“L’amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo”
Arthur Schopenhauer
“L’egoismo è sempre stata la peste della società e quando è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società”
Giacomo Leopardi
Dei documentari non si preoccupa nessuno (o quasi): arte minore e dimenticata, con la macchina da presa che non filtra ma documenta la realtà, ne è al servizio e non la manipola. Il termine documentario viene usato come aggettivo in riferimento al cinema fin dalle origini: per esempio il polacco Bolesław Matuszewski, proponendo nel 1898 un pionieristico progetto di cineteca, parlò di deposito di materiali cinematografici “di interesse documentario”; il fotografo e cineasta statunitense Edward G. Curtis usò nel 1914 le locuzioni materiale documentario e opere documentarie per definire i propri film sui pellerossa.
La critica storica tende però ad attribuire l’impiego cosciente del termine al cineasta e produttore scozzese John Grierson che, recensendo Moana (1926; L’ultimo Eden) di Robert Flaherty, parlò di “valore documentario” del film, per poi teorizzare il genere in vari saggi scritti nel 1932-1934 su “Cinema quarterly”.
La realtà “colta sul fatto” dopo essere stata splendidamente ‘inquadrata’, colpì tanto quanto il neorealismo italiano a Cannes, nel 1946, con “Farrebique” di Georges Rouquier, documentario narrativizzato, in presa diretta, che segue per un anno intero una famiglia contadina nel villaggio omonimo della Francia centro-meridionale.
E seguirono in questa scia gli italiani: Vittorio De Seta, che gira in Sicilia, a colori, sette cortometraggi, senza musica né commento, ma con suoni registrati sul posto, su un mondo destinato di lì a poco a scomparire (come avrebbe verificato con l’inchiesta televisiva La Sicilia rivisitata, 1980), influenzando tutta la filmografia di Jean Rouch ed Ermanno Olmi, che filma la realtà emergente del mondo industriale in varie opere tra cui Tre fili fino a Milano (1959,) e Un metro è lungo cinque (1961).
Ma nonostante una storia lunga e gloriosa, i documentari si vedono poco anche nei festival e niente affatto al cinema, con sortite televisive in orari da nottambuli.
Però il grande cinema non li dimentica e li esamina e premia nei grandi festiva, da Cannes a Venezia, a Toronto e, soprattutto, nella notte degli Oscar che si svolgerà, quest’anno, il 2 presso il Dolby Theatre di Los Angeles.
Selezionati per il premio finale Cave Digger Jeffrey Karoff, Facing Fear di Jason Cohen, Karama Has No Walls di Sara Ishaq, The Lady in Number 6: Music Saved My Life di Malcolm Clarke e Nicholas Reed e Prison Terminal: The Last Days of Private Jack Hall di Edgar Barens, tutti con eccellenti qualità narrative ed una splendida fotografia e tutti basati (ne siamo orgogliosi), sulle teorizzazioni di Cesare Zavattini, che prefigurò tendenze diaristiche e autobiografiche, cinema-verità e film-saggio, e che nella pratica, realizzò come documento con Riccardo Ghione e Marco Ferreri L’amore in città (1953) Siamo donne (1953) che, pur essendo in massima parte film a episodi di finzione, propongono con la loro struttura un’idea di giornalismo o di inchiesta pretelevisiva e quasi autoriflessiva sul mezzo impiegato.
Io faccio il tifo per Karama Has No Walls di Sara Ishaq, primo film yeminita candidato agli Oscar, che racconto con forza toccante racconta il 18 marzo 2011, quello l’autrice definisce “un giorno di vergogna e dignità” per lo Yemen, un venerdì, un giorno di preghiera, con migliaia di persone che si erano riunite in strada per pregare, intere famiglie con i figli piccoli. Si respirava aria di festa, serenità, gioia. Eppure durante la notte erano state allestite delle barriere per circondare la folla. Per sicurezza, per evitare scontri avevano assicurato. Hanno aspettato che iniziasse l’ora della preghiera, poi dai tetti i cecchini hanno iniziato a sparare e sono state massacrate a tradimento cinquanta persone. Quasi trecento sono state ferite. Le forze di sicurezza che presidiavano la zona non hanno mosso un dito. I morti avrebbero potuto essere molti di più se pochi coraggiosi non avessero affrontato le armi automatiche, con le pietre, per rimuovere le barriere. Tanti ragazzi sono andati avanti anche quando i proiettili hanno iniziato a fischiare. Uno gridava: “Se volete spararci fatelo pure, noi abbiamo la dignità!”. Karama in lingua yemenita significa dignità e la dignità di una nazione oppressa e schiacciata è quando documenta la giovane regista in questo splendido documentario.
Le immagini sono più forti delle parole e più eloquenti: ce lo dicono le immagine trasmesse in tv e sul web di quanto sta accadendo a Kiev, immagini sgranate e spesso fuori fuoco, ma che documentato una tragedia che non si placa, con almeno 20 morti nella battaglia tra polizia e manifestanti, scoppiata ieri mattina, quando un cordone di agenti ha impedito a un corteo di migliaia di dimostranti di avvicinarsi al Parlamento, dove si sarebbe dovuta discutere una riforma costituzionale chiesta dall’opposizione per ridurre i poteri del presidente.
Secondo il direttore sanitario del centro medico degli insorti, Oleg Musii, uno dei manifestanti morti è stato colpito alla testa da un colpo di arma da fuoco, mentre è morto, colpito alla testa, un impiegato del partito di Ianukovich, ucciso quando alcune centinaia di manifestanti, fra cui la giornalista e militante dell’opposizione Tetiana Chornovol, assalita brutalmente nella notte di Natale, hanno fatto irruzione a colpi di molotov nella sede del movimento politico in via Lipska.
E non soltanto Kiev è in fiamme, ma violenze si segnalano anche a Leopoli, roccaforte occidentale dell’opposizione più nazionalista ed inviti alla moderazione e condanne sono arrivati dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, dal capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton, dalla Casa Bianca, dalla Nato, mentre Mosca dice che il ritorno della violenza nelle strade è “il risultato diretto” della politica di Usa-Ue.
Morte, ancora morte, anche nel canale di Sicilia, dove un gommone di migranti è stato soccorso a circa 145 miglia a sud-ovest di Lampedusa da un mercantile dirottato sul posto dal Comando generale delle Capitanerie di Porto, con a bordo a bordo 107 uomini, 16 donne e due cadaveri, i primi di quest’anno. L’esodo di disperati verso una vana speranza continua e sono oltre quattromila quelli giunti sulle nostre coste nel 2014. Appena sei giorni fa, nove migranti sono fuggiti dal centro di accoglienza di Elmas ed un fatto analogo era accaduto il 18 dicembre, quando alcuni ospiti del Cpa fuggirono bloccando di fatto lo scalo aereo. Sempre a dicembre il Fatto Quotidiano parlò della protesta al centro di accoglienza immigrati di Ponte Galeria di Roma ed alcune immagini televisive hanno mostrato al mondo in che modo degli esseri umani vengono trattati in questi centri che mancano di tutto, soprattutto di dignità.
Abbiamo ancora negli occhi (e di immagini qui stiamo parlando) le decine di immigranti esposti nudi al freddo gelo di una pompa, sotto uno sbiadito e tisico sole invernale. L’obbiettivo (amatoriale ma più che esplicito), ha documentato che tra loro c’erano eritrei, ghanesi, nigeriani e, diversi sopravvissuti al naufragio del precedente 3 ottobre, quando tutto il Paese si era fermato, indignato, urlando contro le istituzioni per trovare il colpevole di una tragedia annunciata e che non si placa.
Dopo quelle immagini sul Tg2, l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro, ha espresse profonda indignazione per il trattamento a cui sono sottoposti gli extracomunitari e la comunità europea erogato delle pesanti sanzioni. Poi le immagini sono lentamente sbiadite, dissolte nel buio delle singole coscienze e nessun ha più pensato, fino alla tragedia di ieri, che anche quelli che sopravvivano alla traversata sono votati ad un destino infame.
La frase del De Cive dio Hobbes deriva dall’Asinaria di Plauto, dove si legge lupus est homo homini, non homo, che vuole alludere all’egoismo umano, con uomini soggiogati dall’egoismo, che si combattono l’un l’altro per sopravvivere, senza nessun altruismo e nessuna vera solidarietà o considerazione.
Di là dalle parole e dalle dichiarazioni, noi italiani non siamo migliori ed anzi rivaleggiamo con gli svizzeri quando a mancanza di rispetto del diverso e xenofobia.
Tutti, infatti, elogiano la Caritas e i suoi operatori che si prestano là dove le istituzioni non possono arrivare, ma nessuno sarà disposto ad accettare che nel loro quartiere, vicino a dove lavorano, sarà costruito un centro di accoglienza e di integrazione culturale.
Il risultato sarà, nella migliore delle ipotesi, sarà quello di un composto imbarazzo, molto più probabilmente una reazione scomposta, perché siam,o buonisti fino a quando non siamo toccati in prima persona, e se questo accade il fastidio ci trasforma in fiere ringhiose.
Ci viene insegnato che la convivenza è possibile solo nella convivialità delle differenze, ma quando si tratta di mettere in pratica l’insegnamento, siamo più chiusi e reazionari degli Svizzeri e più ipocriti, perchè stentiamo anche a confessarlo. E non sono migliori di noi gli altri europei, come scriveva mesi fa Micro Mega, partendo dal dato agghiacciante che almeno 6.772 persone, quasi 2 al giorno, sono morte negli ultimi 10 anni nell’attraversamento del Canale di Sicilia, in cerca di asilo.
Anche il cosiddetto burden sharing (condivisione degli oneri dell’asilo) non risolve il problema delle morti nel Mediterraneo perché interviene solo ex post, una volta che queste persone sono arrivate in qualcuno dei paesi dell’Unione, con tutti i rischi che questo viaggio della speranza comporta.
Né sembra possibile organizzare esodi di massa dai paesi in conflitto, dato il numero potenzialmente incontrollato delle persone che ne potrebbero trarre vantaggio e la stessa indeterminatezza circa i paesi in conflitto (molti dei disperati arrivati a Lampedusa provenivano dall’Eritrea, non dalla Siria).
Serve, invece, dare la possibilità di formulare domanda di asilo ancora prima di mettersi in viaggio verso l’Unione e serve farlo con l’impegno vero e sincero di tutte le nazioni, spartendosi questo l’onere di fornire asilo fra i paesi membri, alleggerendo quelli di frontiera, un principio giusto perché è opportuno condividere non solo l’onere di protezione delle frontiere (e a tal fine bisognerebbe rifinanziare Frontex e coprire anche le missioni italiane di questi giorni), ma anche quello della accoglienza, vera e non buonista o di facciata.
Carlo Di Stanislao
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