“Nel corso degli anni entrambi arrivarono, seguendo vie diverse, alla conclusione saggia che non era possibile vivere altrimenti, né amarsi altrimenti: nulla a questo mondo era più difficile dell’amore”
Gabriel Maria Marquez, L’amore ai tempi del colera.
Se n’è andato il giovedì santo, a 87 anni, dopo una vita piena e di successo e dopo una lunga malattia, tenuta a bada in modo discreto e tenace.
“Gabo”, come lo chiamavano gli amici (fra questi l’aquilano Attilio Cecchini, che con lui aveva lavorato per anni nelle redazione venezuelana di Paese Sera, protagonista di uno dei suoi racconti più belli: “Il giornalista”), è stato molto più che l’autore di “Cento anni di solitudine”, anche se si ricorda soprattutto per quel capolavoro del 1967, un monumento intellettuale, infiocchettato dal premio Nobel (effettivamente conseguito nel 1982).
Esponente di spicco del cosiddetto “realismo magico” (termine utilizzato per la prima volta nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh, per descrivere l’insolito realismo, caratterizzato da un tersa e minuziosa resa dei dettagli dall’effetto straniante, dei pittori appartenenti alla corrente classica della Nuova oggettività,) Gabriel Maria Marquez ha saputo variare il suo stile, conquistando giovani lettori e trasformando — come soltanto i grandi hanno saputo fare — i titoli dei suoi libri in slogan diffusissimi e persino in luoghi comuni: “L’autunno del patriarca”, “Cronaca di una morte annunciata”, “L’amore ai tempi del colera”, “Il generale nel suo labirinto”, espressioni che tutti, almeno una volta, ci siamo ritrovati sulle labbra, e ancor oggi ricorrono in tanti discorsi quotidiani o colti, allusivi o ironici.
Come si ricordava, prima di diventare l’autore-simbolo di un’intera generazione, di un continente e di una lingua (i suoi libri sono stati venduti più di qualsiasi cosa pubblicata in spagnolo eccetto la Bibbia), il Nobel colombiano è stato per anni un grande giornalista, un “periodista” attento, poetico e duro, dei più drammatici avvenimenti che avevano mutato la mappa di mezzo mondo, dalle rivoluzioni di Cuba e del Portogallo alla tragedia cilena, al Che, ai cubani in Angola, ai montoneros, ai dittatori centroamericani, alla Spagna postfranchista di Felipe Gonzales.
Lo ricordo soprattutto in modo struggente per i suoi primi due romanzi: “La hojarasca” del 1955, analisi di un suicidio attraverso il monologo di tre testimoni che portano alla luce vicende e passioni di tutto un paese nel corso di un secolo e “Nessuno scrive al colonnello”, del 1961.
Soprattutto quest’ultimo, diventato film nel 1999, diretto dallo spagnolo Arturo Ripstein, profondo e ricco di sfumature, ruota intorno al tema della dignità e dell’onore, da conservare ad ogni costo.
Il concetto moderno di onore si riconnette più direttamente alle idee della società medievale, in cui lesso è il riconoscimento che del coraggio, della moralità, della lealtà, dell’onestà, di una persona avevano i contemporanei, opinione variabile quindi secondo le idee dominanti in materia di moralità, di coraggio, ecc.
In Marquez, invece, esso è un diritto alla integrità sia fisica che morale, non un surrogato di rispettabilità, ma una dignità pesante nelle coscienze e nelle esistenze, avvalorato certamente dalla formulazione kantiana del secondo imperativo categorico: nelle proprie azioni “considerare l’umanità, nella propria come nell’altrui persona, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo”.
Un messaggio anticonformista serpeggia (o forse campeggia?) in tutta la sua opera, a partire da quella (“Nessuno scrive al colonnello”), con una venatura spirituale che mescola un misticismo naturalistico con una vocazione cristologica, secondo cui occorre seguire fino al’estremo compimento il proprio mandato.
I suoi personaggi, uomini e donne, ricordano da vicino quell’Anna Karenina chepaga con il suicidio la sua decisione di seguire, in quanto donna che ama, la propria passione d’amore per un uomo che finisce egli stesso, nell’evoluzione dei sentimenti reciproci, per non amarla.
In questo modo Anna Karenina – proprio come vuole il suo creatore, Tolstoij – è dignitosa fino a risultare un’eroina, benché agli occhi del mondo, del marito e di quelli come lui non sia onorevole.
Anche in Marquez è così, costantemente così, dagli inizi fino alla fine, al 1992, con la raccolta di racconti Dodici racconti raminghi, a metà tra realtà e fantasia; al 1994 con Dell’amore e altri demoni, indagando, attraverso la storia di una ragazza internata in un convento in quanto ritenuta indemoniata, sull’ineluttabilità e sull’inspiegabilità del sentimento amoroso.
E ancora più di recente in Vivere per raccontarla (2002) e Memoria delle mie puttane tristi (2004), con la storia di un vecchio giornalista che, a novant’anni, trascorre una notte con una ragazzina illibata, rimanendone piacevolmente sconvolto al punto da incominciare, quasi, un nuovo percorso di vita.
Da noi,la sua attività pubblicistica è stata parzialmente pubblicata in A ruota libera 1974-1995, nel 20033, e nel 2012 è stata la raccolta Tutti i racconti (fra cui quello su Attilio Cecchini), che ricostruisce il percorso letterario dello scrittore a partire dalle prime sperimentazioni giovanili e ne individua novità e coerenza.
Per cui, non solo “Cento anni di solitudine”, ma l’intera sua opera compone la base del “realismo fantastico” , insieme ai racconti di Jorge Luis Borges, a quelli del nostro Dino Buzzati, con il recupero e l’innovazione tutta amerinda dei racconti di E.T.A. Hoffman, in cui l’elemento soprannaturale emerge insospettato nelle pieghe della vita di tutti i giorni.
Per ricordarlo rileggerò “L’amore ai tempi del colera” e riscoprirò l’incanto del saper parlare e scavare narrando una relazione sul filo della immoralità, che ha per protagonista una bambina non compresa, vittima dell’indifferenza altrui, soprattutto di quella dei genitori; la vita perfetta di un prete che viene sconvolta dall’amore, che lo porta a non fermarsi di fronte a nulla; un vescovo convinto che l’esorcismo sia necessario, impuntato su ciò che fa e che non vuole sentire ragioni.
Carlo Di Stanislao
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