, all’archivio e al lavoro degli storici, come se si trattasse solo di passato. Non anche, e soprattutto, di futuro. E hanno fatto buon uso dell’argomento sulla unicità di Auschwitz che lo ha relegato ad un indicibile, impensabile e dunque inesistente inferno sulla Terra. Argomento devastante che deve essere rovesciato: è un dovere etico pensare e dire Auschwitz e tutti gli altri campi di sterminio nazisti. I negazionisti odierni, i nazisti universitari, hanno prosperato nelle accademie di provincia, in quelle italiane non meno che in quelle tedesche, olandesi e francesi, dove il nazismo è stato ed è definito una “follia” a chiacchiere, dov’è mancato l’interesse e il bisogno di interrogarsi seriamente sul nazismo come fenomeno politico-ideologico in trasformazione. Così i negazionisti hanno trovato e trovano complicità, udienza e audience, si avvalgono di un’orchestrazione mediatica senza precedenti, traggono profitto da una politica nazionale e nazionalistica (variante sommessa della politica fascista e nazista) che parla con violenza in tutta Europa e nel Mediterraneo, che ha il gusto per il marchio e lo statuto speciale, che punta l’indice contro il diverso, lo sfigato, il rifiuto della società, sia esso straniero sia esso apolide sia esso concittadino. Il nazismo è una politica che va ancora indagata e messa a fuoco: questa “moda” non è passata, superata e separata. Al contrario ha un rapporto di collusione con le politiche criminali foriere dei futuri conflitti. Le camere a gas e lo sterminio degli Ebrei d’Europa hanno avuto luogo! Questo luogo non è in questione. Piuttosto in questione è il luogo di chi lo nega: questo può essere il tema di un Master di primissimo ed altissimo livello! Perché un mondo in cui viene messa in dubbio l’esistenza delle camere a gas, è un mondo che già consente la politica del crimine, la politica come crimine. Illustrare con dovizia di argomentazioni pseudo-scientifiche la tesi della Shoah come invenzione e leggenda, solleva definitivamente il problema della possibile risposta legale al negazionismo. In Italia, com’è noto, la negazione della Shoah non costituisce di per sé una forma di reato penale, diversamente da quanto avviene in altri Paesi più civili, come Inghilterra, Austria o Germania. Sull’opportunità dell’introduzione, anche in Italia, di una siffatta fattispecie penale, le opinioni sono divergenti. Non capiamo le riserve riguardo a una tale riforma normativa. Le libertà di pensiero e di ricerca non c’entrano assolutamente nulla. Anche un bambino capisce la differenza tra negare l’esistenza della Basilica di San Pietro in Roma e contestare la storicità della Shoah. Nel primo caso, si è semplicemente detta una fesseria, nel secondo, si è inteso deliberatamente oltraggiare la memoria delle vittime e dei loro familiari. E si è voluto evidentemente fomentare il ripetersi di atti di violenza e sopraffazione. Il messaggio è chiaro. La legislazione italiana vigente contro l’istigazione all’odio razziale giustificherebbe un procedimento penale, senza concedere quella grande pubblicità gratuita per il condannato, senza dare fiato alle trombe della negata libertà d’espressione e senza stimolare quella non poca solidarietà già modellata, scolpita e sparata su Internet e sulla stampa locale. Molte volte abbiamo visto degli oscuri personaggi diventare delle specie di eroi popolari, almeno in alcuni ambienti, per avere trascorso qualche ora in compagnia di accademici e premi Nobel della materia! Non basta, quindi, invocare una risposta da parte delle Autorità accademiche che, come si sa, possono fare piuttosto poco sul piano disciplinare. Il rischio, infatti, è quello di creare precedenti. Bisogna forse vigilare sui contenuti di tutte le lezioni accademiche irradiate su Internet? Qualcuno dirà: basta la web camera! Ahinoi, arma a doppio taglio. Che fare, dunque? Perché un Ateneo deve essere periodicamente messo alla berlina come una Università del negazionismo? Qualcuno ha consigliato d’intentare una causa civile per danni all’immagine, chiedendo un risarcimento economico al dipendente che ne leda la reputazione. Non crediamo che basti essere colpiti nel proprio portafoglio, per risolvere il problema. In Italia occorre una legge contro chi nega la Shoah. L’assenza di sentimenti e di empatia verso il popolo ebraico e Israele (ma anche verso la Palestina democratica e i profughi palestinesi) è un film già visto, spalleggiato da ricercatori pronti a riscrivere la storia ad uso e consumo di futuri rivoluzionari d’Italia e del Gran Califfato. La vita quotidiana è intrisa di violenza spurgata fuori a ritmi parossistici senza soluzione di continuità. È il segnale tangibile dell’estrema debolezza della nostra civiltà occidentale che sa rispondere alle tragedie umane e naturali, grazie a Dio ed alle leggi, ma di rimessa. Il linguaggio pubblico politico e istituzionale corrente è ufficialmente intriso di violenza. Le prime vittime sono i giovani e la verità della testimonianza delle vittime che subirono la Shoah. La scienza non può che reagire immediatamente. I ben noti canoni dialettici di matrice marxista e fascista, figli della stessa madre, attingono all’orrida ed oscena accademia negazionista, espressione di una sottocultura e di un’ideologia politica in cerca d’autore. Questa violenza contro la verità e contro la testimonianza, chiaramente sotto il candido manto buonista dei canoni “scientifici” più paludati, genera effetti devastanti e degradanti di forte impatto emotivo su tutti i giovani assetati di conoscenza e di libero pensiero critico. L’aggressività, a volte mielosa ed accattivante, si nutre dell’ignoranza di alcuni, sotto una densa cortina fumogena di solidarietà e comprensione per il caso umano in specie; è mutevole e ci interroga, com’è naturale che accada, sulla natura del nostro “essere” e del nostro “divenire”. La violenza è multiforme, camaleontica e caotica, alla ricerca di nuove forme di espressione e di adattamento. Ne ricerchiamo vagamente le cause e le radici nei problemi che assillano il mondo, senza soluzione. Di cosa stiamo parlando? Dei veri guasti e dei grossi pericoli che stiamo vivendo come Civiltà Occidentale e come Stati di diritto, abdicando la ricerca della verità, tra persecuzioni di cristiani e di cattolici in tutto il mondo, decapitazioni, commercio di esseri umani per espianto di organi, milioni di aborti, genocidi, Hiroshima culturale, guerre e carestie di matrice più o meno ignota. Una verità sacrificata sull’altare di poteri oscuri che i negazionisti della Shoah individuano facilmente nella matrice sionista, rifiutando a priori il confronto scientifico accademico che li farebbe sfracellare al suolo. In Italia e in Europa, senza una legge che condanni la negazione dell’evidenza dei fatti e delle testimonianze sulla Shoah, le università si svuoteranno di cervelli. Ma non a causa dei tagli alla ricerca pubblica: siamo ancora nella peggiore crisi economica dal 1929 causata dai politicanti male informati. Bensì perché l’Accademia italiana sta perdendo una “partita” storica: la sconfitta delle ideologie (fascismo e comunismo) ha lasciato un vuoto cosmico incolmabile nella formulazione di nuovi metodi di ricerca e di analisi scientifica della verità oggettiva fenomenica, laicamente intesa, davvero alternativi rispetto ai vecchi modelli marxisti sempre gravidi di sorprese non sempre piacevoli. Anche sul piano politico-elettorale. Chi non è cattolico, cristiano, ebreo o mussulmano come reagisce? Come può. L’autoreferenzialità e la pubblicità non hanno nulla a che spartire con la ricerca scientifica. L’assenza preoccupante di premi Nobel italiani dovrebbe insegnare qualcosa perché dimostra a che punto siamo arrivati. Abbiamo toccato il fondo. L’Olocausto è un fatto storico incontestabile, imbattibile sul piano scientifico. Ma per parlare della storia più terribile dell’umanità (finora) si cerca di negarla proponendo tesi assurde. Il libero approccio accademico è perfettamente legittimo nella misura in cui non violi il patto di fedeltà alla verità. Non del vincitore, ma dell’umanità che ha sconfitto il male assoluto sulla Terra nel 1945. È legittimo finanziare con soldi pubblici la ricerca di storie alternative? La funzione più nobile di una libera accademia dovrebbe essere quella di stimolare il confronto scientifico finalizzandolo alla ricerca della verità. Senza timore. L’Università non è un teatro di scena o di posa. È un’agorà della verità. Non si può e non si deve aver paura di studiare la verità, la “X” dove scavare! La Shoah è la più drammatica verità che la razza umana abbia mai affrontato nella sua storia. È la chiave di volta per capire di che pasta siamo fatti. La più complessa e vergognosa Storia del mondo irradiata nello spazio cosmico. Certamente ancora molto c’è da studiare, analizzare, capire, sviscerare nelle testimonianze, nelle cause e negli intrecci politico-ideologici più o meno oscuri, che ne hanno favorito l’attuazione industriale sulla Terra. L’industria nazista della morte di oltre 6 milioni di ebrei (cifra per difetto), senza contare tutte le altre vittime innocenti, non può essere semplicemente liquidata come “oggetto complesso, assurdo, incredibile, impossibile, opinabile”. L’uomo è un essere potenzialmente malvagio. Qui gli extraterrestri, fino a prova contraria, non c’entrano nulla. Hitler era un uomo malvagio. Una mente diabolica è capace di tutto. Anche di peggio. È accaduto nella nostra Storia che da una finestra dell’inferno si affacciasse un essere sterminatore che, grazie a Dio, siamo riusciti a ricacciare all’inferno. Viviamo, dunque, in un tempo di Pace relativa, forse per miracolo cosmico. Un tempo per riflettere e fare ricerca. Purtroppo, ahinoi, potrebbe accadere di nuovo. Il problema, dunque, dovrebbe essere quello di concentrare tutti i nostri sforzi nella prevenzione, bloccando all’istante i dittatori del futuro e le loro idee catastrofiche. Una Democrazia come l’Italia deve e può permetterselo. L’Università può fornire gli strumenti e i cervelli giusti per farlo, perché quello che conta è non far passare il messaggio, molto più subdolo ed inquietante, per cui la malvagità sia un’invenzione e che ciò che occorre colpire è il vittimismo, una forma di piagnisteo messo in piedi dal “perdente sionista che non ha potuto scrivere la storia, perché non sa reagire altrimenti alla sua cattiva sorte”. Come Civiltà Occidentale che affonda le proprie radici nella cultura giudaico-arabo-cristiana, laica, libera e democratica, non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo permetterlo. Il regime nazista ha ordito la più orribile e scientifica macchinazione di morte per vaporizzare il popolo ebraico sulla Terra e per seminare l’odio razziale in tutte le altre ideologie della storia. Anche nel terrorismo globale di matrice islamica. Questa è la verità. I giovani ne sono consapevoli oppure, disorientati, pensano che sia soltanto un orribile “incubo sionista” raccontato dai loro nonni per spaventarli? O la nostra Civiltà avrà il coraggio della difesa e della controffensiva (bisogna tutelare il valore assoluto della testimonianza oggi sotto attacco) versus le tesi negazioniste ed oscurantiste, o finiremo di esistere quanto prima. Il diritto, la libertà e la scienza sono patrimonio dell’umanità. E i saperi non possono abdicare al confronto ed alla lotta verso le idee negazioniste di coloro che fanno proprie le tesi che annullano la verità oggettiva della storia. I dispositivi portatili (iPad, tablet, iPhone ed altri) aiutano in questo: i media sono accessibili a tutti in tempo reale. Faremmo bene a combattere ogni forma di ideologia maligna sul nascere invece di abituarci alla superfetazione del male. Per quanto raccapricciante possa sembrare il fenomeno, la tv e Internet stanno producendo un effetto perverso sull’umanità: poiché fa più “notizia” il male rispetto alle sovrabbondanti “non notizie” del bene, la morale e l’etica personale e pubblica stanno pericolosamente mutando. È lecito romanzare la Shoah? Il film di Quentin Tarantino “Inglorious Basterds” (Bastardi senza gloria) è una ricostruzione della storia assai ardita e per questo molto criticata. Nel film il regista fa morire tutte le più alte gerarchie della Germania nazista in un attentato di massa, in verità mai avvenuto. Inevitabili furono la reazioni emotive del pubblico, direttamente connesso con le vicende rappresentate, o meglio con la verità storica cui esse rimandano:“Ecco quel che si meritavano i nazisti!”, mentre Brad Pitt scortica lo scalpo dei soldati tedeschi uccisi. Il piacere della vendetta, il godimento viscerale nel vedere i nazisti uccisi e pestati da un gruppo di killer Ebrei, tra risate goffe e nervose, battiti di ciglia e bocche spalancate, durante le proiezioni e le trasmissioni televisive, fa riemergere nelle vittime dell’orrore nazista, sentimenti latenti, sotterranei. Poco politicamente corretti. Nella sua unicità all’interno della filmografia sulla Shoah, nel suo programmatico e dichiarato revisionismo, con l’arroganza propria di chi vuole riscrivere la storia, il film di Tarantino riesce a toccare corde mai prima d’ora accessibili. Non quelle della commozione, non quelle dello sdegno. Quelle più animali e più intime, le più segrete, quelle della rivalsa. È questa l’alchimia sprigionata dall’incontro tra il mondo ebraico, la cui psiche collettiva non ha certo attraversato intonsa il Ventesimo secolo, e l’universo violento di Quentin Tarantino. Che dai tempi di Kill Bill ha abituato i giovani all’etica del sangue, della vendetta, dominante e ossessiva. Certamente l’introduzione della fantasia nella storia è ingannevole e pedagogicamente sbagliata. È anche un’operazione dissacrante ma autorevole. Ma è lecito romanzare la Shoah? Può arrecare danno alla Memoria? O invece, con il venire meno dei testimoni diretti, proprio l’arte potrà essere custode della Memoria e interlocutrice privilegiata della società civile, soprattutto delle nuove generazioni? Il rischio che la versione del film venga presa sul serio, è altissimo. Anche perché in grado di generare un filone cinematografico sulla Shoah improntato sul vero revisionismo storico. Qualcuno dirà che l’arte di Tarantino non ha mai avuto alcuna pretesa di valore storico e che i suoi film, poco più che favole per bambini, sono affreschi sanguinolenti della realtà nella sua multiforme attualità. Una favola sulla Shoah, tuttavia, in grado di risvegliare e portare alla luce del sole le emozioni più ferine che abitano l’animo umano. Il livello di attenzione è già stato superato? Se non si provano più emozioni verso il nostro prossimo in difficoltà (verso gli “sfigati”), se l’indifferenza alle sofferenze di una persona prende il sopravvento sul primo dovere di prestare soccorso, se non riconosciamo più le manifestazioni della malvagità umana che sta contaminando tutto il genere umano, allora siamo già a un preoccupante punto di non ritorno che, di fatto, riaprirà prima o poi quell’immonda finestra infernale sul mondo intero, generando altri mostri della storia. Il male non ha vinto finora perché come cristiani (in senso lato) non lo abbiamo permesso. Occorre contrastare il male culturalmente, liberando modelli positivi emulativi nella società, sui mass-media, nell’Accademia, nella cultura del lavoro, nella Chiesa. Si produrranno effetti a cascata in grado di arginare il profluvio di notizie e talk-show negativi che ammorbano il mondo senza offrire soluzioni ai problemi delle persone. In fondo, il negazionismo lo possiamo leggere come un altro effetto perverso della sindrome di Scampia. Si litiga su tutto in famiglia e poi nella società, nella politica, nelle associazioni, nell’Accademia, nella Chiesa e finanche nelle istituzioni, proiettiamo quelle frustrazioni che non siamo riusciti a combattere privatamente. L’inventata struggente spiegazione che vogliono farci digerire è sempre questa: la periferia non funziona! La logica agghiacciante della sindrome di Scampia, può giustificare la cultura antisemita, antiebraica, antisraeliana ed antisionista dominante in Europa, nel Mediterraneo e nel resto del mondo? L’espertume accademico inorridirà: il mondo accademico italiano difende la libertà della scienza “periferica”, territoriale, non ha tempo di occuparsi di “politica”! Semmai il problema va ricercato nei tagli del governo alla ricerca che obbligherebbero a percorrere queste vie alternative di visibilità. Ma se i fatti dell’Olocausto sono noti, se il bestiario dei negazionisti è arcinoto, se la degenerazione dell’umanità fu vinta per scelta politico-militare degli Alleati, sconfiggendo l’ideologia nazifascista, che cosa bisogna inventarsi per arrestare la piaga del negazionismo? Che cosa può fare l’Accademia italiana per sconfiggere il male? Le Università di provincia corrono il rischio, in quanto territoriali e decentrate, ossia lontane dai grandi centri del sapere globale quasi sempre sotto osservazione, figlie o meno dell’Accademia, di diventare l’utile e sicuro luogo di coltura dei teorici delle nuove rivoluzioni? In tal caso le infezioni dovrebbero essere contenute con un sano piano di quarantena. Non negando la libertà d’insegnamento. Più i giovani vivono nella desolazione, più prevalgono gli istinti primordiali di sopraffazione. E l’anima ha bisogno di valori universali, punti di riferimento per la giusta rotta. Se non sappiamo dove andiamo, poco aiuta cantare l’Inno nazionale. Dobbiamo impegnarci a risanare le nostre Università con la buona ricerca, ripulendole dallo squallore desolante delle finte libertà e verità negate. Perché l’Accademia, soprattutto quella territoriale, è una cosa sola con il mondo della ricerca scientifica internazionale. È universale. Dunque, tutto quello che si produce risuona nel mondo nel bene e nel male. I luoghi infetti depressi e fetidi vanno sanati. L’accanimento terapeutico è inutile perché non vi può essere una “scienza di periferia” diversa da quella universale. Ben venga la Riforma dell’Università se premierà la buona scienza della verità e del merito, senza aumentare inutilmente le tasse. Perché l’Università pubblica, come Internet, dovrebbe essere libera e gratuita. La conoscenza non ha prezzo se è al servizio del bene comune. Per questi motivi non vi può essere neutralità nella lotta contro la malvagità che alberga nell’Uomo. La neutralità è un’assurda invenzione del negazionismo, una via amorale molto comoda anche tra i media, una pia illusione proditoriamente abusata anche da un certo giornalismo dilettantistico che si è imposto sui quotidiani e su Internet. Dove sono finite le grandi inchieste finalizzate non alla distruzione della persona, ma all’accertamento dei fatti e delle verità sulla complessa e multiforme realtà in cui viviamo dopo la Shoah? Oggi tutto è spettacolo, delazione e dietrologia. Per alimentare il male, si è disposti a tutto pur di raccontarlo amoralmente ed asetticamente senza esprimere raccapriccio e disgusto. Eppure certi fatti non si commentano da soli. Un’ipocrisia che davvero non trova giustificazione alcuna. E che prefigura la colpevole assenza di criteri di giudizio e di confronto sulla Shoah, sulla storia del popolo ebraico e dello stato di Israele. In Italia, in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo islamico, che cosa sta accadendo? Chiaramente le forme e le ragioni politiche di occultamento e di travisamento della verità sull’Olocausto (e sull’utilizzo del famigerato gas Zyklon B) fanno parte della storia. Oggi la parola negazionismo, abusata espressione giornalistica, non rende giustizia alla più perniciosa ideologia del XXI Secolo che amalgamerà nuovamente il male nel mondo. Bisognerà inventare un nuovo termine. Per la cura raccomandiamo una visita al mausoleo dell’Olocausto in Gerusalemme (Israele), lo Yad-Vashem (www.yadvashem.org) unitamente alla visione ed all’ascolto delle testimonianze delle vittime sopravvissute alla Shoah, raccolte nella grande Videoteca universale, accessibile su Internet, della Fondazione (http://college.usc.edu/vhi/) creata nel 1994 dal regista Steven Spielberg (Shoah Visual History Foundation), ed alla scoperta di tutti i campi di sterminio e di concentramento d’Europa e d’Asia. Oggi Israele brevetta senza sosta nuovi servizi di pronto soccorso e di evacuazione di massa, sperimenta catene mediche e paramediche veloci, dota gli ospedali di grandi sotterranei anti-nucleari (cioè a prova di bombe H a fusione, non soltanto di bombe a fissione). La popolazione compie esercitazioni per il caso, unico al mondo, come minacciato a chiare lettere in televisione, sui giornali, su Internet, all’Assemblea Generale dell’Onu che nemmeno ha sussurrato una risposta, di una distruzione di massa, ovvero di un improvviso nuovo sterminio degli ebrei. Ogni famiglia nello Stato ebraico riceve dal postino come normale posta brochure aggiornate su cui (illustrate con pacifiche immagini di papà, mamma e bambini) si descrive l’eventualità di attacchi missilistici e nucleari. Il Paese degli ebrei è divorato dalle spese di difesa militare, di scudi spaziali. L’Europa che fa? È orribile scriverlo nel Giorno della Memoria, dopo che già molti ne sono trascorsi da quando la minaccia all’esistenza stessa di Israele è diventata quasi un mantra di pubblico dominio. Queste oscene esternazioni, spesso unite ad affermazioni che negano la stessa esistenza della Shoah, sono uscite dalla bocca di leader, imam, militanti del terrorismo, che percorrono sicuri la strada verso la nuclearizzazione di Israele. Che l’Onu dovrebbe prevenire. Tra l’altro i missili Shahab (raggio fra i 1300 e i 2000 chilometri) possono pioverci addosso, anche qui in Italia, in qualsiasi momento! Gli Hezbollah libanesi, secondo alcuni analisti, avrebbero una potenza balistica di 60mila missili di ogni gittata. Hamas a Gaza, oltre a schiere di terroristi suicidi di ogni dove, assemblano armi sempre più perfezionate capaci di raggiungere Tel Aviv. All’origine dello sterminio degli Ebrei in Europa vi fu una struttura psicologica e propagandistica che delegittimò la stessa esistenza degli Ebrei. Oggi un eventuale attacco a Israele sarebbe sempre più strutturato con gli stessi elementi, le stesse accuse di complottismo, di sete di sangue, di vorace passione per il potere e per il danaro che hanno consentito e promosso il genocidio degli ebrei descrivendoli come esseri subumani, indegni di vivere. Anche perché è ormai semplicemente impossibile sostenere che l’attacco a Israele sia legato alla critica alla sua politica quando si verifica che gli attacchi agli Ebrei europei hanno superato quelli immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale. L’antisemitismo non è cresciuto a causa della critica allo Stato d’Israele, è la delegittimazione dello Stato di Israele che è cresciuta a causa, e di concerto, con l’antisemitismo, sempre più nutrito dall’integralismo islamico. Anche questo dobbiamo denunciare. Ma è questo il compito di chi ha negli occhi le immagini del bambino del Ghetto di Varsavia con le mani in alto. Vogliamo che non succeda “mai più”? Saremo in grado di riconoscere i segni di un futuro più spaventoso olocausto? Oggi dipende da ciascuno di noi. Solo così capiremo perché Dio ha permesso tanto orrore. Se qualsiasi cosa si scriva e si dica nel Giorno della Memoria, non servirà a porre fine all’antisemitismo ed all’antisionismo in Europa e nel mondo, allora sarà difficile credere nel potere della Memoria. E questo giorno varrà come un blando tranquillante, un ipnotico per lasciar passare tutto il resto. Potrà funzionare per blandire per alcuni minuti la coscienza europea che mal sopporta il crimine della Shoah, ma finirà per generare assuefazione tra i politici e gli intellettuali di varie appartenenze che avranno la sensazione di lavorare per opporsi all’antisemitismo ineluttabile industria di ogni persecuzione. Così anche coloro che si riuniranno per ricordare i morti nella Shoah, e tutti gli altri, daranno ragione alle parole dello scrittore yidish, L.Shapiro: “l’antisemitismo è eterno come è eterno Dio”. Robert Wistrich, il maggiore studioso di antisemitismo afferma che “probabilmente sta peggiorando”. Lo dimostrano i dati del mondo intero, su Internet esso è moneta corrente non sanzionata, scorrevole, spumeggiante. Nel mondo arabo è obbligatorio. Elie Wiesel al Parlamento italiano mormorò che dopo aver pensato che gli Ebrei ne fossero usciti con la seconda guerra mondiale, gli toccava ora di vedere il ritorno persino di un antisemitismo genocida. Oggi circa il 44 per cento degli italiani non ha simpatia per gli Ebrei. I numeri sono facilmente reperibili in Parlamento. È pesante essere (s)oggetti di antisemitismo. Chi non ne ha esperienza non lo sa. Le caricature antisemite sono molto di moda in Italia, in Europa e nel mondo. Chi difende Israele rischia grosso. Quanti conoscono la conferenza antisemita di Durban contro il rapporto Goldstone? Ci siamo illusi. Il sionismo nasce come uno dei tanti movimenti nazionali dell’Ottocento con la speranza della normalizzazione, della fine dell’antisemitismo. Una volta nella loro terra, gli antisemiti non avrebbero avuto più ragione di perseguitare gli Ebrei. È accaduto l’esatto contrario: la Lega Araba, nata con questo scopo, e le Nazioni Unite hanno fatto qualsiasi cosa per nullificare la normalizzazione, rendendo la nazione ebraica una continua anomalia. Qui nasce l’antisemitismo politico ideologico. Esso segue nei secoli a quello religioso e poi a quello scientifico dell’illuminismo, e poi a quello razziale dei nazifascisti. Ma il minuto dopo la “partizione” dell’Onu i Paesi arabi attaccarono Israele e l’Onu nemmeno sospirò per la violazione alla sua stessa risoluzione. Gli Ebrei erano di nuovo nella posizione di accusati. Il doppio standard è la cartina al tornasole dell’antisemitismo europeo. Nel 1982 al tempo di Sabra e Chatila, quando 800 palestinesi furono sciaguratamente uccisi dai cristiani maroniti, nella zona si trovava l’IDF che non li difese! Israele fu accusata dell’eccidio con toni definitivi. Nello stesso anno Hafez Assad di Siria non subì nessuna critica per avere ucciso a Hama decine di migliaia di suoi compatrioti. Il doppio standard e la demonizzazione sono due metri indispensabili per capire l’antisemitismo. La Stella di David cucita sul vestito alla maniera nazista, oggi è quella di Israele. L’illuminismo promise tutto al cittadino e niente al popolo ebraico. I fascisti e i nazisti li uccidevano in ogni caso, il comunismo li perseguitava per il loro cosmopolitismo. E anche chi li nascondeva. Oggi, proferire e sussurrare la verità su Israele, è più che sufficiente per finire su una vignetta satirica con il naso adunco e la stella di David cucita sul petto. Yerushalaim shel Zahav. Chi tocca un Ebreo è come se toccasse ognuno di noi. Il Giorno della Memoria della Shoah, il 27 Gennaio, non basta più. Le manifestazioni in Europa, in Italia e nel mondo richiedono ormai un anno intero. È un buon segno. Perché la Memoria della Shoah, come la Lista di Oscar Schindler, è Vita. La Shoah e l’antisemitismo omicida, sono una storia che non passa mai. Più di otto milioni e mezzo di persone attendono Giustizia e Santificazione. Tre milioni di Nomi mancano ancora all’appello dello Yad Vashem a Gerusalemme, il monumentale Memoriale della Shoah. Nel ventunesimo anniversario della magistrale pellicola cinematografica Schindler’s List di Steven Spielberg e nel settantunesimo anniversario della liquidazione del Ghetto di Cracovia il 13-14 Marzo 1943. Israel Meir Lau, già rabbino capo di Israele e sopravvissuto a Buchenwald all’età di otto anni, spiega quanto sia stato importante, per i superstiti come lui, riuscire a ricominciare a piangere per riconoscersi uomini. Lo ha fatto a Roma raccontando un episodio toccante della sua vita, sottolineando quanto questo ritorno al pianto sia necessario per avere la possibilità di ridere ed essere felici. La Memoria dell’orrore, portatrice naturale di lacrime, ha senso solo se apre al suo superamento positivo. L’Europa l’ha finalmente capito celebrando per la prima volta nel 2013 anche al Parlamento Europeo il Giorno della Memoria. L’iniziativa, realizzata su impulso dello European Jewish Congress, si svolge alla presenza del Presidente del Parlamento e della Commissione europei. Con parole di ammonimento contro il nuovo fluire di venti d’odio nelle società occidentali. L’Europa deve svegliarsi immediatamente e contrastare con tutte le sue forze i fenomeni del razzismo e dell’antisemitismo. Tra le realtà particolarmente angoscianti, l’aumento esponenziale di attacchi antisemiti in Francia e in altri Paesi dell’Unione, l’irruzione sulla scena politica di Alba Dorata in Grecia e del partito di estrema destra Jobbik in Ungheria. Tra le varie testimonianze quella di Samuel Pisar, sopravvissuto ad Auschwitz, avvocato e autore di fama internazionale, che ricorda, nella commozione generale, la sua esperienza di deportato. Toccante è la recitazione di un “kaddish” da parte di due sopravvissuti, Bat Sheva Dagan e Jehuda Widawski. Presente in aula anche Claudia De Benedetti, membro dell’esecutivo Ejc per il quadriennio 2012-2016 e consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. “La buona memoria. Gli studenti protagonisti”: con questa iniziativa Gariwo, la foresta dei Giusti ha scelto di celebrare il Giorno della Memoria. Quattro quadri teatrali ciascuno dedicato al ricordo di una figura esemplare, il norvegese Fridtjof Nansen, ideatore dell’omonimo passaporto che negli Anni Venti e Trenta permise a 450mila apolidi di immigrare in un Paese diverso da quello di origine, il bulgaro Dimitar Peshev che si oppose alla deportazione degli Ebrei nel suo paese, il presidente ceco Vaclav Havel e il giornalista libanese Samir Kassir. Così Gariwo, in collaborazione con l’Associazione culturale Ser Tea Zeit, invita gli studenti a riflettere sulla storia lontana e recente. Il 6 Marzo è la giornata che il Parlamento europeo ha deciso di intitolare al Ricordo dei Giusti, di coloro che in tutto il mondo hanno messo a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. Il Giorno della Memoria è anche dedicato alle Resistenze. Milano fu senza dubbio protagonista della Guerra di Liberazione condotta dai partigiani e dai patrioti. Come ogni anno, il capoluogo lombardo ricorda questi fondamentali anni della sua storia, quando alla violenza ed alla prevaricazione di fascisti e nazisti al governo della città, si affiancarono storie di coraggio di oppositori politici, militari, patrioti e partigiani. Tanti di loro, scoperti, passarono per l’ex Albergo Regina di Milano, sede del comando SS e quartier generale della Gestapo dal 1943 al 1945, dove furono imprigionati e sottoposti a torture ed efferati interrogatori. È un dovere onorarli. Una corona d’alloro e sei lumi vengono posti sul memoriale della Shoah in campo di Ghetto Nuovo in ricordo di altrettanti milioni di Ebrei deportati e sterminati nei campi di concentramento. Celebrare adeguatamente il Giorno della Memoria, recitando un salmo in ricordo dei caduti e il kaddish, significa prendere degli impegni precisi affinché le persone capiscano cosa sia il negazionismo, un fenomeno che si diffonde sempre più in Italia. Si è ricominciato a dire che la Shoah è un falso. I muri delle nostre città ne sono imbrattati. I resposansibili codardi sono a piede libero. Negare la Shoah è come negare la sofferenza di milioni di persone che oggi non ci sono più e di coloro che hanno avuto la fortuna di sopravvivere alla persecuzione. Non possiamo polemizzare o attuare ritorsioni contro coloro che vogliono negare questa tragica realtà, dobbiamo mantenere vivo questo ricordo e deve essere una fonte di ispirazione nel nostro vivere di oggi, un vissuto che non ci spinga più rapportarsi in maniera diversa tra esseri umani, dando un diverso valore alla vita. Gli Ebrei non partecipano come ospiti, ma con la loro storia, con la loro cultura e la capacità di parlare e di esprimersi secondo le loro tradizioni che sono una parte integrante e irrinunciabile della realtà sociale italiana e di ogni regione d’Italia e d’Europa. Un sentimento istituzionale e culturale assai poco diffuso in Abruzzo. Il negazionismo è una realtà a cui dobbiamo opporci anche citando i recenti fatti perpetrati da ragazzi giovani che hanno sposato le posizioni negazioniste e che considerano gli Ebrei come dei nemici. In tempi di crisi simili a questi, nascevano correnti di pensiero che si sono poi tradotte nei campi di concentramento. Non possiamo affrontare la crisi negando la Storia. Il presidente Zaia ricorda l’appuntamento per il 2016, momento in cui si celebreranno i 500 anni del Ghetto ebraico di Venezia, confermando l’impegno e la collaborazione dell’amministrazione regionale e ricordando il motto, sempre valido che chi tocca un Ebreo è come toccasse ognuno di noi. Molti articoli, come prevedibile, sono dedicati dai giornali al tema della Memoria della Shoah. Purtroppo, anche alla sua profanazione, come avvenuto a Roma con i nuovi episodi di violenza verbale sui muri. Nell’Est, come in Ungheria, nuovi venti d’odio e di antisemitismo spirano. Si consolida l’esperienza del Memoriale della Shoah di Milano ed è di grande interesse perché la Shoah non diventi un guscio vuoto, non si fossilizzi la Memoria e la sua separazione dalla necessità di approfondire gli aspetti storici dello Sterminio che dovrebbe occupare anche parte delle prediche in Chiesa di sacerdoti e vescovi cattolici. Densissimo il palinsesto radiofonico e televisivo. Infinite le storie. Come quella di Arpad Weisz, allenatore che fece grande Inter e Bologna, trovò la morte ad Auschwitz. Maria Elena Vincenzi denuncia gli ultimi sviluppi sulla cosiddetta “lobby Roma” attraverso le rivelazioni di un pentito, Edoardo d’Incà Levis, che avrebbe iniziato a denunciare un malcostume di cui è stato artefice. Le reazioni a più voci dei leader ebraici italiani sui vari temi legati al Giorno della Memoria ed ai suoi avvenimenti, possono essere riassunte dalla dichiarazione del presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. “Il Giorno della Memoria celebra il ricordo della tragedia della Shoah. In questa data simbolica che coincide con l’apertura dei cancelli di Auschwitz, Roma, l’Italia e l’Europa intera riflettono anche e soprattutto sulle cause che hanno portato al più spietato e scientifico sterminio della Storia dell’Uomo, affinché i nostri figli non vivano mai più un orrore simile. Le leggi razziste non possono essere descritte come uno scivolone nella Storia del Novecento, non è permessa la decontestualizzazione. Le leggi razziste sono parte della politica e della storia di tutto il fascismo in Italia. Le leggi razziste sono il frutto di un progetto politico che annientò le libertà fondamentali dell’Uomo. Il fascismo soppresse il pluralismo, perseguendo la concezione totalitaria del potere. Non è un caso se i padri fondatori della nostra Repubblica Italiana decisero di imporre con la Costituzione il divieto di ispirarsi al fascismo. Come il fascismo aggredì le autonomie individuali e sociali, così i Costituenti le hanno ripristinate, stabilendo un perimetro invalicabile di libertà individuali. In questa fase concitata che vive la politica italiana la Comunità Ebraica di Roma non entrerà nel merito dei programmi e delle alleanze, ma resterà vigile affinché i principi costituzionali siano rispettati e affinché la Memoria non sia attentata”. Non è possibile infatti un giudizio parziale sul fascismo e non ci si può esimere nel condannarlo nell’interezza della sua disfatta ideologica: non dimentichiamoci che, oltre le leggi razziali, il regime di Mussolini ha cancellato la libertà di pensiero e di espressione, è stato autore di stragi in Etiopia e creò quel tessuto discriminativo che ancora oggi stiamo combattendo, contro Rom e tutte le altre minoranze a lui invise. Chi emette a vario titolo un giudizio storico parziale dimentica quello che accadde in Italia, che non ebbe solo una “connivenza inconsapevole”, ma specifiche responsabilità nell’Olocausto, perché le centinaia di migliaia di Ebrei deportati dall’Italia furono richiesti a Mussolini dal governo di Hitler, che aderì incondizionatamente. Emettere un giudizio parziale nel Giorno della Memoria è un’offesa e una grave mancanza di rispetto e non basta essere presenti alle cerimonie per dirsi amici di un popolo. Il 27 Gennaio è diventata la giornata che, per una legge della Repubblica, è dedicata alla memoria della Shoah. Tantissime sono, ogni anno, le manifestazioni, tant’è che inizia ormai a metà Gennaio e si conclude verso metà Febbraio: il dovere della memoria è radicato nel pensiero ebraico. Le due festività ebraiche di Pesach (Pasqua) e di Purim, ricordano l’uscita dalla schiavitù d’Egitto e lo scampato pericolo, durante l’esilio nell’antica Persia, quando anche allora un uomo, Aman, aveva progettato di annientare il popolo ebraico. È importante, tuttavia, non pensare che le manifestazioni, forse anche troppo numerose, possano servire da sole, come se bastasse adempiere ad un dovere della Memoria per magari ripulirsi la coscienza; è al contrario necessario, soprattutto coi giovani, ma non solo coi giovani, analizzare le cause che hanno portato agli orrori della Shoah. Auschwitz è il risultato finale di una serie di atti iniziati tanti anni prima, nell’indifferenza di troppi, quando non vi era solo complicità e che hanno visto anche il nostro Paese come tanti altri in Europa (e quindi non solo la Germania nazista) preparare poco per volta quello che è stato uno dei momenti più tragici della storia umana. Solo se si fa quest’attenta analisi, si eviterà che simili crimini possano ripetersi in futuro. Insomma, lo spirito del 27 Gennaio va rispettato per tutto l’anno, e non solo nella giornata ufficiale della memoria, perché non serva solo per pubblicità politico-elettorale. La Shoah è una di quelle parole che hanno sfigurato l’Umanità, e la sfigurano tuttora. Perchè se il fascismo, il nazismo e, più tardi, il comunismo se ne sono andati, l’antisemitismo no, è rimasto. Perché in una specie di alleanza oggettiva con partiti che, come lo Jobbik in Ungheria, non temono più oggi di dichiararsi pubblicamente nemici di minoranze e della democrazia, l’altromondialismo, una certa sinistra, numerose Ong e il fondamentalismo islamico, hanno riattivato il morbo dell’antisemitismo. Un male in piena mutazione che attacca il più grande sistema immunitario mai concepito per lottare contro l’antisemitismo. Un morbo dal quale anche l’Italia non è immune. Lo provano gli ennesimi oltraggi alle vittime della Shoah e l’antisemitismo sui muri di Roma, la capitale d’Italia. Con spray nero. Come noto, l’antisemitismo coincide con l’antisionismo ed infatti un altro slogan riporta: “Israele boia. 27 gennaio: non ho memoria. Israele non esiste, morte ai sionisti”. Non mancano le svastiche di vernice nera realizzate sulle lapidi di partigiani e patrioti. Accanto, con la stessa vernice, altri insulti. Le indagini non bastano. L’Italia non decise di perseguitare e sterminare i propri Ebrei per compiacere un alleato potente. Le affermazioni contrarie sono destituite di senso morale e di fondamento storico: le persecuzioni e le leggi razziste antiebraiche italiane, come è ben noto, hanno avuto origine ben prima della guerra e furono attuate in tutta autonomia sotto la piena responsabilità dal regime fascista, in seguito alleato e complice volenteroso e consapevole della Germania nazista fino a condurre l’Italia alla catastrofe. Furono azioni coerenti nel quadro di un progetto complessivo di oppressione e distruzione di ogni libertà e di ogni dignità umana. Le sconcertanti dichiarazioni secondo le quali nel corso della Shoah da parte italiana “ci fu una connivenza non completamente consapevole” e “responsabilità assolutamente diverse” rispetto a quelle tedesche, sono da respingere e dimostrano quanto ancora l’Italia fatichi, al di là delle manifestazioni retoriche, a fare seriamente i conti con la propria storia e con le proprie responsabilità. Cosa possiamo dire oggi ai nostri giovani delle responsabilità italiane durante il fascismo e durante la guerra? La Cancelliera Angela Merkel dichiara: “Noi siamo responsabili di questa immane tragedia per sempre”. In fondo anche l’Italia dovrebbe dire questo. Anche quella dell’Italia è una responsabilità perpetua, un aspetto sul quale dobbiamo riandare con la memoria per essere molto attenti ad evitare che piccoli focolai che ogni tanto si manifestano possano di nuovo nell’indifferenza dare luogo a un ritorno di cose che l’Umanità non deve mai più permettersi. Che significato ha per l’Italia intera il recupero della Memoria territoriale? Ha un significato terribile e importantissimo perché richiama e richiamerà quotidianamente la memoria di fatti che non possono essere dimenticati, non possono cadere nell’indifferenza. Creare Musei della Memoria è un’esperienza davvero sconvolgente. Visitare i luoghi della deportazione e dello sterminio significa restituire, per quanto possibile, l’emozione di chi qui iniziava un viaggio di cui non conosceva la destinazione! In questo momento in cui è facile che tutto si dimentichi, presi come si è dalle preoccupazioni della vita moderna e dell’avvenire, è fondamentale soprattutto per i giovani che non hanno memoria neanche indiretta di questi terribili avvenimenti, tornare, anche perché il rischio della discriminazione e dell’antisemitismo è purtroppo ben presente ancora e va combattuto. Tutti coloro, anche tra i comunisti, che emettono un giudizio storico parziale, dimenticano quello che accadde in Italia. Che ebbe specifiche responsabilità dirette nell’Olocausto, perché le centinaia di migliaia di Ebrei deportati dall’Italia, tra cui moltissimi bambini, furono richiesti a Mussolini dal governo di Hitler. Gli autori delle tesi e delle scritte negazioniste, devono essere severamente puniti. Cartelloni anti-Memoria della Shoah, sono ormai all’ordine del giorno in Italia, in Europa e nel mondo. Le scritte recitano: “Sei milioni numero truccato, antisemitismo non è reato”. I cartelloni vengono subito rimossi, ma resta l’indignazione. Ancora oggi dobbiamo assistere ad atti razzisti e antisemiti che non possono essere tollerati né a Roma né su Internet né altrove. Il fenomeno dell’antisemitismo, nonostante il lavoro e la collaborazione tra le Istituzioni e la società civile, è un tumore ancora presente nella nostra società. Occorre protestare contro tutti gli antisemitismi che in Europa provano a riemergere. Non basta spegnere le luci del Colosseo per denunciare gli atti razzisti in Ungheria commessi dal partito neo-nazista Jobbik. Occorre denunciare quello che in queste ore si sta verificando in Europa. Occorre istituire in Italia il reato penale per chi nega la Shoah. L’Olocausto è una pagina che pesa e peserà sempre sulle nostre spalle di uomini e donne di un’Europa non ancora al sicuro da rigurgiti, da ricerche di presunti “diversi”, soggetti deboli su cui scaricare le difficoltà economiche, di razzismo e in particolare di antisemitismo-antisionismo, che funziona come un vero e proprio termometro della democrazia e dei rapporti civili. Gli Stati Uniti d’Europa saranno fondati sulla Memoria della Shoah. Oggi la Chiesa cattolica e il popolo ebraico sperimentano un avvicinamento e una comprensione impensabili qualche decennio fa. E non si tratta di una moda. È una consapevolezza che poggia sulle esistenze cancellate nel cuore del Novecento, ma che si lascia portare, in una memoria che lega la lunga catena delle generazioni, da una speranza che attraversa i secoli. La Giornata della memoria istituita in Italia nel 2000 per commemorare le vittime della Shoah è divenuta un fenomeno di vasta portata, che coinvolge capillarmente e in modalità diverse scuole di ogni ordine e grado, istituzioni, media, ma che in questo enorme sviluppo delle iniziative, sembra assente il riferimento alla portata internazionale della giornata ed essa appare quasi esclusivamente, nella percezione comune, come il risultato della legge varata dal Parlamento italiano. Tragica è la vicenda dei bimbi Ebrei all’Hotel Meina, sul Lago Maggiore, teatro della prima strage di Ebrei in Italia. Einaudi ha pubblicato il libro “La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938-1945”(pp. 345) dello storico Bruno Maida. “I bambini crescono e diventano schifosi ebrei” – rispose un ufficiale tedesco a chi gli chiedeva con quale animo teneva prigionieri dei bambini all’Hotel Meina. Una frase che racconta tutta la disumana ferocia dell’agire dei nazisti che non risparmiava neppure i più piccoli. Anzi, su di essi era persino più scientifico. L’annientamento delle giovani generazioni veniva infatti visto non solo come la garanzia di un futuro “judenfrei”, libero da Ebrei, ma rinviava anche alla consapevolezza che la guerra condotta contro l’infanzia non era “un sottoprodotto del conflitto bellico o del genocidio ma la ragione stessa della Shoah”. È da questa considerazione che lo storico Bruno Maida prende le mosse per raccontare cosa comportò essere bimbi e ragazzi Ebrei sotto il nazifascismo. Il libro ripercorre tutte le tappe del progetto di annientamento partendo da quello che fu il punto di non ritorno, l’adozione delle leggi razziali, che costituirono la prima ferita nell’identità, il primo passo verso la catastrofe. “Dal 1938 in poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8 settembre. Un incubo che significò – spiega Maida – abbandonare la propria casa e il mondo conosciuto, nascondersi e nascondere il proprio nome, perdere la vita o le persone amate, assistere alla cancellazione progressiva di tutto ciò che si conosceva come luoghi, oggetti, abitudini”. L’autore si muove per gradi, con continui riferimenti a ciò che accadeva anche nel resto dell’Europa occupata. Ma soprattutto cerca di ricostruire, attraverso le testimonianze, i traumi e gli adattamenti che i bambini dovettero affrontare, tenendo conto delle varie fasce di età, ovvero quanti nacquero in quegli anni e quelli che invece ci arrivarono un po’ più grandicelli, adolescenti. Anche se, quasi inevitabilmente, la prima considerazione riguarda gli adulti, padri e madri, i quali si accorsero di colpo “di non essere più in grado di fornire le sicurezze necessarie; non erano eroi pronti a salvare i propri figli”. I bambini vissero dunque una “brusca caduta di fiducia nel mondo, che si espandeva dalla famiglia a tutte le persone”. E di conseguenza anche alle cose. Così persino “la casa, che rappresentava un luogo di protezione, diventava – spiega Maida – improvvisamente una gabbia, mentre gli spazi pubblici veicolavano messaggi di esclusione o di paura. Andare al parco o ai giardinetti costituiva una fonte di ansia, soprattutto attraverso gli occhi dei genitori, che non trasmettevano più la sicurezza di un luogo libero e permeato dal piacere dell’incontro ma il timore del rifiuto, dell’insulto, di una protezione impossibile, di una sofferenza non condivisibile e assurda”. La stessa scuola statale che aveva significato un passaggio fondamentale nel riconoscimento dell’integrazione, costituisce ora uno dei punti di partenza dell’isolamento. Anche se alcune discriminazioni si verificarono prima, lo storico Maida insiste sull’importanza di partire dalle leggi razziali, perché ciò ricorda in primo luogo che “ad essere perseguitati furono prima i diritti e poi le vite delle persone”, ma anche che “la violenza di quella persecuzione toccò tutti, indipendentemente dall’esperienza del lager”. Guardare tutto ciò attraverso gli occhi dei bambini vuol dire osservare quei fatti da una prospettiva peculiare, indispensabile per comprendere l’essenza di quanto accadde. Guardare con gli occhi dei bambini significa cogliere alcuni aspetti tipici dell’età. A partire dal gioco. In ogni luogo e condizione i bambini ebrei continuarono a giocare. Lo fecero dopo aver perso i loro compagni “ariani” a scuola, quando dovettero abbandonare le proprie case, mentre erano in fuga o isolati in nascondigli improbabili. Lo fecero persino nelle baracche di Auschwitz. “Nascosti nelle campagne – scrive Maida – i bambini inventavano scontri e battaglie interpretando il ruolo dei fascisti e dei partigiani; a Ravensbrück, invece, giocavano alla selezione. La morte, in quel modo, poteva entrare nel loro mondo, perché malgrado tutte le forme di protezione che gli adulti avevano potuto mettere in atto fu spesso una parte inevitabile dell’esperienza vissuta in quei mesi…Mettere in scena la morte in tutti i suoi aspetti, specie nei lager, divenne quindi una forma di razionalizzazione e di difesa tipica dell’infanzia, per adattare la propria condizione psichica all’ambiente”. La capacità dei bambini di rispondere ai cambiamenti traumatici e improvvisi fu direttamente proporzionale a una serie di fattori che interagirono e che i bambini elaborarono in modi diversi. Vissero una loro particolare “resilienza” che non fu tanto la capacità di resistere alle deformazioni del loro mondo, quanto piuttosto la capacità di ripristinare le condizioni della propria umanità, individuando e coltivando uno spazio interiore in cui rifugiarsi. Ma se alcuni sopravvissero, pur perdendo l’innocenza e la spensieratezza tipiche dell’infanzia, fu anche grazie all’aiuto gratuito e coraggioso di altre persone, talora per iniziativa privata, talaltra attraverso reti di soccorso. “Quelle reti – osserva Maida – non solo salvarono dei bambini ma permisero loro, nella maggior parte dei casi, di non sgretolarsi e di adattarsi al trauma e alle circostanze, ai luoghi sconosciuti e ai tempi tanto diversi da quelli della vita precedente. Non fu così per tutti, ma l’impressione è che la maggior parte dei bambini che visse nascosta in Italia ebbe condizioni più positive rispetto ad altri Paesi occupati”. Non fu così per tutti perché, sottolinea ancora lo storico, almeno novecento di essi vennero deportati e il novanta per cento fu ucciso nelle camere a gas. “Dietro a ognuno c’è una storia diversa, che racconta di altri italiani che furono complici convinti o indifferenti dell’occupante tedesco, spettatori passivi dell’arresto e della deportazione: 264 bambini furono arrestati da italiani e altri 23 insieme ai tedeschi. Questi ultimi furono responsabili diretti della cattura di 503”. Di molti di questi piccoli, ai quali fu cancellato il passato e rubato il futuro, conosciamo poco o nulla, di come siano davvero scomparsi, non solo attraverso i camini dei forni crematori, ma anche dalla memoria, in un destino che non è stato diverso da quello dei loro genitori e di altri familiari. Con questo libro lo storico Maida vuole dare un nome e un volto a ciascuno di loro, raccontando soprattutto storie. Storie di bambini spaventati, con la valigia in mano da secoli nel Mediterraneo, in Europa, in Italia. “Le valigie sono rimaste, nella memoria infantile, un segno fisico di quella condizione di sospensione nella quale gli ebrei si trovarono – scrive Maida – ogni volta che sono riuscito a ricostruire perlomeno un’informazione relativa a uno di quei bambini, queste pagine hanno assunto un significato differente”. Chi è sopravvissuto non ha dimenticato. Gli adulti non hanno dimenticato. “Non posso vedere i bambini che vanno in fila in qualche posto – racconta una donna – perché io vedo bambini che vanno al crematorio”. E i bambini di allora non hanno dimenticato. Sia pure con fatica, come i coetanei di altre nazioni, hanno cominciato a raccontare il loro stupore ingenuo dinanzi a un mondo che non potevano comprendere e che non erano pronti ad affrontare. “Probabilmente la prima bambina deportata dall’Italia che ha testimoniato fu Arianna Szoreny, all’età di 49 anni – scrive lo storico – rispondendo a quel bisogno di raccontare che diventa imperativo morale e dovere di ricordare”. Spinto da un profondo desiderio di comprensione, utilizzando sia il registro storiografico che quello narrativo, Maida consegna all’Umanità un libro importante che con rigore, ma anche con delicatezza e partecipazione, ripercorre un capitolo oscuro della storia non solo italiana. Pagine che si fa fatica a leggere. E che pure devono essere lette. Da tutti. C’è chi di bambini Ebrei ne ha salvati a migliaia. Irena Sendler fu l’Angelo del Ghetto di Varsavia per aver salvato dall’Olocausto 2.500 bambini Ebrei. Morì il 13 Maggio 2008 a Varsavia, all’età di 98 anni. Irena era un’assistente sociale polacca che organizzò e diresse un gruppo di più di venti persone per salvare dalla morte migliaia di persone della capitale polacca sotto l’occupazione nazista. Poté realizzare quest’opera grazie all’aiuto di religiose cattoliche polacche. La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, un’organizzazione educativa non governativa internazionale, fondata dall’argentino Baruj Tenembaum, che ha analizzato e documentato numerosi casi di “salvatori” dell’Olocausto, ha definito in alcune dichiarazioni la Sendler “come una delle più eroiche donne cattoliche che si spesero per salvare la vita agli Ebrei”. La Fondazione, con sedi a Gerusalemme, New York e Buenos Aires, ricorda che quest’opera portò Irena a subire la tortura in un carcere nazista e una condanna a morte che per fortuna non venne eseguita. Irena Sendler era nata in Polonia nel 1910. Quando la Germania invase il Paese nel 1939, era infermiera presso il Dipartimento del Benessere Sociale di Varsavia, che gestiva le mense comunitarie della città. Lì lavorò instancabilmente per alleviare le sofferenze di migliaia di persone, sia ebree sia cristiane cattoliche. Grazie a lei, le mense non solo fornivano cibo a orfani, anziani e poveri, ma consegnavano anche vestiario, medicine e denaro. Per evitare le ispezioni, registrava le persone sotto nomi cattolici fittizi o le iscriveva come pazienti con malattie molto contagiose come il tifo o la tubercolosi. Nel 1942, con la designazione di una zona chiusa dove alloggiare gli Ebrei, il Ghetto di Varsavia, le famiglie potevano solo attendere una morte sicura. Irena si unì al Consiglio per l’Aiuto degli Ebrei, organizzato dalla resistenza polacca. Riuscì a ottenere un passi del Dipartimento del Controllo Epidemiologico di Varsavia per poter entrare legalmente nel Ghetto. Persuadere i genitori a separarsi dai loro figli era un compito terribile per una giovane madre come Irena. Si poteva solo garantire che sarebbero morti se fossero rimasti lì. “Nella mia mente, posso ancora vederli piangere quando lasciavano i genitori” – raccontò la pia donna. Non era nemmeno facile trovare famiglie che volessero accogliere bambini Ebrei. Iniziò a portare via i bambini in un’ambulanza come vittime del tifo. In seguito dovette utilizzare cesti per la spazzatura, casse di utensili, imballi per le merci, sacchi di patate. Il riscatto di un bambino Ebreo richiedeva l’aiuto di almeno dieci persone. I bambini erano prima trasportati a unità di servizio umanitario e poi in un luogo sicuro. Quindi si cercava loro un alloggio in case, orfanotrofi e conventi. “Ho mandato la maggior parte dei bambini in strutture religiose – testimoniò la donna – sapevo di poter contare sulle religiose”. Irena conservò l’unico registro delle vere identità dei bambini in fiaschi sotterrati sotto un albero di mele nel giardino di un vicino, di fronte alle baracche dei nazisti. In totale, i fiaschi contenevano i nomi di 2.500 bambini. Il 20 Ottobre 1943 la donna venne arrestata dalla Gestapo. Era l’unica a sapere i nomi e gli indirizzi delle famiglie che alloggiavano i bambini Ebrei e sopportò le pesanti torture pur di non tradirli. Le spezzarono i piedi e le gambe, ma nessuno riuscì a spezzare la sua volontà. Irena trascorse tre mesi nella prigione di Pawiak, dove venne condannata a morte. Mentre attendeva l’esecuzione, un soldato tedesco la portò via per un interrogatorio ulteriore; uscendo, le gridò in polacco: “Corra!”. Il giorno successivo trovò il suo nome nella lista dei Polacchi uccisi. Irena continuò a lavorare sotto falsa identità. Al termine della guerra, dissotterrò i fiaschi e utilizzò le annotazioni per trovare i 2.500 bambini che aveva affidato ad altre famiglie. Li riunì ai loro parenti sparsi per tutta l’Europa, ma la maggior parte aveva perso la famiglia nei campi di concentramento nazisti. I bambini la conoscevano solo con il nome di Jolanta, ma anni dopo, quando la sua foto uscì su un giornale, dopo che era stata premiata per le sue azioni umanitarie durante la guerra, venne riconosciuta da molte delle persone che aveva salvato. Dopo la guerra Irena Sendler lavorò per il benessere sociale, aiutando a creare case per anziani, orfanotrofi e un servizio di emergenza per bambini. Ipertrofia della Memoria? Una risposta adeguata viene offerta anche dal film di Rose Bosh, “Vento di Primavera” che racconta la deportazione degli Ebrei del quartiere parigino di Montmatre, avvenuta nell’estate 1942. La pellicola ha avuto un successo incredibile in Francia. Tre milioni sono stati gli ingressi, cifre a cui ambiscono Oltralpe solo commedie particolarmente riuscite. “I fatti raccontati in questo film sono realmente accaduti, anche i più efferati e inverosimili” recita l’incipit della storia. La verità è che Vento di primavera con un’abile mossa mostra la Shoah dei bambini con gli occhi degli innocenti che l’hanno vissuta. E che nessun pugno di voti fascio-comunisti potrà mai cancellare! La regista non eccede in nulla, perché i fatti sono già crudi. Non c’è necessità di ricorrere all’esagerazione né indugiare nella ferocia. La Bosh semplicemente sceglie la strada dei sentimenti dei bambini che, agendo d’istinto, non sanno spiegarsi il perché di tanta insensatezza. E con loro nemmeno il pubblico che si immedesima perfettamente nello stupore infantile. Prima di venire rastrellati nei poveri condomini in cui vivono, due dei protagonisti, il decenne Jo Weismann (Hugo Leverdez) scherza con l’amico fraterno Simon Zygler (Oliver Cyvier) sul mito dell’aspetto ebraico, naso adunco e viso pallido, dimostrando entrambi di negare con il proprio aspetto le assurde teorie fisiognomiche hitleriane e medievali che imperversavano in Europa da duemila anni. Quando vengono ammassati in 10mila nel velodromo d’inverno, senz’acqua, senza latrine funzionanti e con pochissimo cibo, la reazione dei bambini Ebrei è quella di correre e giocare nello scivolo di legno delle biciclette, facendo imbestialire le guardie con scherzi continui. Lì operano il medico ebreo David Sheinbaum (Jean Reno) e la crocerossina cristiana Anette, la Mélanie Laurent di Bastardi senza Gloria, di Tarantino. Anette è l’esempio che non tutti i francesi erano conniventi con il programma antisemita di sterminio nazista, molti avevano reagito aiutandoli, molti agivano sotto costrizione, pochissimi erano contenti. La fine dei bambini Ebrei non tutti la conoscono dai libri di storia studiati finora sui banchi di scuola. Ma forse per pudore, anche qui in Italia, i nostri ministri dell’istruzione, registi e professori finora non erano entrati nei loro sentimenti, non si eravamo forse neppure immaginati cosa volle dire per quei piccoli essere separati dai propri genitori per salire ingenuamente sui vagoni piombati diretti alle camere a gas. Sotto il nazifascismo poco si sapeva, oggi si sa tutto. Ma è ancora tutto lontano. Per rendere più vicina quell’incredibile Olocausto dell’Infanzia Europea basterebbe ricordare che genocidi si sono compiuti e si compiono anche al giorno d’oggi e più vicino a casa nostra di quanto si creda. Basta leggere alcuni libri di storia recente, come “Le guerre Jugoslave. 1991-1999” (Einaudi 2006) di Jose Pirjavec, la cui prima edizione aveva in copertina uno dei tanti prigionieri dei campi di concentramento, vittime di una pulizia etnica, avvenuta pochi anni fa, oltre l’Adriatico. Belgrado dista da Trieste tre ore di macchina. Daniele Scaglione ha pubblicato “Ruanda. Istruzioni per un genocidio”. Honoré Gatera è il capo delle guide del Kigali Memorial Center ed è uno dei sopravvissuti al massacro tra gli Hutu e Tutsi, avvenuto in Ruanda nel Luglio 1994, al tempo dell’impatto della famosa cometa SL-9 su Giove, dove in poco più di tre mesi fu industrialmente trucidato oltre un milione e mezzo di persone. Gatera gira il mondo per testimoniare ciò che ha visto. L’orrore cambia colore e scenografia ma, come un alieno feroce, non forme di esercizio. Perché la Shoah non si ripeta più, forse sarebbe utile raccontare ai bambini cristiani e mussulmani anche quello che è successo a persone che hanno l’età dei loro cugini più grandi. Perché capita di domandarsi, assistendo al moltiplicarsi delle iniziative in occasione del 27 Gennaio, che cosa avrebbe detto Primo Levi. Lui che fin dai primi anni tanto ne aveva orientato i percorsi. Perché nel suo ultimo libro, “I sommersi e i salvati”, egli ci appare consapevole della necessità di un ripensamento, o meglio di un approfondimento, non certo sulla necessità o meno di ricordare, ma sul senso da dare a questa memoria. Un punto su cui sempre più negli ultimi anni ci si interroga, Ebrei e non Ebrei: cosa ricordare e perché? Dov’era l’Uomo? E quale uso pubblico fare di questa memoria: quello di una ricostruzione sempre più attenta degli eventi, quello di una riparazione del crimine e di disvelamento di ciò che i perpetratori avevano voluto deliberatamente occultare, quello di un monito perché tali eventi non si ripetano mai più? Intanto, la Rete porta ovunque i deliri negazionisti che solo pochi anni fa ci sembravano residui del passato degni del carcere, rendendo gli stessi strumenti della Memoria, l’insegnamento e il rito civico dell’Anniversario, come desueti e inefficaci. E mentre ogni anno le iniziative sembrano moltiplicarsi all’infinito, questa Memoria sembra crescere su sé stessa, staccata ormai completamente da qualsiasi rapporto con una Storia che non sia la sua storia particolare, senza aver chiaro il rapporto tra un ruolo simbolico, che fa della Shoah il modello di ogni sterminio e fine di ogni trauma collettivo, e uno puramente celebrativo. Una funzione conoscitiva o una funzione etica? O ambedue, ma in che modo intrecciate? Questa è la domanda a cui si trovano di fronte i giovani, quella a cui, di fronte alle nuove sfide che vengono dal mutamento del mondo intorno a noi, non possiamo non tentare almeno di rispondere, nella consapevolezza della gravità della posta in gioco. Perché di un punto almeno siamo sicuri: la Memoria della Shoah non è fenomeno irrilevante o marginale, ma un fondamento della nostra Storia, della nostra Cultura e della nostra Etica civile. E intanto continuiamo a celebrare i nostri riti, non disconoscendone il senso e il valore, tormentati tuttavia sempre dal dubbio che una memoria di tal fatta non finisca per diventare un ricordo fine soltanto a sé stesso, se non addirittura un modo per non ricordare. Tra gli oltre otto milioni di vittime dei campi di sterminio e di concentramento nazisti, morirono anche circa 3.000 cattolici, tra cui Edith Stein e Massimiliano Maria Kolbe. “Edith Stein e Massimiliano Maria Kolbe hanno concluso con il martirio la loro vicenda terrena nel lager di Auschwitz – ricorda il Papa Benedetto XVI nell’Udienza generale del 13 Agosto 2008 – apparentemente le loro esistenze potrebbero essere ritenute una sconfitta, ma proprio nel loro martirio risplende il fulgore dell’Amore che vince le tenebre dell’egoismo e dell’odio”. Mai più l’orrore dell’Olocausto, si superi ogni forma di odio e razzismo. All’Angelus, in Piazza San Pietro, il pensiero di Benedetto XVI va al ricordo delle vittime dell’Olocausto. “La memoria di questa immane tragedia rappresenti un monito affinché non si ripetano gli orrori del passato e si superi ogni forma di odio e di razzismo, e si promuovano il rispetto e la dignità della persona umana”. I sopravvissuti alla Shoah per anni hanno taciuto sull’orrore vissuto nei campi di sterminio (da non confondere con i campi di concentramento) come Auschwitz, perché quel ricordo era insopportabile. È la storia di Alberto Sed, 84 anni, Ebreo romano che, incoraggiato da un giornalista, decide di raccontare nel libro “Sono stato un numero”, il dolore della perdita della madre e delle sorelle barbaramente uccise dai nazisti, e le torture patite. Tutte le sue energie nel trasmettere ai ragazzi nelle scuole la Memoria di quanto da lui vissuto, sono state cristallizzate per sempre da Paolo Ondarza che lo ha incontrato per raccogliere la sua straordinaria testimonianza. “Per tanti anni sono stato in un silenzio assoluto e non ho parlato con nessuno: non ho parlato con mia figlia, non ho parlato con mia moglie. Tutto quello che avevo passato l’ho tenuto per me”. Sollecitato dall’invito di un giornalista, direttore della rivista “Il Carabiniere”, ha deciso di raccontare l’orrore che ha vissuto in un libro, a partire dal suo ingresso nel campo della morte di Birkenau, insieme a sua madre e alle sue sorelle. “Quando sono arrivato lì mi hanno diviso da mia sorella, mi hanno tagliato i capelli, mi hanno spogliato di tutto e mi hanno dato un numero al braccio: 5491”. Si rese conto realmente di dov’era finito “la mattina, quando sono andato a lavorare, non capivo.
Dicevo: ci hanno portato in Germania per lavorare? Sentendo, però, due francesi che parlavano, ho chiesto loro: Che si fa qui? E loro: Sei venuto ieri? Sei venuto da solo? Ed io: No, sono venuto con mia madre e mia sorella; sono in grado di lavorare? Lavorare? Bisogna vedere di che lavoro si tratta…Mia madre è una brava cuoca e mia sorella è specializzata nel ricamo”, e loro: Sì, abbiamo capito, ma vedi quel fuoco lì? Sai cos’è? Certo, che lo so – rispondo io – sono i camini che riscaldano le baracche, perché fa freddo. Hai indovinato, ma sai con cosa le hanno riscaldate? Con tua madre e tua sorella. Qui devi pensare solo a te stesso, perché anche volendo amare gli altri non lo potrai fare, non te lo permetteranno, se lo farai ti riempiranno di botte e ammazzeranno prima te e poi loro. Adesso ti diciamo cosa succede qui dentro. Vedi quelli con le fasce sul braccio? Sono i capi. Qualunque cosa ti dicano, fallo senza reclamare, perché se dici ‘no’ ti riempiranno di botte e, non potendo più lavorare, andrai a finire subito nei forni crematori. Hai visto i cani? Soprattutto la domenica li vedrai più spesso, perché scommettono su chi è più veloce ad uccidere le persone. In cinque minuti ti fanno a pezzi. Non passare vicino ai reticolati dell’alta tensione, perché i nazisti lanciano i cani contro di te, per vedere chi è più veloce nello spingerti contro i reticolati e farti morire. Inoltre non guardare mai i nazisti in faccia, perché pensano che tu li voglia sfidare. Devi evitare di prendere le botte, perché come prendi le botte sei finito”. Chi veniva pestato era messo nelle condizioni di non poter più lavorare. “Certo, non ci riusciva più. Te ne davano tante e tutti i giorni era così. Quella era la selezione quotidiana. Viene il tedesco che guarda chi è in grado di lavorare e chi può andare ai forni crematori. Ti dà una spinta: se barcolli e vai per terra, vai a finire nei forni crematori. Nel campo Alberto Sed ha poi saputo della tragica fine di sua madre e sua sorella, nei forni crematori; ha anche saputo di un’altra sorella sbranata dai cani sotto gli occhi divertiti dei nazisti e di un’altra ancora, sopravvissuta ai crudeli esperimenti dei nazisti. Nel lager sopportò tanto dolore tra faticosi lavori e mansioni terribili come alloggiare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li avrebbero condotti nei forni crematori. “Quando mi hanno mandato ai trasporti, ero addetto a selezionare le persone. Dovevo togliere i bambini dalle braccia delle loro madri: tutti i bambini che non sapevano camminare, e portarli sul carrettino. Tutti insieme finivano poi nei forni crematori dove venivano uccisi. Ad un mio compagno di prigionia addetto alla stessa mansione che si trovava in fila davanti a me, un nazista con una pistola in mano ha chiesto di tirare in aria un bambino. Lui inizialmente si è rifiutato, poi il soldato gli ha intimato: Hai capito quello che ti ho detto? Ti ho detto di tirarlo in aria; se non lo vuoi fare tu, lo farà il compagno dietro di te. Lui ha preso il bambino, l’ha lanciato per aria, e i soldati hanno fatto il tiro a segno con la pistola contro quell’innocente. Mi è rimasto talmente impresso che quando è nata mia figlia e mia moglie mi diceva: vieni prendila in braccio, io inventavo sempre qualche scusa per non prenderla, perché ero ossessionato da quel ricordo”. Il sadismo dei nazisti costringeva gli Ebrei a partecipare alla morte di vittime innocenti. “Un tedesco a una madre che aveva un bambino in braccio che piangeva ha detto: Fate stare zitto questo ragazzino: mi dà fastidio! La donna non sapeva nemmeno cosa le stesse dicendo. Chissà di che nazionalità era: ungherese, polacca…? Non so. Il bambino le fu ucciso in braccio con un cazzotto in viso”. Alberto Sed era di costituzione robusta, questo l’ha salvato. Per avere più cibo – e stiamo parlando di qualche buccia di patate o di mele, ma la fame era insopportabile – Alberto accettò anche di fare il pugile negli incontri domenicali tra i prigionieri del lager, che servivano ad intrattenere gli aguzzini e i gerarchi. “Scommettevano denaro. Venivano gli addetti ai trasporti, che erano robusti, erano grossi di costituzione e scommettevano soldi su chi potesse vincere negli incontri di pugilato. Eravamo obbligati ad intrattenerli e non potevamo mettere bocca su niente. Ho visto un prete finito nel campo per aver fatto scappare dei partigiani. Un giorno, non so come, si mise la veste per celebrare la Messa. I tedeschi se ne accorsero e gli dissero: Vuoi dire la Messa? Vieni con noi a dire la Messa! Avevano una specie di piscina e ce lo buttarono dentro, dopo averlo riempito di calci. Lui cercava di aggrapparsi al bordo della vasca, disperato, per salvarsi. Loro lo rispingevano dentro: lo abbiamo visto morire, con la disperazione in volto. Non lo dimenticherò mai quel viso: sa quando sono riuscito ad entrare in una piscina? Dopo 20-25 anni, per giocare con una mia nipotina. Per tanti anni, però, non appena pensavo alla sola idea di piscina, ero terrorizzato”. È difficile tornare a vivere, dopo essere passati per questo inferno. “Io ho avuto una grande soddisfazione dal mio libro e dall’incontro con i ragazzi nelle scuole. Per me era inimmaginabile che, trascorsi tanti anni fuori da Auschwitz, tutti questi ragazzi mi facessero vivere una ‘rivincita’ su Auschwitz. Questa per me è una bellissima rivincita sul male. Sono quattro o cinque anni che sono affascinato, innamorato di tutti questi ragazzi, per le lettere che mi scrivono. I ragazzi recepiscono. Ho capito che attraverso il mio racconto di grande sofferenza per loro la vita è cambiata. Molti di loro, abituati a litigare per un telefonino – perché ne vorrebbero uno da cento invece che uno da cinquanta euro – si sono resi conto del valore della vita e che non è possibile litigare per delle sciocchezze”. Questi orrori potrebbero ripetersi in futuro. Un monumento sulle rive del Danubio, a Budapest, con una fila di scarpe di uomini, donne e bambini, ricorda gli Ebrei che furono gettati nel fiume simbolo dell’Europa, dalle milizie naziste ungheresi. Si ricordano quei martiri insieme ai più di 600mila Ebrei ungheresi sterminati durante la Shoah mentre nel 2013 siede in Parlamento una forza del 17 per cento che inneggia a Hitler e chiede le liste degli Ebrei che siedono nelle istituzioni ungheresi ritenendoli “un pericolo per la sicurezza nazionale”. In Europa. In Ungheria. Una vera citazione hitleriana, degna del Tribunale Internazionale per i Crimini di Guerra e del carcere. Il nome del loro partito? È Jobbik. Fiamma Nirenstein guidò in Ungheria con il britannico John Mann e l’israeliano Yossi Peled, un gruppo di parlamentari europei e israeliani organizzati dall’ICJP, dall’ICCA (l’organizzazione parlamentare contro l’antisemitismo) e dall’Israel Jewish Congress per chiedere conto alle autorità ungheresi che governano le istituzioni di quel Paese di che cosa si pensa e di che cosa si fa oggi del pericolo in cui sono costretti i 200mila Ebrei e gli Zingari che vivono in Ungheria. La situazione è esplosiva. È la peggiore d’Europa per il numero di antisemiti e antizingari che professano il loro credo politico con l’appoggio di giornali e intellettuali e l’eco delle istituzioni in cui sono presenti, per le dichiarazioni sulla “industria dell’Olocausto”, sul progetto ebraico di dominare il mondo, sulla criminalità sionista che tenta di distruggere l’Ungheria e lo spirito magiaro. È un bombardamento continuo, mentre si sono formate milizie che marciano per le strade, i leader di Jobbik si dichiarano nazisti senza problemi, si bruciano le bandiere di Israele, è pericoloso indossare simboli ebraici fuori del ghetto di Budapest. Si sente rispondere con sincerità dai ministri e i membri dei partiti e delle opposizioni ungheresi che c’è uno sforzo enorme per affrontare il problema. Si ascoltano descrizioni molto interessanti di un lavoro culturale intensivo e di molti interventi legislativi. Si è anche ricordato che tutta Europa è affetta dalla crescita dell’antisemitismo e dall’odio per gli Zingari, da aggressioni verbali e fisiche, di cui la maggiore è l’uccisione dei tre bambini Ebrei e del loro maestro a Tolosa, in Francia. Ma quello che si vede in Ungheria è un rigurgito di puro nazismo europeo, privo di influenza musulmana, una pandemia genetica per tutta l’Europea. Le risposte ricevute dai parlamentari italiani, britannici e israeliani sono state accorate, ma hanno convinto che nessuno ha la formula per la guarigione. Se l’antisemitismo viene considerato politicamente scorretto, l’antisionismo viene tranquillamente accettato. Ma dall’odio irrazionale e pregiudiziale contro Israele oggi nasce il nuovo odio antiebraico. Il problema degli Ebrei e dei Cristiani di oggi, in tutto il mondo, non è solo l’antisemitismo, ma un nuovo fenomeno, la Israelofobia e la Cristianofobia. Naturalmente l’antisemitismo ne è parte integrante, ma se si osserva nella sua esistenza la radice del pericolo antisemita odierno, questo impone una battaglia completamente nuova. Versus l’ebraismo mondiale e i suoi alleati cristiani. Per la salvaguardia della Pace mondiale, il punto basilare non è l’impegno nella lotta contro l’antisemitismo, ma prima di tutto contro l’israelofobia e la cristianofobia. Ottenere dei risultati in questo campo, può migliorare la condizione ebraica in tutto il mondo, molto di più che sul tema della Memoria su cui è incentrato oggi? Tutte le celebrazioni che hanno luogo in Europa per ricordare e stigmatizzare la Notte dei Cristalli del 9 Novembre 1938 abbondano ma nessun Ebreo può dirsi insoddisfatto guardando il panorama di simpatia, di proclamazione pubblica della necessità della Memoria della Shoah e di rifiuto assoluto rispetto all’antisemitismo ed ancora più a qualsiasi volontà genocida nei confronti degli Ebrei. Angela Merkel dichiara che i Tedeschi devono mostrare “forza d’animo e promettere che l’antisemitismo non sarà tollerato in nessuna forma”. È una risoluzione politica e giuridica condivisa da tutti i leader europei e questo è certamente un bene. Ma non è affatto un antidoto contro l’antisemitismo che sta crescendo a dismisura. Né è un altolà alle promesse di distruzione del mondo ebraico, innanzitutto di Israele. È solo un modo poco costoso di affrontare il problema. L’impegno a uccidere gli Ebrei ha un carattere soprattutto religioso nel mondo islamista, come si legge nella “carta” di Hamas e nelle prese di posizione dei Fratelli Musulmani. Diverso è il discorso pubblico politico, come quello dell’Iran o quello turco, in cui la condanna a morte di Israele si trasferisce solo in seconda istanza sul popolo ebraico ed è più propriamente israelofobica. È dall’odio irrazionale e pregiudiziale contro Israele, intriso di stereotipi antisemiti e che vive di una vita propria molto intensa, in piena trasformazione, ricco di invenzioni contemporanee (“gli ebrei nella loro storia non sono mai stati a Gerusalemme; i soldati dell’IDF asportano gli organi dei palestinesi, il Muro di separazione è una forma di apartheid”) che oggi scaturisce l’odio antiebraico. Se la lotta contro l’antisemitismo fosse combattuta sui temi della Memoria e dell’identità ebraica, avrebbero avuto ben più di qualche risonanza nell’animo europeo le miriadi di programmi di studio della Shoah nelle scuole, i film in tv ed al cinema, i videogiochi, i viaggi nei campi di sterminio di Auschwitz e Dachau, il dialogo interreligioso, la storica vergogna delle leggi razziali del 1938 in Italia. Tali “imprese”, purtroppo, pur avendo avuto un certo successo, appartengono ancora al “mainstream” istituzionale! Nessuno è contrario, da nessuna parte politica o culturale esistono obiezioni. Ma come per magia spariscono nel nulla di fronte all’israelofobia. La Memoria della Shoah è infatti svincolata in Europa e nei Paesi islamici dal diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Non contano nulla. Perciò, mentre il politically correct non ammette l’antisemitismo e tutti i presentatori tv sono pronti a proclamare il 27 Gennaio di ogni anno, a costo della propria vita professionale, una parola gentile verso gli Ebrei in quanto “religione diversa” (in effetti, gli Ebrei vengono più apprezzati come “minoranza”) l’antisionismo invece è in crescita verticale, è di moda, è urlato, è vestito, è sussurrato, è snob e popolare. Anche tra i giovani presunti “cristiani” freschi di Comunione e Cresima. “That shitty little country” – come disse l’ambasciatore francese a Londra, è un’acquisizione ormai comune tra i giovani europei. Come scrive sul Wall Street Journal, Daniel Schwammenthal, dopo l’antisemitismo senza Ebrei, adesso ci tocca vedere l’antisemitismo senza antisemiti. L’antisemitismo infatti non è attribuibile pubblicamente, anche dalla maggioranza delle leadership ebraiche, se non ad alcuni miserabili gruppi neonazisti e, mentre si giura di combatterlo, non se ne ammette l’esistenza dove lo si trova nelle forme più evidenti, ovvero fra gli intellettuali, nell’ambito delle NGO, delle istituzioni internazionali come l’ONU e derivati, nell’ambito dell’Unione Europea, delle associazioni per i diritti umani e, come ragione di vita e di identità, nel mondo islamico. Quando si dichiara la crescita dell’antisemitismo in Europa, comprovata sfortunatamente da mille indagini conoscitive di cui l’ultima rivela che circa il 25 percento degli Ebrei in Europa ha subito aggressioni fisiche o morali, si assiste a una reazione di assoluto stupore diplomatico. Tutti sono pronti a giurare, il 27 Gennaio, di non aver mai incontrato in vita un antisemita! “Sono episodi sporadici, gruppi estremi, soprattutto di estrema destra” – è la risposta più comune. Ma non è affatto così. Siamo in presenza di un fenomeno nuovo che non è l’antisemitismo classico. È l’israelofobia. Una parola coniata da Richard Prasquier, presidente del CRIF, l’organizzazione ombrello delle comunità ebraiche francesi. Israelofobia è una parola con evidente assonanza al termine Islamofobia che ha il significato di un immane pregiudizio culturale a carattere razzista nei confronti della religione del Profeta. I difensori dei diritti umani stanno di guardia, anche su Internet, contro ogni elemento di discriminazione verso le persone di fede islamica. È giusto. Nessuno invece ritiene l’israelofobia e la cristianofobia una violazione dei diritti umani. Nessuno difende il popolo ebraico da questo pregiudizio feroce onnicomprensivo che investe la storia e il carattere del popolo ebraico e lo copre di menzogne anche nelle scuole pubbliche del mondo. L’attacco a Israele spesso viene addolcito dalla legittima critica a un Paese sovrano ma non si considera affatto la ricaduta antisemita sul popolo ebraico. L’israelofobia contiene un devastante elemento antisemita: infatti usa i più facili stilemi per delegittimare Israele, “patria dei vizi morali e sessuali, dell’avarizia, dell’indifferenza, della ferocia verso chi non è Ebreo”. Tutti elementi che trasferiti al giudizio su Israele hanno una chiara destinazione virale finale verso chiunque sia Ebreo. L’anticamera dei futuri campi di concentramento e sterminio? L’israelofobia è un blocco mentale di odio cristallizzato intorno a un fazzoletto di terra, a un’idea, a una fede in Dio, alla complessità non dell’ebraismo ma di una sua particolare espressione, il Sionismo. L’antisemitismo odierno, se si vanno a leggerne le espressioni più di “moda”, nasce dal pregiudizio su Israele e si moltiplica tra i giovani Palestinesi. Gli Ebrei europei e buona parte di quelli americani hanno intuito questa “moda” e dove possono si astengono dall’originaria posizione di totale sostegno a Israele, spesso apparendo reticenti e opportunisti. Il sì dell’Italia al riconoscimento unilaterale della Palestina all’ONU ne è stato un chiaro segnale allarmante. La questione è tutt’altro che chiusa. È in gioco la Pace mondiale. Molte volte l’odio alla bandiera di Israele, la Stella di Davide, è più esplicito che mai. Altre non viene neppure esposta per simpatia, comprensione e protezione nei confronti dei Palestinesi. Se Israele è dunque la vera frontiera della Pace mondiale, da terra incognita qual è, dove la critica è sempre legittima, l’israelofobia non ha niente a che fare con le polemiche politiche dello Stato d’Israele, perché non si basa sull’osservazione della realtà ma sull’invenzione di stampo neonazista. È un’ossessione di cui una delle espressioni più chiare è la risoluzione dell’ONU “sionismo uguale razzismo” del 1975. È la stessa strana “fretta” che ha fatto votare all’Assemblea delle Nazioni Unite la bellezza di dieci mozioni contro Israele, che si aggiungono alle 23 votate tutte insieme lo scorso anno, per inventare scenari mostruosi, in cui la legittima difesa diventa crudeltà originaria di un paese razzista e assassino. È così che si alimenta l’odio nei giovani Palestinesi. L’israelofobia è un fenomeno irrazionale come l’antisemitismo, è una febbre inguaribile quando su Israele si può dire qualsiasi evidente menzogna che troverà sempre un vasto consenso. Daniel Goldhagen nel suo ultimo libro fa un elenco delle follie che si scrivono e dicono su “Israele, una fonte di disordine per i Paesi circostanti, la causa delle dittature del Medio Oriente, la maggiore minaccia alla pace mondiale, il nazista dei nostri tempi che ha ispirato la guerra contro l’Iraq, controlla la politica americana ma ne tradisce gli interessi autentici, crea odio verso gli americani e l’Occidente, perpetra il genocidio dei Palestinesi, vuole distruggere la Moschea di Al Aqsa, assassina i bambini palestinesi, avvelena i pozzi e le persone”. Molto lavoro culturale di destrutturazione è all’opera in Europa sul diritto di nascita degli Ebrei in Israele, sostenendo che il loro legame con la Terra Santa è inesistente, lontano e discontinuo. In barba alle Leggi di Dio. Un altro termine che nutre l’israelofobia è “illegale”, spesso riferito all’occupazione dei territori ed al diritto di nascita stesso di un Paese la cui esistenza non è mai stata veramente accettata dai suoi vicini. La realtà storica dei fatti è così lontana dalla dottrina israelofobica. “Fra tutte le democrazie asiatiche o africane – osserva Goldhagen – Israele è la più solida e la più vecchia, ed essendo la 57esima nazione membro dell’ONU, prima della Spagna, dell’Italia, della Germania, non ha passato un momento della sua esistenza senza essere stata violentata e minacciata dal terrorismo, dall’odio religioso e tribale del mondo musulmano. Nel difendersi ha perso 30mila uomini, pari in proporzione a un milione e 200mila americani. Nel terrorismo ha perso 4000 persone, pari a 400mila. Quando dovette, a seguito di un’ennesima guerra di difesa, occupare il West Bank, si offrì subito di restituirlo, e gli furono opposti dalla Lega Araba i tre no di Khartum: no peace, no recognition, no negotiation. Nella pace con l’Egitto non ha avuto alcuna difficoltà a restituire il Sinai fino all’ultimo centimetro di terra”. Ma le responsabilità delle difficoltà verso la pace sono sempre attribuite a Israele che non ha mai fatto né detto niente che vagamente somigli all’aggressività dei suoi vicini. Eppure essa viene accusata dei peggiori crimini possibili e di una sostanziale abiezione morale, una posizione che per esempio paesi come il Sud Africa avallano attivamente proibendo ai suoi ministri i viaggi in Israele, e sostenendo che Israele è un Paese in cui si pratica l’apartheid: non importa se le istituzioni democratiche e i diritti umani ricevono il voto più alto dalla Freedom House. È straordinario che l’Onu abbia condannato Israele pochi giorni fa per aver maltrattato i Siriani del Golan mentre invece raccoglie i feriti Siriani e li cura nei suoi ospedali. La conseguenza dell’israelofobia è l’antisemitismo crescente, legato al tema di Israele: secondo lo studio del tedesco Friedrich Ebert, il 63 percento dei Polacchi e il 48 percento dei Tedeschi pensano che “Israele stia conducendo una guerra di sterminio contro i Palestinesi”. Così la pensano anche il 41 percento degli Inglesi e il 42 percento degli Ungheresi. Gli Italiani lo credono per il 38 percento. Il 55 percento dei Polacchi e il 36 percento dei Tedeschi risponde all’indagine: “considerando la politica israeliana, posso capire perché la gente non ami Israele”. Gli intervistati degli altri Paesi studiati sono d’accordo con questa considerazione in una percentuale che varia fra il 30 e il 40 percento. Secondo un’indagine della European Union Agency for Fundamental Rights, il 48 percento degli Ebrei europei intervistati ha sentito o letto l’accusa che “gli Israeliani si comportano con i Palestinesi come i nazisti con gli Ebrei”. In Italia, come in Belgio e in Francia, sono il 60 percento quelli che riportano questo stato di cose. Secondo “Shalom”, il mensile ebraico d’informazione e cultura, la narrativa per cui esisteva una “Palestina storica” che i perfidi coloni Ebrei hanno occupato cacciando la popolazione sofferente, sta alla base della teoria d’odio che conduce al muro dell’apartheid, alla demolizione delle case, alla persecuzione dei Palestinesi, ai bambini picchiati e uccisi, al carceriere sionista che chiude Gaza in una gabbia, e per converso, alla glorificazione dei terroristi, alla giustificazione ampiamente diffusa degli attentati e dei missili, dell’uso corrotto del denaro pubblico europeo, al rifiuto dell’esistenza stessa di uno Stato del popolo ebraico, ritenuto un residuo archeologico del colonialismo e dell’imperialismo, una reincarnazione di ogni forza del male compresi i nazisti. Ha ragione Jack Straw, l’ex Ministro degli Esteri inglese, nel dire alla House of Commons che l’AIPAC, la lobby pro-Israele in America “ha fatto dei suoi fondi illimitati uno dei più grandi ostacoli alla pace fra Israeliani e Palestinesi”? La storia regala molti eventi incredibili. Nella ricorrenza della Notte dei Cristalli, il Badishe Zeitung in Germania ha pubblicato una vignetta di Horst Hairzinger in cui una lumaca con la testa di colomba va ai colloqui di pace con l’Iran. Si vede Netanyahu al telefono che dice: “Ho bisogno di veleno per colombe e lumache”. Gli Ebrei avvelenatori sono un classico dell’antisemitismo Anni Trenta del XX Secolo, e così i sabotatori e coloro che causano guerre. Adesso è da Bibi che deriva e si sparge lo stereotipo antisemita. Nella “carta” di Hamas gli Ebrei sono accusati di avere causato tutte le guerre e si promette di ucciderli tutti, uno a uno, fino all’ultimo Ebreo. Follie del XXI Secolo? Per spiegare il perché dell’israelofobia, tre sono le chiavi principali: la prima riguarda la diffusione in tutto il mondo di una presenza musulmana mai vista prima (la famiglia numerosa è sacra all’Islam), la mondializzazione legata alla rete Internet, il moltiplicarsi della propaganda anti-israeliana, la sua forza nelle istituzioni a causa della crescita, in campo sciita e sunnita, della certezza che la battaglia per instaurare l’Islam sulla Terra nel ruolo principe che gli spetta, sia in piena marcia; la seconda è la diffusione di una certa cultura dei “diritti umani” senza se e senza ma; la terza, la presidenza Obama alla testa degli USA nel suo secondo mandato. Barack Hussein Obama ha promosso un sincero rapporto fra l’America e l’Islam che, secondo gli analisti più accreditati, oltre a rivelarsi fallimentare sul terreno politico offre spazio mondiale al più efferato antisemitismo che non ha nulla a che vedere con la fede musulmana. La diminuzione dell’influenza Americana sulla Terra ha lasciato un vuoto che è stato riempito da tutte le ideologie alternative a quella democratica e liberale. L’Europa non esiste. Obama non prevedeva questo disastroso effetto secondario? È evidente che nel concepire la politica per cui ha proibito di usare la parola jihad nei documenti ufficiali americani, il presidente Usa non si è soffermato a riflettere quante volte essa sia servita a spiegare il terrorismo contro Israele. Questo non gli è sembrato un punto rilevante rispetto alla sua politica internazionale. L’odio verso lo Stato ebraico non è stato preso in considerazione come una variante politica, neppure nelle sue forme più estreme, e quindi non ha subito in questi anni nessuna sanzione ideologica e morale. Idem in Europa. Obama non ha conservato neppure il rapporto di realpolitik che i precedenti presidenti avevano avuto col mondo egiziano e iraniano; non è stato attento a sottolineare le differenze ideologiche, tutte alla fine attinenti alla Sharia ed alla sua incompatibilità con la democrazia e lo stato di diritto. Obama ha mostrato invece una forte propensione verso un mondo in cui sia prevista una fusione con l’Islam, ignorandone il rifiuto verticale verso la cultura democratica cui si ispira. Ma ha pagato questa scelta con la crescente antipatia verso gli Usa e verso la sua presidenza. Nel 2009 Obama sottolineò il “contributo allo sviluppo degli Stati Uniti dell’Islam” prima di parlare di quello dell’ebraismo e del cristianesimo; ad Ankara, al Cairo, per fondare “un nuovo inizio” Obama cercò di dimostrare che “gli Usa e l’Islam condividono comuni principi di giustizia, di progresso, di tolleranza e di dignità dell’essere umano”. E via di questo passo, nonostante le “primavere” arabe dimostrassero sempre più chiaramente che le aspirazioni del presidente americano non avevano alcun fondamento. La democrazia è stata definita molto spesso, dai clerici sunniti e sciiti, un nemico dell’Islam e non un suo fine. I Fratelli Musulmani che non avevano un partito politico fino alla caduta del presidente egiziano Mubarak, sono stati la successiva illusione di Obama. Sia Hillary Clinton, suo Segretario di Stato e forse il prossimo presidente Usa, sia Nicole Chapman, capo del dipartimento egiziano al ministero degli Esteri, hanno ripetuto più volte che gli Stati Uniti d’America stavano portando avanti un dialogo con i Fratelli Musulmani. I caduti Italiani nelle varie guerre in ex Iugoslavia, Iraq ed Afghanistan contro l’inciviltà, per che cosa sono morti? Per il compromesso, per gli accordi sottobanco, per la resa dell’Occidente? Perché Obama non si è mai distanziato da questa posizione? Poi c’è stata la rivoluzione del Generale Sisi che ha sconvolto i giuochi. Perchè? In nome del dialogo con le minoranze intellettuali in doppio petto di queste organizzazioni tutt’altro che umanitarie dell’universo islamico. Quanto al rapporto con l’Iran, è evidente che Obama e John Kerry stanno conducendo il mondo a un accordo con il Paese che fra tutti gli odiatori di Israele potrebbe prima o poi dimostrare coi fatti le sue più evidenti intenzioni genocidarie. Obama ha inghiottito senza difficoltà l’amara posizione israelofobica ed antisemita dei suoi nuovi interlocutori. “Noi seguiteremo a sventolare la bandiera della jihad contro gli ebrei, i nostri primi e maggiori nemici” – dichiara la guida spirituale dei Fratelli Musulmani. E uno sceicco ripete: “Allah ha imposto sugli ebrei una punizione continua per la loro corruzione, l’ultima è stata condotta da Hitler, non c’è con loro altro dialogo che la spada e il fucile, noi preghiamo Allah di ucciderli fino all’ultimo”. Fantasie del XXI Secolo? La mancanza di qualsiasi reazione dell’Occidente e dell’Oriente a questo tipo di posizioni non è nuova. Da tutto il mondo sunnita esce una minaccia limacciosa e continua nei confronti di Israele e, per quanto con discontinuità e ostacoli, pure i vari presidenti americani hanno sempre lasciato intravedere o esplicitato una certa indifferenza verso gli aspetti più razzisti e pericolosi dell’Islam nei confronti di Israele, degli Ebrei e dei Cristiani ultimamente pesantemente perseguitati e uccisi in tutto il mondo. Così non è con Obama che non ha mai detto all’Iran che è proibito considerare “Israele una radice ammarcita che deve essere distrutta” né ai Palestinesi che trattano con Israele che è “impossibile ripetere ogni giorno, proprio mentre si tratta, che Israele è un paese assassino, razzista, genocida”. Insomma, con il suo sdoganamento dell’Islam senza alcuna reazione, Obama ha consentito la diffusione irresponsabile del più pesante messaggio antisraeliano ed anticristiano. Senza l’America, la Russia e la Cina di guardia, Israele diventa concettualmente preda dei suoi detrattori. Obama, inoltre, invita l’Unione Europea alla danza che preferisce, come quella dell’incredibile accettazione burocratica e ideologoca, alla vigilia del Giorno della Memoria della Shoah 2014, della lettura israelofoba araba fino al punto di paragonare l’attacco terrorista di Tolosa all’uccisione di bambini di Gaza da parte dell’esercito israeliano! La Questione Musulmana come quella Morale in Italia, resta evidentemente aperta e prova quanto l’odio per Israele sia un elemento fondante dell’ideologia islamica, delle guerre del presente e del futuro. Paradossalmente la cultura dei diritti umani, essendone Israele un leale difensore da sempre, anzi l’incarnazione più evidente in Medio Oriente, aggredisce Israele con una ferocia inaudita. Questo non è certo accaduto a partire dalla verità dei fatti osservati, ma perché nella storia del suo sviluppo negli anni del Dopoguerra che furono anche quelli della Guerra Fredda e poi dopo il 1967, Israele si è trovata dalla parte sbagliata della barricata. Il sionismo infatti è stato identificato con l’imperialismo occidentale. L’israelofobia è stata in gran parte disegnata sulla natura delle grandi e piccole istituzioni, ONU e Ong, che sarebbero preposte a salvaguardare i diritti umani e che in verità ne hanno fatto uno scudo ideologico. La patologia sistemica che riguarda questo tema nasce nella storia di un’ideologia di sinistra e destra in Italia e in Europa che, al tempo in cui il comunismo si dimostrava un ripugnante totalitarismo, sceglieva di non accusarlo e di combattere al suo fianco contro il capitalismo, l’imperialismo e il sionismo. Gli Ebrei non rispondevano più all’idea di un popolo che con la sua storia di sofferenza e morte forniva munizioni alla guerra contro la società borghese. Così da questa perversione etica e logica, nasce un certo uso politico del tema dei diritti umani, spesso utilizzati per motivi tattici e strategici. Nasce altresì l’uso ridicolo e penoso del tema dei diritti umani contro Israele, uno dei Paesi leader nel mondo nonostante le pesanti condizioni quasi impossibili, come Sharon ha più volte dichiarato. Gli anni ‘60 hanno portato con sé la patologia dell’uso radical-chic, ancora vivo, dell’aggressione verbale ed artistica per cui il mondo si è improvvisamente riempito di “fascisti” sionisti: tali sono stati considerati Margareth Thatcher, George Bush padre e figlio, Silvio Berlusconi e Ronald Reagan. Tutti, così, insegnanti, studenti, cantanti e scrittori diventarono Palestinesi e comunisti. Israele era amico degli Americani e “faceva soffrire i Palestinesi”, una popolazione del terzo mondo, araba, islamica e povera della quale nessuno aveva mai parlato, avvezza a una leadership autoritaria e feroce anche verso il proprio popolo. Così la Palestina diventò il Paese anti-fascista ed anti-imperialista per eccellenza, che stava nel campo giusto, quello delle “democrazie popolari” in realtà tutte quante dittature che, come il Celeste Impero, seguitano ad essere tali nonostanti gli investimenti esteri, gli smartphone e i tablet delle multinazionali ivi assemblati, prodotti e spediti. Alla mancanza di una chiara condanna per il terrorismo europeo di quei “compagni” islamici degli Anni Sessanta, Settanta e Ottanta, giustificato in vari modi, si è affiancata la giustificazione del terrorismo internazionale contro Israele, compreso l’attacco alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 e l’esaltazione dei terroristi assassini accolti con il tappeto rosso adesso che Israele li ha liberati. A questi terroristi l’Autorità Palestinese offre in premio un assegno di 50mila euro-dollari ciascuno (capito Europa?) più uno stipendio mensile pagato anche dai contribuenti Italiani che, tra i mille suicidi imprenditoriali in corso, versano da anni nella loro peggiore crisi economica, antropologica, etica, morale e politica di sempre. Uno dei terroristi liberati ha ucciso un padre che guidava accanto alla sua bambina, un altro ha ucciso a picconate un sopravvissuto della Shoah, un altro ha assalito e fatto a pezzi un impiegato che lavorava a Gaza in un ufficio di aiuto per i Palestinesi? “Che importa, difendiamo i diritti umani!”. Questi sono i fatti, uno degli infiniti articoli dell’israelofobia in un mondo, sempre più pazzo, che rende un diritto un ambiente “smoke-free” piuttosto che indossare il burqa o praticare l’escissione dei genitali femminili, che non ha mai sentito come propria la necessità di occuparsi del terrorismo contro Israele, dei diritti umani degli Israeliani. L’israelofobia rende la battaglia per i diritti umani totalmente inaffidabile e crea un danno permanente all’Unione Europea, al suo stesso futuro di Stati Uniti d’Europa con la sua Banca Federale. Il sogno che giustifica ancora l’euromoneta e le elezioni del Parlamento europeo, è l’adesione di Israele all’Unione Europea e la fine di tutte le guerre e le migrazioni forzate nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Una nuova operazione di lotta si impone: a fianco a quella contro l’antisemitismo tradizionale con le armi della Memoria, occorre disegnare un strategia culturale e politica che lo consideri una conseguenza dell’israelofobia. In Italia dobbiamo ancora studiare e capire il ruolo della cultura ebraica nella nostra storia. È sulla storia di Israele, sulle sue caratteristiche, le sue azioni, sul suo diritto a difendersi, ad esistere, sulla persecuzione verbale, artistica e fisica a cui è incessantemente sottoposta, che occorre concentrare l’azione contro l’antisemitismo. Ogni altra opzione, ne consentirà la crescita tra i giovani del mondo, com’è accaduto sino ad oggi, aprendo le porte ad altri scenari di sterminio globale. Quando i bambini scoprono la Shoah per la prima volta, nei luoghi della memoria di questo grande male, la risposta più grande che si può dare alla loro incredulità, al non credere che possa esistere nella Storia un orrore così grande, è il coraggio della Verità. Quella della Shoah e dell’antisemitismo omicida è una storia che non passa mai. È un debito di Memoria. Non lo abbiamo solo con le vittime e i reduce, per commemorare il passato, ma anche per costruire il futuro. Questi luoghi, come il Binario 21, devono essere frequentati dai giovani, non solo per ricordare, ma anche per imparare e formarsi nei centri studi e nelle biblioteche. La Memoria si deve sempre accompagnare alla conoscenza, allo studio. La Memoria è sapere che si fa cultura. Non c’è interiorizzazione della Memoria senza la cultura. Memoria e cultura devono diventare un binomio inscindibile. Memoria e cultura, memoria e storia, memoria e ricerca. Così la Memoria diventa vita perché opposta alla cultura della morte. Ricordare, di anno in anno, ha il senso di un impegno per combattere sempre l’antisemitismo e ogni forma di razzismo. Partirono in più di 600 dal Binario 21, una mattina fredda e nebbiosa del 30 Gennaio 1944, in una Milano tranquilla e ancora addormentata. In Dicembre dallo stesso binario ne erano partiti altri 250 e molti da lì furono deportati e uccisi fino al Maggio del 1944. A otto anni Sami Modiano era uno dei bambini più vivaci e brillanti della scuola elementare italiana di Rodi. Forse era in assoluto il primo della classe, come sostenevano i genitori dei suoi compagni, con quell’ammirazione espressa e così insistita da poter sconfinare facilmente nell’invidia. Sì, perchè Sami, alunno eccellente, non aveva di sicuro l’aria e il comportamento del secchione. Nuotava, correva, giocava a calcio, scherzava, si divertiva, però a scuola gli bastava studiare il minimo per meritare il massimo. Quella mattina, quando fu chiamato alla cattedra, si sentiva persino più sicuro e disinvolto del solito. Era pronto a rispondere alle domande del maestro ma il suo sorriso si spense subito perché l’insegnante, invece di interrogarlo, lo guardò come mai lo aveva guardato e gli disse: “Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola!”. Un ceffone morale umiliante, un vero choc, le gote di Sami si tingono di porpora, la gola si chiude. Con un filo di voce: “Ma che colpa ho? Che cosa ho fatto? Dove ho sbagliato?”. Per far capire a quel bambino sbigottito e improvvisamente spaventato che non aveva fatto nulla di male, e che quel provvedimento non riguardava né il profitto né la condotta, l’imbarazzato maestro gli pose affettuosamente una mano sul capo e aggiunse a bassa voce: “Ora tornatene a casa, tuo padre ti spiegherà”. Sami Modiano che per decine di volte si è salvato per puro caso nella più efferata partita a scacchi con la morte, ha scritto un libro che ha per titolo la risposta abbastanza ermetica alla domanda che per decenni lo ha tormentato: “Per questo ho vissuto”. Che cosa voglia dire in realtà, Sami lo scrive nelle pagine della sua tremenda odissea. Pagine che grondano dolore, orrore, sevizie, umiliazioni, morte, torture, sterminio. All’inizio del racconto, ecco il punto da cui tutto ha avuto origine. “Quella mattina, a Rodi, mi ero svegliato come un bambino. La sera mi addormentai come un ebreo”. La storia del bambino-ebreo di Rodi trafigge il cuore e ferisce l’anima. È una storia che Sami, come quasi tutti i sopravvissuti all’Olocausto, aveva taciuto per quasi tutta la vita perché, nel raccontarla, la sofferenza era come raddoppiata: non bastava l’infarto emotivo della cronaca e dei ricordi incancellabili delle sofferenze patite; il veleno aggiuntivo era provocato dall’incredulità espressa da molti di coloro che lo ascoltavano. “Guardandoli, sembrava mi volessero dire che non credevano alla mia storia. E questo, ancora una volta, mi feriva a morte”. Alla fine, dopo molte titubanze, ha prevalso il dovere di trasmettere ai giovani la vissuta testimonianza di quello che è stato l’Olocausto, nel cuore dell’Europa colta ed evoluta. E poi di onorare chi fu annientato dall’odio razziale degli aguzzini nazisti. Leggi razziali a Rodi. Sami si è speso con generosità, passione, sdegno, ma anche con la lievità di chi non ha perduto il senso dell’umorismo. La sua storia si apre con le immagini di un’infanzia felice, in una famiglia felice, su un’isola felice, Rodi, conquistata dagli italiani che l’avevano strappata ai turchi all’inizio del ’900. Immagini trasformate in poche ore, in quel maledetto 1938, in un incubo, costringendo le vittime a dover convivere da subito con l’ansietà, l’angoscia, la paura. E con la consapevolezza di essere il “diverso” che gli altri cercano di evitare, magari voltando il capo dall’altra parte. Il padre di Sami che perde il lavoro, la madre uccisa da una grave malattia, la necessità di procurare cibo per il genitore e la sorella, la generosità che i soldati italiani nutrono per quel ragazzino nonostante le leggi razziali, la disoccupazione e la discriminazione che colpisce come una frustata la minoranza ebraica dell’isola. Chi poteva, dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38, lascia l’italiana Rodi per trovare un approdo più sicuro in America, in Argentina, in Canada, in Africa. In quattro anni, metà degli israeliti erano espatriati. Gli Ebrei rimasti erano poco più di 2.000. Sami non capiva, era ancora un bambino, e non pensava che dopo qualche tempo avrebbe benedetto la prematura scomparsa della sua mamma. Morendo nel suo letto di dolore, la donna non avrebbe visto e patito il picco dell’orrore, a differenza del marito e dei figli. Il racconto dell’ingannevole convocazione degli Ebrei di Rodi si raccorda subito con il calvario della deportazione. Simile a quello di tutti i correligionari dei Paesi occupati dalla macchina da guerra di Adolf Hitler ma, nel caso dell’isola del Dodecaneso, con la feroce sofferenza aggiuntiva del doppio viaggio verso la morte: il primo in mare, stipati su una chiatta maleodorante riservata al trasporto degli animali sotto lo spietato sole di Agosto, fino al porto di Atene; il secondo viaggio sul treno dell’infamia, nel buio soffocante dei vagoni per il bestiame. Destinazione la Polonia, i campi di sterminio. Sami ormai ha poco più di 13 anni, ma ne dimostra alcuni di più. La famiglia, giunta a Birkenau, supera la prima brutale selezione: il cenno a sinistra del medico nazista che giudicava a vista, voleva dire camera a gas e forno; il cenno a destra indicava i “privilegiati” risparmiati perchè giudicati adatti ai lavori più duri. In pochi giorni di internamento, quasi tutto diventa chiaro, anche nello sguardo ancora innocente di un ragazzino. La fugace e quotidiana visione di sua sorella, oltre la cortina di ferro attraversata dall’alta tensione, conforta Sami fino al giorno in cui non la vede più, e comprende che è andata all’infermeria, anticamera della morte. Suo padre, prostrato dal lavoro massacrante, dal freddo, dalla fame e dalle torture gli rivela, una sera, che ha deciso di farsi visitare, metafora che significa “non ce la faccio più”. Ma prima di consegnarsi agli assassini, impone al figlio di tenere duro. “Sami, tu sei forte. Devi farcela. Ce la farai!”. E così il ragazzino di Rodi, diventato adulto, resta solo a combattere per la vita. Salvo grazie alle patate. Una volta Sami ha un cedimento, ha la tentazione di farla finita, è pronto a lanciarsi contro il filo spinato, davanti al quale ogni giorno veniva obbligato a raccogliere i cadaveri delle persone che, una notte dopo l’altra, decidevano di morire. Lo trattiene l’accorata imposizione di suo padre: “Devi farcela!”. Ci riesce, almeno fino a quando, affamato, indebolito e ridotto ad uno scheletro, non riesce a superare la nuova selezione. Vuol dire camera a gas. Il suo destino è segnato. Lo chiudono, assieme ad un gruppo di altri sventurati, nell’anticamera della finta doccia dove le conduttore del letale Zyklon B sputano veleno a getto continuo. Ma non succede nulla. Una nuova forma di tortura, sperimentata dai nazisti! Passano le ore in un silenzio irreale, poi si spalanca una porta, ma non è quella della camera a gas. Un ufficiale tedesco dà ordine di uscire all’aperto, perchè si è prodotta un’emergenza. Sami racconta l’emergenza con un sorriso amaro: “Sono vivo grazie ad un carico di patate”. Chissà quante volte avrà raccontato l’incredibile episodio. “Proprio patate, sissignore! Era infatti arrivato un treno carico di patate, ma non vi erano abbastanza prigionieri per scaricarlo. Era quasi mezzogiorno, e quasi tutti i deportati si trovavano fuori dal campo, al lavoro. Bisognava scaricare le patate in fretta perchè un altro treno della morte, carico di Ebrei, attendeva il turno per arrivare alla rampa di Birkenau. Io e gli altri candidati al gas ci siamo guardati, stupefatti: non era ancora il momento di morire. Fummo condotti a scaricare le patate, sistemandole a piramide su assi di legno. Alla fine, ci fu un’animata discussione fra due ufficiali nazisti: uno diceva che dovevamo andare al gas subito; l’altro invece – visto che già indossavamo il pigiama a righe ed avevamo preso confidenza con le leggi, la disciplina e le punizioni del lager – sostenne che era meglio rimandarci nelle nostre baracche. Per il gas sarebbero stati pronti i passeggeri del treno che stava sopraggiungendo. Prevalse il fanatismo organizzativo del secondo. Per noi, quindi, morte rinviata”. Il “lavoro” gli salvò la vita! Sami ha un carattere forte, ma rivivere quei momenti gli provoca una smorfia dolorosa. “A Birkenau avevo perso la fede, bestemmiavo il dio che non faceva nulla per impedire quell’atrocità. Poi, Dio l’ho ritrovato. Mi ha fatto sentire la sua presenza anche alla fine di quell’atroce sofferenza. Mentre stava arrivando l’Armata Rossa sovietica per liberarci, i nazisti ci misero in fila per la fuga notturna, dopo aver fatto saltare i forni e distrutto le prove più evidenti dello sterminio, cercando di cancellare quel che ormai tutto il mondo sapeva. Durante il trasferimento, che i sopravvissuti ricordano come la marcia della morte, chi cadeva, scivolava o zoppicava veniva ammazzato immediatamente con una raffica di mitra. Ero sfinito, mi piegai sulle ginocchia. Ero morto, sì ero morto, sapevo e sentivo che nessuno avrebbe potuto far più nulla. Invece, due miei sconosciuti compagni di sventura mi presero, uno per le braccia l’altro per le gambe, e mi salvarono, alla fine della marcia, lasciandomi svenuto ma vivo accanto ad una montagna di cadaveri. Non ho mai conosciuto i nomi di chi mi ha salvato. Li ho cercati ma non ho mai ritrovato quei due angeli che erano stati più forti della volontà di sopravvivere, una forza che imponeva a ciascuno di pensare egoisticamente a se stesso, a farcela. E poi Dio si è ricordato di me, dandomi la fortuna di incontrare mia moglie. Vivere con un sopravvissuto non è facile. Occorre pazienza, generosità e amore. Io l’amore vero l’ho trovato. Sono stato fortunate”. È incredibile sentir parlare di fortuna da un uomo che ha visto e patito le sofferenze più indicibili. Doppiamente incredibile perchè, anche dopo la liberazione, la vita di Sami Modiano, salvo per caso, non è stata facile. Ricorda la fuga dal villaggio dove erano dislocati i soldati sovietici che lo avevano salvato. Fuga dettata dal piano di un amico che temeva di essere inviato sul fronte russo e dal desiderio di tornare a casa, nonostante i sovietici trattassero i sopravvissuti con molta umanità. Altre settimane di marcia notturna, “ma questo – racconta Sami – per me, come si può immaginare, non era il principale problema”. Alla fine, l’arrivo a Roma. Ero italiano a tutti gli effetti, ma non avevo mai visto il mio Paese. Dall’Africa a Ostia. Modiano aveva perduto tutto. Rodi era lontana. E così è andato a cercare parenti e amici, prima a Ostia poi in un altro esilio, nel Congo Belga, dove altri si erano trasferiti ed avevano intrapreso con successo attività commerciali. L’intraprendente ragazzino, diventato adulto combattendo con la morte, non ci pensa due volte. Sbarca dall’aereo nel cuore dell’Africa, prende confidenza, s’impegna, viene colpito più volte dalla malaria ma si riprende, mette in piedi una piccola impresa. Finalmente è quasi un benestante. Si sposa e si convince che la vita è tornata finalmente a sorridergli. Ma non è così. La brutale conquista del potere da parte di Mobutu e la caccia agli stranieri, depredati di tutto, lo spinge ad abbandonare il suo ultimo esilio. Un medico belga gli dice: “Sami, ti sei salvato ad Auschwitz-Birkenau. Mica vorrai morire qui”. E così, assieme alla moglie, torna in Italia e ricomincia daccapo, inventandosi una terza o una quarta vita. Che carattere straordinario! Sami si divide tra Ostia e Rodi. D’inverno sta a casa, nella sua casa sul litorale, e va a raccontare nelle scuole, nei licei e nelle università di tutta Italia cos’è stato l’orrore dei campi di sterminio, quanto è stato facile instillare ed alimentare il più feroce odio razziale, quanti in Italia hanno venduto gli Ebrei ai nazisti e quanto sia velenosa e infame la campagna negazionista. D’estate si trasferisce a Rodi, per tener viva la memoria di quella terribile deportazione e per cementare la minuscola presenza della comunità ebraica sull’isola. Dalla fine della guerra, Rodi è greca. Ma quando chiedono a Sami se si senta più greco o italiano, quest’uomo fiero, salvo per caso, non ha un attimo di indecisione: “Sono italiano e mi sento italiano”. Insomma, “Mussolini preferì allearsi con Hitler per timore che la potenza tedesca vincesse”? Se davvero l’Italia avesse temuto una vittoria della Germania avrebbe evitato di andare a dar manforte a Hitler. Poteva tranquillamente non intervenire o addirittura schierarsi contro la Germania. Certo, Mussolini temeva che una Germania vincente avesse poi una preponderanza schiacciante, e quindi ha cercato di fare, nella prima fase del conflitto, la sua guerra parallela che però non era in grado di fare. Il piano di Mussolini non era certo quello di contrastare la Germania: lui voleva ritagliare un ruolo da protagonista per l’Italia dentro l’alleanza con la Germania, che era già stata stipulata prima dello scoppio della guerra, nel Maggio del 1939 con il Patto d’Acciaio. Mussolini scelse la guerra senza esservi obbligato. E’ una strana teoria quella di dire ‘per contrastare la mafia divento mafioso’. Non è sostenibile e comunque non è una giustificazione. L’obiettivo di Mussolini era di stare insieme alla Germania in un progetto aggressivo e di dominio sull’Europa. Riguardo alle leggi razziali, è assurdo pensare a “un’imposizione della Germania”, come fossero state un corollario dell’alleanza con Hitler. Le leggi razziali furono dell’Autunno 1938, l’alleanza è della Primavera del 1939. Vengono prima le leggi razziali e poi l’alleanza. Il primo storico delle leggi razziali italiane, argomento per tanto tempo trascurato nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, è stato Renzo De Felice, il quale ha detto molto chiaramente e in più occasioni che “non ci fu nessuna pressione dei tedeschi per imporre le leggi razziali. Non ci fu nessuna richiesta, nessun ultimatum, niente”. Mussolini decise di introdurre le leggi razziali di sua iniziativa, a freddo, visto che non c’era nessun tipo di movimento popolare che lo richiedesse. Lo fece perché pensava che gli italiani avessero bisogno, soprattutto dopo l’esperienza della guerra di Etiopia, di sviluppare un orgoglio di razza. Voleva che gli italiani diventassero un popolo guerriero più cattivo. Fu nel quadro di una totalitarizzazione del regime che Mussoli decise, senza esservi costretto, di introdurre le leggi razziali. Non ci fu nessuna imposizione da parte della Germania. Era tutto parte di un piano di preparazione al secondo conflitto mondiale. Già allora Mussolini pensava che ci sarebbe stata una guerra e che l’Italia sarebbe dovuta intervenire, anche se l’alleanza con la Germania non era ancora stretta del tutto. Pensava a fare degli italiani un popolo guerriero, piuttosto che a preparare l’Italia alla realtà della guerra. Quando Hitler brucia i tempi e fa scoppiare la guerra prima di quanto Mussolini voleva, il 1° Settembre 1939, l’Italia non è pronta e Mussolini deve adattarsi a questa fase di non belligeranza che molto gli brucia. Però lui vuole fare la guerra, non vi è trascinato. La vuole fare perché il suo progetto totalitario prevede un’Italia dominatrice, imperiale, guerriera. Questo dimostra la falsità dell’altro luogo comune che viene sempre tirato fuori dai negazionisti, che “se Mussolini non avesse fatto la guerra,…”. Il Mussolini di quegli anni non poteva non fare la guerra. Mussolini non era Franco, un dittatore conservatore. Aveva un progetto totalitario, anche se mai veramente realizzato. È sciocco e inutile pensare altro. La guerra era dove lui voleva arrivare, era insita nel suo progetto fin da subito, ma sempre più chiaramente dopo la guerra di Etiopia. Altro che “buone opere” di Mussolini! “In campo agrario”, come dicono alcuni giustificando i misfatti fascisti. Anche Stalin e Hitler hanno fatto opere pubbliche. Va riconosciuto a Mussolini il fatto che la sua dittatura fu meno sanguinaria rispetto a quella dei suoi coevi, ma soltanto per impotenza tecnologica! Mussolini fu fin dall’inizio un dittatore violento. Abolì la democrazia, le libere elezioni, i partiti e la libertà di opinione e di stampa. Tanto basta per condannarlo anche se avesse fatto bene tutto il resto. Dietro alle altre visioni alternative così deformate della storia, c’è l’ignoranza e la pigrizia mentale. Queste opinioni non sono altro che l’ennesima riproposizione di un vecchio cliché che fa parte di una cultura politica che non è né fascista né antifascista, ma a-storica, la più pericolosa! È una cultura condivisa dalla maggioranza silenziosa degli Europei e degli Italiani, che è la stessa dei rotocalchi moderati negli anni Cinquanta. Una cultura che tende non a rimpiangere il fascismo e il comunismo ma a dare dell’esperienza fascista e comunista una versione edulcorata e falsa. Dietro a tutto questo c’è l’ignoranza, una scarsa conoscenza e una deformazione dei fatti. L’incarnazione di questa incultura, sono i “tribuni” della storia! De Felice, un uomo molto attaccato dalla cultura di sinistra italiana, ha scritto migliaia e migliaia di pagine evidentemente ancora da studiare. Per dissolvere i luoghi comuni diffusi che ritornano sempre. Perdere di vista il quadro complessivo di una dittatura come quella fascista che aveva una tensione totalitaria, è gravissimo. È una bestialità, una sciocchezza che conduce alla fine. D’altra parte l’effettiva e concreta pericolosità di nuclei che si ispirano a valori antitetici a quelli sui quali si basano le nostre società democratiche, è sotto gli occhi di tutti. Tre sono i concetti-chiave per salvare la Democrazia e la Libertà in Italia e nel mondo: un NO fortissimo da parte di tutti coloro che amano e credono nella Libertà contro chi prova a diffondere odio e violenza; massima attenzione verso ogni manifestazione di razzismo, antisemitismo e xenofobia; individuazione dei responsabili e applicazione delle sanzioni previste dalla Legge. La Memoria della Shoah non è un puro ricordo, ma un’opera di edificazione del presente. Non sfuggono le responsabilità storiche di alcuni figli della Chiesa, per le quali il Beato Giovanni Paolo II affermò il suo rimpianto quando visitò lo Yad Vashem di Gerusalemme. Ogni Memoriale della Shoah non è un museo. Infatti un museo racconta qualcosa di concluso. Il Memoriale invita a riflettere su qualcosa che non è detto sia passato. L’odio antiebraico non è passato. Dobbiamo chiederci cosa impedirebbe oggi che si ripetesse lo stesso percorso degli avvenimenti di allora. Dobbiamo avere il coraggio di ricordare ai bambini che l’Uomo non è solo bontà, ma anche male. Solo con questa consapevolezza possiamo impedire che tutto accada di nuovo. Banalizzare il male significa accettarlo! Memoriale vuol dire non ridurre il ricordo a rituale. I Memoriali, i Musei e le Fondazioni attive nel campo dello studio e della ricerca sulla Shoah, guardano con fiducia a un futuro nel quale le atrocità del passato non possano ripetersi. Fare i conti con il passato sembra un’attività particolarmente difficile nelle regioni d’Italia, dove il processo di presa di coscienza comunitaria dei torti che furono perpetrati durante la Diaspora e la Shoah sembra più indietro rispetto ad altri paesi d’Europa. È stata fondamentale l’opera di tanti storici: vasta è la letteratura scientifica su cui oggi possiamo contare per valutare le responsabilità italiane, le leggi razziste, le complicità, i silenzi. Ammettere le colpe e gli errori che furono commessi, è importante per apprezzare fino in fondo la straordinaria solidarietà di chi invece si ribellò al male, una scelta che assume ancora più valore se confrontata con l’amara realtà della storia. È importante specialmente nei confronti dei più giovani che potrebbero non capire per quale ragione si dedica un’attenzione particolare a queste vicende se raggiunti da messaggi veicolati nel modo sbagliato. Perché un Paese in pace con il proprio passato è un Paese più giusto, più forte, più capace di affrontare la propria storia attuale, la propria quotidianità e i fenomeni di intolleranza e razzismo che l’affliggono. Le vittime della Shoah furono più di sei milioni, perché nella conta vanno inclusi tutti coloro che le scorie di quel dramma le hanno provate e continuano ancora oggi a provarle sulla loro pelle. Esiste una sola via d’uscita per loro ed è rappresentata dai giovani, dalle nuove generazioni chiamate a costruire un futuro di pace e di fratellenaza. Soltanto i ragazzi, confrontandosi con i loro nonni deportati, facendo domande e attendendo risposte hanno la possibilità di aprire i cancelli e far uscire queste persone dalle buie cantine dell’oscurità. Affinché si sviluppi una vera coscienza storica perché quello che è stato non accada nuovamente, per nessuno e mai più. Questi sono i fatti che dobbiamo ricordare e raccontare ai nostri ragazzi perché solo con la conoscenza di quello che è stato, possiamo formare una generazione futura che sappia evitare le discriminazioni di ogni tipo verso il prossimo. Che cosa significa la parola Memoria? Significa rivivere criticamente un passato di sofferenza, di crudeli discriminazioni e di persecuzioni, valutato in un tempo diverso quando una società che si spera diventata più matura e più civile, sia divenuta capace di giudicare le tensioni, i conflitti, le crudeltà che hanno imperato in quei tempi, tanto diversi, fortunatamente non più attuali ma ancora molto vicini nel tempo. La globalizzazione può esprimere un auspicio ma anche una minaccia: da un lato l’auspicio di un mondo unitario sottoposto alle stesse regole con società che riconoscono e difendono gli stessi diritti, che prosperano rispettando e valorizzando le svariate tradizioni culturali, religiose, politiche dei gruppi umani che le compongono. Ma potrebbe anche significare la permeabilità di tutte le società umane a pregiudizi, alla ricerca spasmodica di diversità vecchie e nuove, di quanto possa rendere gli esseri umani che vivono in uno stesso territorio ostili gli uni agli altri, estranei gli uni agli altri o addirittura nemici da isolare o da espellere. È la diversa lettura di una medesima parola e la sua opposta interpretazione di un medesimo fenomeno, che fanno nascere una tensione in grado di minacciare tristemente la stessa nostra vita quotidiana. Ad esempio per la ricerca di una soluzione alla crisi economica imperante ed ai suicidi imprenditoriali. Non basta mantenere viva la Memoria del passato. Bisogna essere vigili al presente. Il Male è un mutaforma. Sappiamo bene che stiamo vivendo in una delle fasi più difficili della nostra Storia. Difficili sul piano economico e sociale, per l’invecchiamento della popolazione e difficilissime per i giovanim oggi più che mai alla ricerca di attività stabili e gratificanti che i politici non riescono a creare. Difficili sul piano internazionale, dove spesso si scontrano Governi e popoli che rivendicano diritti riconosciuti ma che appaiono incompatibili fra di loro, mentre altre forze economiche, militari o multinazionali, utilizzano strumentalmente queste tragedie per meri calcoli di potere. In mezzo a queste tensioni vecchie ideologie razzistiche che ci illudevamo fossero ormai solo un monito del passato, tornano alla ribalta, anche in forme relativamente nuove. Circolano ancora i “Protocolli dei Savi anziani di Sion”, già famigerato falso ed oggi ancora strumento di agitazione culturale, economica, ideologica e politica con i necessari aggiornamenti. Entrano subdolamente ma anche alla luce del Sole nelle pieghe della vita sociale, nella massoneria, nelle curve degli stadi o nell’uso volutamente improprio della parola “Ebreo”. Per non parlare di albe o di tramonti apertamente filo-nazisti che stanno ritornando alla ribalta. È vero che gli Ebrei non sono più l’unico obiettivo da eliminare. Del resto non sono stati soli neppure nei campi di sterminio. Fratelli di discriminazione e di sofferenza oggi sono i cosiddetti “extracomunitari”. Ma questo non è consolante. È maggiormente preoccupante. La Memoria del presente, che non è assolutamente roba da museo, pone compiti specifici che non si esauriscono nelle pur doverose cerimonie di commemorazione. Fra i compiti specifici, lo sforzo di un’educazione alla “Democrazia responsabile” che significa rendere edotti, partecipi, determinanti anche nei controlli, dunque responsabili, tutti i cittadini. Identità e fraternità, questo significano. Gli Ebrei italiani sono felici di poter offrire a tutti la loro esperienza storica, religiosa e culturale, con i suoi dilemmi e con le sue sintesi. Vengono da un glorioso passato che unisce l’amore e la fedeltà per la Terra dei Patriarchi e dei nostri comuni avi. Per l’Italia tanti Ebrei hanno sacrificato lavoro, lotte ed anche la vita per vederla libera, civile, solidale con tutti i suoi figli. Da quando si è cominciato a parlare normalmente della Shoah, sono sempre state prese in considerazione le vicende personali, le testimonianze, ma cosa succederà quando anche l’ultimo dei testimoni sarà scomparso? Come ricordare? Il Giorno della Memoria, istituito in Italia il 20 Luglio 2000 come occasione di riflessione sulla tragedia, denuncia oggi una crisi: proposta come male assoluto, la Shoah si presenta non come evento storico, ma come dato etico-spirituale, come elemento intangibile ed astratto. Se è vero che il contenuto di questa Giornata si è definitivamente esaurito, è pur vero che una delle ragioni è l’aver voluto per motivi di convenienza focalizzare l’attenzione sulla tragedia specifica degli Ebrei, senza pensare che il Giorno della Memoria potesse essere un’occasione di riflessione pubblica non solo sull’antisemitismo, bensì sul razzismo in tutte le sue declinazioni. La Memoria di oggi è costruita sull’offerta delle voci testimoniali che lentamente vanno scomparendo e su una cospicua produzione editoriale e documentaristica. La prima battaglia gnoseologica da fare è quella di riuscire ad indagare gli eventi passati attraverso il mestiere di storico, fatto di scavo nei documenti, di ricostruzione della storia nella forma più dettagliata possibile, tenendo conto però che in definitiva nessun documento fornirà mai una versione totalmente esaustiva dell’argomento Shoah. L’altra criticità del Giorno della Memoria è che non risulta essere un evento emblematico che spinga a una riflessione sulle responsabilità italiane, ma piuttosto l’ennesimo paradigma del falso mito che vede il buon italiano contrapposto al terribile tedesco. Nessun passo avanti è stato fatto negli anni affinché venisse riconosciuta la connivenza e il diretto coinvolgimento della società italiana nella campagna discriminatoria successiva all’emanazione delle leggi razziali. Ma anche prodromica, nei secoli precedenti. Norme razziali, che ricordiamo, furono redatte da giuristi che aderirono volontariamente all’ideologia fascista. Il risultato di un atteggiamento di pacificazione nazionale nel Dopoguerra e la scelta di un oblio politically correct che deresponsabilizzasse l’italiano medio, vittima inconsapevole di un regime che non riconosce più come suo, ha portato oggi a quei fenomeni di “rielaborazione” storica, di semplificazione che permettono la messa in opera di monumenti dedicati a gerarchi fascisti. Atti che sarebbe impensabile in qualsiasi altro Paese direttamente coinvolto nel conflitto mondiale. La società tedesca, al contrario di quella italiana, è riuscita a superare il velo di vergogna e raccapriccio in quando ha reso palese e manifesto non solo il ricordo delle vittime, ma anche dei carnefici, attuando un’analisi attenta dei fenomeni politici e sociali che hanno portato all’ideologia nazista, senza minimizzare le proprie responsabilità alla luce delle prove documentali e testimoniali che negli anni sono state presentate. Come si dovrà da oggi in poi veicolare la Memoria della Shoah, affinché sia la coscienza viva della storia di tutti e non diventi uno squallido rituale di convenienza che coinvolge minoranze estranee alla collettività? Siamo involontari incolpevoli corresponsabili del profluvio di immagini, richiami, pensieri e parole che si assiepano dentro il Giorno della memoria. Quasi orami un Mese della Memoria, a giudicare dalla ricca messe di eventi. Come evitare che esso divenga un ritualismo autocelebrativo, una cacofonia di voci dove tutti parlano, rivendicando il diritto a dire qualcosa, senza tenere in distinzione gli ordini di significati e la complessità degli eventi che sfociarono in uno sterminio immane? È questo il nostro autentico fardello di Ebrei e Cristiani insieme. La Shoah non avvenne in un vuoto ma costituì un pieno di gesti e di azioni coordinate, dove ad essere chiamati in causa furono non solo le vittime e i carnefici ma anche e soprattutto gli “spettatori” come li definisce lo storico Raul Hilberg. Ossia coloro che videro, intuirono o più semplicemente non videro ma vissero comunque quei tempi, offrendo con il loro silenzio compromissorio il peggior viatico allo sterminio. Molti credono che il 27 Gennaio sia l’occasione per la proclamazione di eterni principi, per poi dismetterli ventiquattr’ore prima e dopo. Non è il giorno in cui le vittime sono accettabili e belle! Salvo poi scoprire che tali non sono il resto dell’anno. C’è una retorica dell’accusa che finge di condannare quando invece ha per obiettivo latente quello di assolvere. È il tema sul “cattivo nazista” mentre la ferocia dei fascismi viene derubricata ad errore, mondandola dell’intrinseca natura di orrore perenne. C’è un generale problema di autocoscienza critica che non si supera con l’alibi dei Giusti, dell’antifascismo, delle buone intenzioni e di un accademico candore adamitico tanto ripetuto quanto falso. Le società europee ospitarono lo sterminio, lo resero non solo possibile ma per molti aspetti accettabile e quasi necessario. Parlare al mondo arabo-musulmano della Shoah, in particolare ai giovani, è una questione di pedagogia pubblica e politica che l’Europa e l’Italia devono avere il coraggio di porsi. Questo implica anche il sapere che furono gli Occidentali della dotta Europa a massacrare in maniera industriale milioni di persone. Quanto meno, lo furono non pochi dei nostri connazionali e dei cittadini dell’Europa di qualche decennio fa. Se le obiezioni negazioniste che in realtà sono abiezioni, che ci arrivano dall’islamismo radicale non hanno fondamento alcuno, rimane tuttavia la sfida di spiegare e spiegarci il perché. Come a
fferma Georges Bensoussan nella sua “Storia della Shoah” da leggere assolutamente, si tratta di una sfida antropologica prima ancora che di altro genere. Non di meno va superato il monito quasi intimidatorio per certi aspetti, rivolto soprattutto ai giovani, che rinvia alla Memoria come ad un “dovere istituzionale”, cioè legale. Invece occorre ragionare laicamente su di essa come si fa per un diritto, da conquistare di generazione in generazione. Altrimenti la piegatura particolaristica rischia di avere il sopravvento e di fare sì che alla tenace trama della storia che unisce i diversi facendoli eguali portatori di una comune cittadinanza, si sostituisca il ruggito di chi si dichiara al di sopra del giudizio. Si ricordi, infatti, che i nazisti si autodefinivano sempre e comunque come “vittime degli Ebrei” e mai carnefici. Nei massacri andavano professando, magari tra una messa e l’altra, come intimo atto di fede il fatto che uccidessero gli Ebrei per non esserne uccisi! Non basta dire e dirci che fosse una falsità clamorosa, poiché convinceva molti di coloro che la ascoltavano, suffragando il consenso al regime. Il megacomplesso industriale dello sterminio di milioni di persone, fu reso possibile anche da questo atteggiamento vittimistico che a tutt’oggi opera nelle nostre società sotto le mentite spoglie del cambiamento, delle riforme, del relativismo etico e della modernità. Non la comprenderemmo se non partissimo dalla competizione che nella cultura moderna c’è rispetto all’assumere su di sé il (o l’identificarsi nel) ruolo di “vittima” di qualcuno o qualcosa, all’eterna ricerca di una “vendetta”! Fatto che non rende agli occhi altrui gli Ebrei o gli Extracomunitari più amabili, come qualcuno ingenuamente crede. Se ne invidia, invece, l’essere divenuti, sia pure proprio malgrado, l’espressione del paradigma della sofferenza, al quale rifarsi per traslarlo poi su di sé. Così nel radicalismo islamico o in certi atteggiamenti rivendicazionisti che proliferano anche in settori della “cultura” occidentale. Ancora una volta, in una sorta di eterogenesi dei fini, l’Ebraismo rischia di vedersi imputato di volere rubare qualcosa a qualcuno. Se prima erano le ricchezze materiali e il potere, ora è lo status, inteso come molto remunerativo, di “vittima”. Da ciò, tra l’altro, i demenziali discorsi sulla “menzogna dell’Olocausto” scritti con lo spray nero sui muri delle città, che si basano sul presupposto che gli Ebrei si siano inventato tutto perché in questo modo possono ricattare i non-Ebrei con i sensi di colpa e soggiogare le società ai propri voleri. Anche a questo, malgrado le buone intenzioni, può allora condurre una certa ipertrofia della Memoria quand’essa non è temperata da una salda intelaiatura culturale che riposa nella normale sensibilità delle nostre famiglie, cioè sul buon senso comune del “pater familias”. Da sé, la testimonianza non basta! Ciò che la storia della Shoah deve tramandare, al di là della cognizione dei fatti, è il senso della Responsabilità civile che a sua volta rinvia alla necessità di riconoscere nello sguardo dell’altro il volto proprio. Questa è la Fratellanza. Senza questa consapevolezza, la Memoria della Shoah risulta vana. Con il calare del Sole che di qui alle prossime ore sancirà la conclusione di questa particolare Giornata soprattutto per i non Ebrei, non dimentichiamolo. Si aprano dunque sul territorio i Cantieri della Ricerca sulla Shoah e sulla Diaspora. Perché sono ancora molti i temi e le questioni aperte, per ora sostanzialmente disertati. Yerushalaim shel Zahav (www.youtube.com/watch?v=7uzzXFKn2PE). “L’Onnipotenza di Dio si manifesta soprattutto nel perdono e nella misericordia”(San Tommaso D’Aquino). Israele ha il diritto di difendersi e l’Europa di elargire i soldi pubblici dei suoi concittadini con saggezza e moderazione, per non alimentare le disastrose guerre fondamentaliste e gli ignobili traffici di armi, droghe ed esseri umani. Non resta che continuare a combattere, la Memoria del 27 Gennaio non basta. La morte di Leon Leyson (83 anni), il più giovane dei 1100 Ebrei salvati da Oscar Schindler, ci ricorda che i sopravvissuti stanno scomparendo. Fare Memoria di questo grande Male sulla Terra è un dovere civile e umano. Possa oggi il legame fra Ebrei e Cristiani rappresentare terreno fecondo per il dialogo fra tutte le religioni, prima di tutto con gli altri figli di Abramo, i musulmani. Possa l’Italia divenire in Europa sempre più il Faro di incontro e ogni Memoriale della Shoah il simbolo della nuova civiltà fondata sulla Persona. Shalom!
Nicola Facciolini
E’ incompleto.