Talvolta mi ritrovo straniero tra la mia gente. E non perché, in qualità di emigrante, ogni volta che torno a Torre sono sempre di meno le persone di mia conoscenza e tante, tantissime, quelle che non avevo mai viste prima; ma perché, rientrando, non ne riconosco più la lingua. Sì, ne conservo la cadenza, ne ho mantenuta l’inflessione, però non sempre riconosco i vocaboli. Tuttavia, per aver vissuto lontano lunga parte della mia vita, mi accorgo di conservare un patrimonio di parole che ormai sembrano perdute ai miei concittadini.
Ricordo che da ragazzo quando la mamma faceva la pasta in casa – e a casa nostra capitava spesso – e qualche volta ne inviava un cartoccio anche alle sue sorelle e alle stesse sue commarelle, noi, il tipo più diffuso e più semplice da prodursi, le cuccetelle, le chiamavamo proprio “cuccetelle”. E così la famiglia della nonna da cui forse ci veniva la denominazione di questa pasta tanto facile da preparare; ma che richiedeva una grande abilità che solo il tempo e la pratica potevano fornire. E la città era piena di produttori di pasta alimentare, artigiana e industriale: definita tale solo per la quantità che usciva dalle trafile dei pastifici, perché per il resto il prodotto era sottoposto allo stesso procedimento. Mentre quella “artigiana” era piuttosto “a mano”, e casalinga.
L’impasto, affusolato in spessi cordoni, era fatto solo da semola di grano duro doppio zero e acqua tiepida; la semola, la compravamo sempre e solo o alla S.A.E.M.P.A. oppure da Cutigniello (Ditta Mulino e Partificio Gallo) più vicino a casa nostra. Si tagliavano questi cilindri allungati in pezzettini, i quali, nello stesso tempo che la lama del coltello li separava, venivano resi a forma di piccoli cubi: il tempo di una leggera stagionatura all’aria, ed ecco che, schiacciati e adattati sulla estremità del pollice, … u vi’ lloco! … “a cuccetella” era pronta da poggiare sul panno bianco accanto alle altre, fino a farne uno o due chili, a seconda della necessità: più spesso la minima quantità giusto per la cottura giornaliera della famiglia.
Tante piccole cucce (crani, teste, pelate), perciò cuccetelle, distese sulla tovaglia, il tempo che si asciugassero. Di mio padre che a partire dai suoi vent’anni fu calvo, in famiglia si diceva scherzosamente e simpaticamente che avesse la cuccia. Perciò oggi che anche la lingua napoletana si è appiattita su quella toscana, le cuccetelle si dovrebbero chiamare, tutt’al più, cappelletti. Ma quello che non capisco… perché orecchiette? Ma poiché “cuccetelle” si chiamavano non solo nella nostra famiglia, ma anche presso i vicini di casa, e – suppongo – così in tutta la cittadina di Torre Annunziata, allora io continuo a chiamarle cuccetelle, anche se non l’ho trovato ancora mai scritto sulle confezioni in commercio. Quanto all’etimologia della parola, l’ipotesi è la seguente. Cuccetelle diminutivo di cuccia (testa rasata); cuccia da coccia, a sua volta per metafora, dal latino cochlea (conchiglia).
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La stessa cosa mi capita con la parola “scazzuòppoli”, con cui noi torresi indichiamo (o meglio, indicavamo) gli gnocchi, pur sapendo che nelle stesse regioni del sud dell’Italia li chiamano (e li chiamavano) “strangulaprieviti”, tradotto poi in fiorentino con “strangolapreti”: e qui la fantasia popolare si è sbizzarrita a creare leggende intorno all’ingordigia di preti e di frati, a cercare di giustificare “a posteriori” la strana denominazione di una prelibatezza che probabilmente all’origine non doveva essere semplice impasto di semola e farina. Forse, come molto più ragionevolmente dovette intuire il nostro Mario Guaraldi, l’origine della parola sta nel nome bizantino – lingua conservatasi più a lungo nell’area meridionale della Penisola, non solo per il suo naturale sostrato di lingua greca, ma anche per il prolungato influsso per ragioni politiche e geografiche della corte di Costantinopoli – con cui i locali chiamavano gli ghocchi: nome ricostruito sulla base dell’espressione greca “stràngalo prépontov”, arrotolo convenientemente.
Quindi, anche strangolaprieviti, per quanto fantasioso a causa delle leggendarie allusioni alla casta, a me risulta un termine importato; allora, metafora per metafora, io, gli gnocchi, i piccoli manufatti di semola e farina senza forma definita (con aggiunta di fecola di patata), realizzati col semplice arrotolamento con leggera pressione di uno o due dita, continuerò a chiamarli col termine familiare di scazzuòppoli. Infatti la parola mi sembra proprio adatta alla forma dello scazzuòppolo. Anche se poi questa soluzione personale, che altro non è che continuità di una tradizione, mi presenterà qualche problema per ricostruirne l’etimologia. Chi però la parola la usa in maniera corrente, sebbene in altri contesti, non avrà difficoltà attraverso alcuni passaggi analogici a riconoscere alcuni tratti semantici presenti in essa, applicabili anche agli gnocchi.
Si parte da scazzimma: cispa. Questa è prodotta normalmente dagli occhi; in quantità notevole, quando essi sono affetti da congiuntivite. Mentre scazzare, almeno per noi – parlo sempre del medesimo gruppo di parlanti dell’area di Torre Annunziata – è stuzzicare o scrostare secrezioni biologiche, più o meno secche, dalle parti delicate del corpo; da cui anche il più generico scazzellare (scollare, separare, isolare), il cui contrario sarebbe azzeccare. (Quest’ultimo termine mi costerà un ulteriore approfondimento). Quindi se scazzimma equivale a “caccola biologica”, analogia a parte, scazzuoppolo può benissimo essere il pezzetto di pasta fresca, tagliato e “arrotolato o strascinato a dovere”, ma senza una sua forma determinata.
Luigi Casale
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