Gli studi clinici usati tra il 2005 e il 2012 dalla Food and drug administration (Fda) per l’approvazione di nuovi farmaci sono disomogenei, secondo uno studio su Jama (http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1817794) . “La valutazione da parte della Fda di nuovi prodotti farmaceutici è regolata dal Federal food, drug, and cosmetic act, che richiede studi adeguati e ben controllati per verificarne l’efficacia” spiega Nicholas Downing, ricercatore alla facoltà di Medicina della Yale university di New Haven, Connecticut, e coautore dell’articolo. “Molti pazienti e medici pensano che la sicurezza e l’efficacia dei farmaci approvati di recente sia stata sviscerata in modo approfondito, ma la forza delle prove cliniche e scientifiche che sostengono la decisione della Fda di approvare un farmaco non è mai stata valutata” aggiunge Downing, che assieme ai colleghi ha verificato la consistenza degli studi di efficacia che servono come base per l’approvazione di un composto analizzando punti chiave come la dimensione della casistica, il disegno del trial, la sua durata e le conclusioni. Nel lavoro di revisione i ricercatori hanno usato i documenti – resi pubblici online – che la Fda ha usato per approvare 188 nuovi agenti terapeutici tra il 2005 e il 2012, con 206 indicazioni sulla base di 448 prove di efficacia. «L’89% degli studi registrativi era randomizzato e il 79,5% in doppio cieco» riprende Downing, aggiungendo che a usare il placebo come confronto era il 55% delle sperimentazioni, mentre il 32% utilizzava un altro farmaco come comparatore e il 13% non aveva gruppo di controllo. Il numero medio di pazienti arruolati per ogni studio registrativo era 760, e il 37% delle indicazioni sono state approvate sulla base di un singolo trial. «Gli studi eseguiti erano disomogenei non solo per caratteristiche terapeutiche, ma anche per indicazioni, aree terapeutiche e durata del trattamento» spiega il ricercatore, sottolineando la presenza di una flessibilità normativa che consente un approccio personalizzato per l’approvazione, tra cui la possibilità di dare rapidamente via libera a terapie potenzialmente efficaci per le malattie pericolose per la vita. E Rita Redberg, ricercatrice all’university of California, San Francisco ed editor di Jama internal medicine, commenta in un editoriale (http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1817770) : “È necessario uno sforzo della Fda per migliorare la comprensione del processo decisionale per l’approvazione di nuovi farmaci, così da ritrovare il giusto equilibrio tra innovazione e tutela della salute del cittadino”. Un problema che è stato invece sottolineato di recente da Mauro Miserandino su Doctor 33, riguarda, in Italia, i farmaci inaccessibili per l’esportazione parallela, per autorizzazioni in commercio rimpallate tra stato e regione, per vincoli prescrittivi, perché la Regione è in deficit, motivi legati al controllo della spesa in Italia ogni giorno provocano situazioni di disparità nell’accesso alle medicine. E si fa largo la proposta di un Fondo Farmaceutico Nazionale distinto dal Fondo Sanitario che permetterebbe una programmazione a lungo termine (si applicherebbe, infatti, su un arco di 3-4 anni), assicurando la copertura a condizioni vantaggiose di grandi aree terapeutiche anche in funzione della prevista approvazione, anno dopo anno, di principi attivi dal costo elevato. La proposta è stata rilanciata dal direttore dell’Agenzia italiana del farmaco, Luca Pani, alla XIII Conferenza Nazionale sulla Farmaceutica all’Università di Catania, sul tema dell’appropriatezza prescrittiva, alla presenza di rappresentanti dell’Assessorato alla Salute della Sicilia ed Agenas. La ritratteggia Filippo Drago, coordinatore del Master in Discipline regolatorie del Farmaco dell’università etnea: “Da una parte – dice Drago – Farmindustria propone di aumentare il tetto per i farmaci ospedalieri, o trovare risorse alternative; ma nell’attuale situazione del Paese appare più realistico lavorare a un Fondo sganciato dall’attuale tetto calcolato su base percentuale in rapporto alla spesa Ssn”. Da Catania arrivano altre due proposte. La prima è quella di valutare l’abolizione dei prontuari terapeutici regionali che spesso limitano la disponibilità di un farmaco. Spiega Drago: “Non c’è l’obbligo di mantenere un prontuario regionale ed esiste una marcata differenza tra le varie regioni nell’accesso ai trattamenti autorizzati. Alcune non hanno adottato il Prontuario, mentre altre non lo considerano vincolante per la prescrizione ospedaliera e beneficiano di un efficiente sistema di distribuzione diretta o per conto. Nelle regioni con piano di rientro spesso la prescrizione dei farmaci approvati in Prontuario è limitata da norme restrittive che, tuttavia, non vengono verificate da un efficiente sistema di controllo sul territorio”. Una terza questione riguarda i farmaci oncologici di costo elevato: “In alcuni casi il prezzo non è giustificato dal valore terapeutico che manca della dimostrazione di un aumento della sopravvivenza; il rebus è se continuare a sobbarcarsi il loro costo o liberare le risorse per altre terapie di provata efficacia, anche se di costo sostenuto”. Per gli esperti del Cerm, è del tutto evidente che il quadro normativo-regolatorio che presiede alla governance dei farmaci oncologici in Italia è attualmente insufficiente a governare in maniera positiva e programmatica la forbice tra risorse spendibili e necessità e urgenza delle terapie. E così, “quel trade-off difficile e drammatico che abbiamo di fronte, tra sostenibilità della spesa e domanda di prestazioni da parte dei cittadini, è, per i farmaci ad alto costo, già una realtà vissuta in tutti gli ospedali, anche se non adeguatamente documentata”. Dall’analisi del Cerm emerge infatti “un sistema con ombre e approssimazioni”. “Troppo frammentato e senza concrete motivazioni”. “Con impostazioni diverse e spesso incompatibili tra Aifa e Regioni, tra Regione e Regione, addirittura tra Als e Ospedali di una stessa Regione”.
Da dove iniziare per riorganizzare il sistema? Nell’approfondito rapporto su i farmaci oncologici in Italia, innovazione e sostenibilità economica (http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=7825925.pdf ) Fabio Pammolli, Nicola C. Salerno e Massimo Riccaboni avanzano alcune proposte di policy, distinguendo tra quelle attuabili in tempi brevi e quelle per le quali sono necessari tempi di attuazione più lunghi. Le due tipologie di intervento, secondo gli esperti del Cerm, “andrebbero avviate il prima possibile e auspicabilmente condotte in parallelo”. Bisogna infatti, secondo Pammolli, Salerno e Riccaboni, distinguere il piano delle riforme di natura strutturale e sistemica e l’altro riguardante strumenti ad applicabilità immediata, per favorire l’approdo dei prodotti ad alto costo nei Drg il più velocemente possibile. “Questi strumenti, oltre a funzionare da liason con le riforme strutturali, potrebbero poi continuare a rimanere in funzionamento nella misura in cui si proveranno utili e collocabili all’interno del nuovo assetto”. Tra gli interventi strutturali sistemici, in particolare il Cerm suggerisce di rendere unico su tutto il territorio nazionale il prontuario di fascia “H”, comprendendo tutti i prodotti che possono essere utilmente impiegati all’interno dei Drg. Le terapie con prodotti ad alto costo, e non solo quelle che si avvalgono di oncologici, dovrebbero essere registrate presso l’Aifa, in modo tale da permettere la ricostruzione di un quadro integrato dell’evoluzione della spesa e, a consuntivo di ogni anno, un dataset completo per analisi retrospettive di adeguatezza della terapie e di efficacia del farmaco. Questo file “F”, secondo il Cerm, potrebbe diventare lo strumento standardizzato con cui ogni ospedale dialoga con il sistema informativo dell’Aifa, in modo da cerare omogeneità tra strumenti utilizzati nei rapporti tra le Regioni e le loro Asl/Ao e strumenti usati tra Aifa e Regioni.“Il rispetto delle compatibilità di bilancio – proseguono Pammolli, Salerno e Riccaboni – dovrebbe essere risolto con scelte esplicite, valutabili dai cittadini, alcune comuni a tutte le Regioni (la cornice nazionale), altre adottabili dalle singole Regioni. Tra le prime, sicuramente una profonda riorganizzazione della distribuzione territoriale. Se si abolissero la pianta e i limiti alle catene di farmaci e all’incorporation, si libererebbero risorse per oltre 1 miliardo di Euro/anno in fascia A e circa 400 milioni/anno in fascia C con obbligo di prescrizione, i primi direttamente nel bilancio del Ssn, i secondi nei conti delle famiglie”.
Sempre tra le scelte di cornice nazionale, secondo il Cerm “c’è lo snodo della revisione dell’universalismo assoluto, in un duplice senso: di ridisegno del perimetro delle prestazioni essenziali, espellendo quelle marginali e dando centralità alle funzioni cruciali per la salute e la sopravvivenza; e di adozione di schemi di compartecipazione del cittadino ai costi, a seconda delle condizioni economiche e sanitarie sue e della sua famiglia”. Tra le scelte nazionali anche l’implementazione del reference pricing sui farmaci ospedalieri, per stimolare la diffusione degli equivalenti più economici tra gli off-patent; e anche la centralizzazione delle decisioni sull’esclusione dalle terapie di farmaci ad alto costo di cui non ci sia sufficiente evidenza dei ritorni terapeutici (come già avviene, per esempio, in Inghilterra). Tra le scelte da compiersi a livello regionale: l’aumento dei livelli di compartecipazione al di là dello schema base nazionale; politiche di deospedalizzazione e raccordo socio-sanitario per ottimizzare le risorse e trovare spazio per l’utilizzo dei farmaci innovativi nei Drg; l’aumento automatico della leva fiscale regionale per il ripiano integrale, anno per anno, dei disavanzi del Ssr, come fattore di piena responsabilizzazione di politici e amministratori. E poi, le soluzioni adottabili nel breve termine, in attesa che il nuovo assetto maturi, per favorire l’accesso dei farmaci oncologici ad alto potere terapeutico nei Drg. Due le linee che secondo gli esperti del Cerm si potrebbero seguire. Da un lato, “la possibilità di accantonare in uno specifico fondo una quota proporzionale all’effettivo recupero delle note di credito nel File F. In tal modo, le Regioni che ottemperano agli obblighi di compilazione delle schede con maggiore regolarità potrebbero beneficiare direttamente di schemi premiali che consentano l’adozione di nuovi trattamenti terapeutici”. Secondo il Cerm, questo meccanismo regolatorio permetterebbe infatti di favorire un più rapido arrivo di nuovi composti, specie laddove i risultati conseguiti con i trattamenti in uso dovesse risultare inferiore alle attese. “Tale schema – scrivono gli esperti – risulterebbe incentive compatible, garantendo alle Asl/Ap e alle Regioni che compilano regolarmente le schede margini di spesa ulteriori per la rapida adozione di nuovi trattamenti”. Inoltre, “lo schema permetterebbe di sostenere la spesa associata all’arrivo di nuovi composti in parte tramite risparmi conseguenti all’effettiva implementazione dei Pas, fronte sul quale sono necessari rapidi progressi. Infine, occorre che i risultati ottenuti mediante l’impiego di farmaci soggetti a monitoraggio siano condivisi in modo tempestivo e trasparente con le imprese e le altre amministrazioni sanitarie, al fine di favorire la diffusione delle best-practice e contrastare eventuali usi impropri di detti farmaci”. Un secondo meccanismo di alimentazione del fondo per i farmaci innovativi ad elevato costo, da affiancarsi a quello descritto al punto precedente, dovrebbe, secondo il Cerm, garantire una prima attuazione di meccanismi di value-based pricing. “Il fondo per i farmaci innovativi dovrebbe includere infatti tutti i composti innovativi in aree in cui si ritiene persista un forte fabbisogno di nuovi e più efficaci trattamenti. I farmaci che sono ammessi al fondo sono sottoposti a schemi di Pas e di risk-sharing. Tali schemi permettono di definire un’adeguata base documentale della costo efficacia dei composti. Tali risultati andranno in seguito comparati con analoghi indicatori di costo efficacia degli altri farmaci non inclusi nel fondo. Laddove il margine d’innovatività e costo-efficacia dei nuovi composti dovesse risultare superiore ad una certa soglia occorre favore la ricomposizione della spesa farmaceutica a favore dei farmaci innovativi”. Secondo il Cerm, “a tale proposito, è possibile definire tetti differenziati per le due tipologie di farmaci in funzione della loro costo-efficacia comparata. “Una ricomposizione della spesa tra farmaci maturi e nuovi farmaci presenta una serie di vantaggi in termini di incentivi alla concorrenza dinamica e permette di ridurre notevolmente le proiezioni di spesa. L’eventuale, ulteriore, espansione della spesa potrebbe in tal modo concentrarsi sui farmaci a valore elevato, attraverso un fondo dedicato e secondo schemi incentivanti come descritto al punto precedente”. La costituzione di un fondo dedicato per i farmaci innovativi, da associarsi alla puntuale rilevazione della costo-efficacia comparata dei trattamenti in relazione ad accordi preventivi di risk-sharing con le imprese fornitrici rappresenta secondo il Cerm “uno snodo cruciale per garantire un accesso equo e tempestivo all’innovazione farmaceutica. Tale passaggio comporta la definizione di una visione unitaria nazionale di value based pricing dei farmaci. Il fondo dovrebbe essere alimentato attraverso il recupero delle note di credito relative agli accordi in essere e attraverso l’introduzione di prodotti biogenerici e versioni a minor costo dei farmaci presenti nel prontuario nazionale. La preventiva allocazione di risorse a tale fondo consentirebbe di garantire un tempestivo e omogeneo accesso ai nuovi trattamenti su scala nazionale, da modularsi con schemi premiali per le Regioni e le Aziende Sanitarie che ottemperano puntualmente agli obblighi di rilevazione delle modalità di impiego e dei risultati terapeutici associati ai nuovi trattamenti”. Al fondo per i farmaci innovativi potrebbero inoltre essere chiamati a partecipare altri soggetti interessati all’innovazione in campo sanitario quali fondazioni e altri soggetti privati e del terzo settore. “La definizione di quadro organico nazionale per tutti i farmaci innovativi in cui si preveda la costituzione di un fondo alimentato attraverso i risparmi derivanti dalla riduzione della spesa associata ai farmaci per i quali si è riscontrata una minore efficacia comparata – concludono Pammolli, Salerno e Riccaboni – rappresenta un passaggio chiave verso un adeguato bilanciamento tra le fondamentali esigenze di rapido, equo e diffuso accesso all’innovazione nel rispetto dei vincoli di spesa”. Altra questione aperta e dibattuta è quella del nuovo ruolo infermieristico, con l ’insieme delle sigle sindacali mediche, riunite nella c.d. “Intersindacale”, che ha inviato al ministro Lorenzin, al ministro Del Rio, al presidente delle Conferenza Stato-Regioni e agli assessori regionali alla Salute un documento (http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/%5C ) contenente delle “Osservazioni” sulla bozza di accordo sulle competenze avanzate dell’infermiere e dell’infermiere pediatrico, documento con taglio prevalentemente giuridico in cui si legge: “E’ innegabile che tutti i passaggi che hanno comportato le trasformazioni della figura professionale dell’infermiere siano sempre avvenuti per disposizione di legge. E non poteva essere altrimenti, proprio per il fatto che la salute è un diritto fondamentale dell’individuo sancito e garantito dalla Costituzione per cui le condizioni definitorie della tutela della salute devono essere stabilite dalla legge, sia perché devono corrispondere al punto di vista di tutti i cittadini, rappresentati dal Parlamento, sia perché devono essere uguali in tutto il territorio nazionale”.Questa affermazione non è in realtà esatta. Per la precisione il primo mansionario delle “infermiere professionali” era un regio decreto e il secondo e ultimo mansionario un decreto del presidente della Repubblica. Non ci sono stati nel frattempo atti di normazione legislativa veri e propri quanto meno sulle condizioni di esercizio professionale. Successivamente – penso sempre all’attribuzione di competenze – per quanto riguarda alcune norme derogatorie del mansionario e di conseguente ampliamento delle competenze si provvide con il DPR 27 marzo 1992 “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per la determinazione dei livelli di assistenza sanitaria di emergenza”. Non proprio quindi un atto legislativo e ancora dopo con lo strumento dell’Atto di intesa tra Stato e Regioni del 17 maggio 1996 sull’implementazione del sistema di triage di pronto soccorso e la sua attribuzione al personale infermieristico. Anche questa volta senza intervento legislativo ma con un atto di intesa tra stato e regioni si attribuì agli infermieri la funzione di triage (“Tale funzione è svolta da personale infermieristico adeguatamente formato, che opera secondo protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio”). A ben vedere l’unico atto legislativo è stata la legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” in cui si è riformata complessivamente la normativa sull’esercizio di tutte le professioni sanitarie e stabiliti “criteri guida” e “criteri limite”. Ricorda su QuotidianoSanità.it il giurista Luca Benci che Per quanto concerne le figure professionali e i conseguenti profili è sempre stato il ministero della Salute a intervenire con proprio atto normativo dietro disposizioni di legge (legge 42/99 prima e 251/2000 dopo) che però non ha mai dato indicazioni puntuali allo stesso ministero. Si pensi che l’attuale profilo è determinato da un comma dell’art. 6 del D.Lgs 502/1992 che specificava che il ministro della Sanità doveva individuare “con proprio decreto le figure professionali da formare ed i relativi profili”. Il legislatore non si preoccupò di dettare neanche una cornice ma demandò totalmente al ministero i contenuti. D’altra parte una definizione del campo di attività di una figura professionale è del tutto impensabile che debba essere puntualizzato da grandi assemblee parlamentari. E’ più tipico della normazione secondaria.
La legge 42 stessa è costruita con dei rimandi ad atti di normazione regolamentare giuridica e deontologica. L’atto legislativo si limita al quadro complessivo i cui contenuti sono normazione di altri e non del legislatore stesso. Questo per quanto concerne i “criteri guida”. Non si rinvengono invece atti normativi di alcun tipo per “i criteri limite” delle “competenze previste per le professioni mediche” e delle altre professioni sanitarie. Qui il documento dell’intersindacale medica si fa necessariamente carente. Quando parla di professioni sanitarie e, segnatamente, della professione infermieristica sottolinea di come la regolamentazione debba essere prevista dalla legge anche per garantire il diritto alla salute dei cittadini, quando invece tratta della professione medica non cita leggi – che infatti non esistono – ma le individua in un “nucleo irriducibile di competenze riservate alla professione medica che debbono essere individuate nelle attività di diagnosi e di prescrizione terapeutica”. Questo è in gran parte vero – anche se con un’ampiezza decisamente inferiore rispetto al passato – ma non viene pressoché mai stabilito con legge. Curiosamente possiamo dire che le “competenze” previste per i medici siano riconducibili alla consuetudine, alla prassi, alla tradizione. Non vi sono atti normativi di carattere generale – se non di carattere secondario o su aspetti medico-specialistici che sono costruiti, però, come limite interno alla stessa professione medica – che regolamentano la professione medica. Questo dimostra di come non corrisponda al vero l’assoluta necessità dell’intervento legislativo per regolamentare gli atti relativi alla tutela della salute in quanto per decenni non vi sono stati e una professione, quella medica, agisce a tutt’oggi senza problemi di legittimità in assenza di regolamentazione legislativa di carattere generale.
Tra l’altro la stessa legge 42 è costruita in modo tale da non rendere necessario l’intervento legislativo, ma solo l’intervento della normazione secondaria. Sull’attuale ruolo da attribuire alle regioni sulle condizioni di esercizio professionale ricordiamo che l’art. 117 della Costituzione attribuisce alle regioni, come materia di legislazione concorrente, la disciplina delle “professioni”. Il documento dell’Intersindacale medica poi pone delle preoccupazioni sul ruolo gestionale che verrebbero ad assumere gli infermieri. Scrive l’intersindacale: “Alle rivendicazioni di autonomia infermieristica nella diagnosi, nella terapia, nella certificazione, si sono aggiunte ulteriori spinte verso l’autonomia nella gestione di Unità Operative Sanitarie Ospedaliere e Territoriali, che mirano ad abbandonare l’assistenza alla persona per transitare, di fatto, dal ruolo assistenziale a quello gestionale. E’ evidente, a chiunque abbia una minima esperienza di organizzazione sanitaria, che in questa prospettiva l’ampliamento di competenze professionali di molti prepari la implementazione di competenze gestionali, specie apicali, per pochi”.Trascuriamo la prima parte – più politica che giuridica – e concentriamoci sulla seconda parte relativa alla “spinta” verso la gestione. L’Intersindacale paventa il rischio che a fronte dell’implementazione delle competenze (di molti) vi sia la spinta all’abbandono della parte clinico-assistenziale da parte di pochi per assumere competenze gestionali apicali. Le dirigenze sanitarie e, in particolare, le dirigenze infermieristiche sono da molti anni presenti nelle strutture. Più che un rischio è una situazione consolidata e prevista, questa sì, dalla legge (legge 251/200) da molti anni. Qui, in realtà, il tono è tutto politico: la parte gestionale vista come “abbandono” della mission istituzionale evidentemente. Si parlerebbe mai così di un direttore sanitario come di colui che ha abbandonato la clinica, ovviamente con connotazione negativa in quanto la mission istituzionale del medico è clinica? Il ruolo gestionale apicale è necessariamente per “pochi”. La preoccupazione politica si mescola al dato giuridico, ricordando, nelle conclusioni che la figura apicale per eccellenza nelle strutture sanitarie è il direttore del dipartimento e citando il più confuso e inapplicabile articolo del D.Lgs 502/1992 che attribuisce al direttore del dipartimento anche la responsabilità professionale in materia “clinico-organizzativa”. Sono anni che si discute della incoerenza giuridica di un articolo che attribuirebbe, lo diciamo a mero titolo esemplificativo, la responsabilità clinica del dipartimento materno-infantile, a un pediatra anche per la parte ginecologica. Sullo stesso tema, di recente, si è anche pronunciato lo Snami, con il presidente del sindacato autonomo Angelo Testa che ha dichiarato che “la ricerca di autonomia per le accresciute competenze professionali rischia di diventare una ‘invasione di campo’” e per questo si può accettare l’ipotesi di diversi operatori, ma solamente nell’ambito di un’organizzazione che deve far capo al medico di medicina generale, detentore della convenzione, al fine di garantire l’unitarietà di un intervento curativo, riabilitativo sull’assistito”. Infine, circa la spesa sanitaria, il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e il gruppo di lavoro, composto dagli assessori e dai presidenti di Regione scelti d’intesa con il presidente della Conferenza delle Regioni, esprimono soddisfazione per il confronto sul Patto della Salute, che continua serrato secondo scadenze già fissate. Sono stati esaminati i primi articoli e il 28 scorso è stato raggiunto l’accordo sul Fondo 2014-2016 che garantisce l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) con la definizione della nuova lista entro il prossimo 30 giugno. Inoltre è stato trovato l’accordo sull’impianto complessivo della norma, sul concetto di spending review interna, finalizzato al miglioramento del sistema sanitario, per creare risorse da utilizzare per i meno abbienti, in particolare “disoccupati e cassintegrati”. Lo scorso 18 dicembre è arrivato dal ministero l’attessissima proposta del riparto dei fondi sanitari per l’anno in corso, che per la prima volta avviene sulla base dei costi standard dopo la defaticante procedura della scelta delle regioni benchmark (hanno “vinto” Umbria, Emilia Romagna e Veneto). Con la legge di stabilità si attende un emendamento che sbloccherà vecchi fondi per 450 mln circa accantonati dal 2011 proprio per la sanità, che altrimenti rischierebbero di finire come residui e questo gruzzolo servirà a riequilibrare la situazione uscita dalla proposta governativa. la suddivisione dei fondi lascia parecchi scontenti. E fa brindare altri. Perdite e guadagni, sia in assoluto che in termini percentuali, sono calcolati nella proposta del Governo in rapporto a quanto accadrebbe se si applicassero i metodi di riparto ante costi standard. Per il 2014 e gli anni a venire, naturalmente, si vedrà. Intanto questa è la soluzione tampone seguita per il 2013. D’altra parte la somma, 104 mld, è di tutto rispetto. Anche perché ad essa si accompagnano altri 2,6 mld per le cosiddette “quote vincolate”. Un piatto che vale dunque, in totale, 107 mld. E che l’anno prossimo arriverà a 109,9. Vale a dire 110 mld, per fare cifra tonda. Ora si tratterà di spendere bene questo denaro, ricordandosi che in sanità non tutto è economia. Nel 2009, a cura dell’Enpam, è stato pubblicato un magnifico gioiello d’arte, un libro edito da Noitrà, curato da Giuseppe Lauriello, intitolato “I colori della medicina”con 24 dipinti, dagli affreschi della tomba del tuffatore di Paestum al dipinto giovanile di Picasso intitolato “Scienza e carità”, per metterne in risalto che la medicina non è tecnica ma arte e non concerne valori solo di sostenibilità economica ma impegni e respiri umani più ampi e diversi.
Carlo Di Stanislao
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