Far rumore mentre si gioca, far cadere a terra una penna, saltellare mentre il maestro sta parlando: sembrano solo i tratti distintivi di un bambino un po’ vivace, ma per molti medici invece sono i classici sintomi che presenta un minore affetto da Adhd (Attention- Deficit/ Hyperactivity Disorder). La sindrome da deficit di attenzione e iperattività è un disturbo comportamentale caratterizzato da segnali che si manifestano in età infantile (sebbene di recente siano stati diagnosticati alcuni casi in età adulta), che portano il bambino a distogliere spesso l’attenzione dalle cose in cui è impegnato oppure a fare più cose contemporaneamente. La complessità e spinosità dell’Adhd sta nel limite, molto labile, che intercorre tra la diagnosi di una vera patologia e la manifestazione spontanea di caratteri infantili.
Allo studio di questa malattia e alle problematiche ad essa connesse è dedicato il primo lungometraggio della regista napoletana, Stella Savino, “Adhd Rush Hour”, una produzione italo-tedesca, che dato l’interesse, ha visto anche la partecipazione del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che è stato presentato in anteprima al Cinema Barberini di Roma e che uscirà nelle sale il 26 giugno.
Le ricerche per questo documentario risalgono al lontano 2007, quando sul Corriere del Mezzogiorno, cominciarono ad essere pubblicati numerosi articoli che riguardavano la reintroduzione in commercio del metilfenitado con il nome di Ritalin o Concerta, una molecola stimolante paragonabile all’anfetamina, usata per il trattamento dell’Adhd. Dopo lunghi periodi di assunzioni, farmaci come questi, possono causare disturbi epatici, alla crescita e tendenze suicide. Per questo, in Campania, all’epoca, cominciò a muoversi una macchina di scienziati e ricercatori, guidati dal professor Sergio Piro, un decano della psichiatria, oggi scomparso, che in collaborazione con l’Asl 1 di Napoli, cominciò a raccogliere dati sulle destinazioni finali del farmaco. Nella maggior parte dei casi, le risposte giunsero dall’America, dove in quegli anni, si stava avendo una moltiplicazione delle diagnosi di Adhd e, come un terremoto i cui effetti si propagano anche a distanza di chilometri, stranamente si cominciò ad individuare un aumento di casi clinici anche in Italia.
I dati che spinsero di più la Savino a mettersi all’opera su questo tema furono le percentuali di casi diagnosticati, che separavano l’America dall’Italia: 11% negli USA, 1% in Italia. Per quanto la definizione della malattia sia cosa complessa e oscura, si tratta evidentemente di una forbice troppo ampia, che doveva necessariamente avere alle spalle delle motivazioni più torbide, come gli interessi economici delle industrie farmaceutiche. È da qui che parte la ricerca della regista napoletana, che capì la necessità di analizzare in primis le diverse strutture educative, tra Europa e America, entro cui i bambini crescono, per comprendere poi il conseguente diverso approccio alla cura della patologia. Ciò che risulta, come si nota dal film documentario, è che la percezione della malattia è altissima nei paesi anglosassoni, in cui il sistema scolastico è basato sulla competizione e sulla performance, piuttosto che nei paesi del Mediterraneo, in cui, al primo posto nella piramide educativa di un bambino, ancora resiste la sfera familiare, con tanto di nonni, che restano indispensabili.
Il film ci porta a Roma, a casa di Armando, diciannovenne al terzo anno delle superiori, a cui è stato diagnosticato l’Adhd all’età di 10 anni. Sono 9 anni che Armando è in cura farmacologica, per volontà della madre, che mensilmente si reca in Svizzera per acquistare le compresse, al momento ancora vietate in Italia, se non dopo cure fallimentari condotte in Centri di neuropsichiatria infantile regionali. Armando racconta di sentirsi meglio con le medicine, anche se queste non lo lasciano dormire e si sente costantemente sveglio. Il suo racconto si alterna con quello della madre, assolutamente convinta della necessità dei farmaci e ignara, al contempo, dei rischi a lungo termine che potranno procurargli. Da Roma il film si sposta di continuo in America, dove a Miami, Zache, di 10 anni, frequenta il quinto anno delle elementari. Gli è stata diagnosticata la sindrome Adhd al primo anno di asilo. Da allora è sempre stato sotto farmaci. Il suo problema è che li metabolizza troppo velocemente e quindi questi non fanno più effetto, procurandogli degli effetti collaterali insostenibili. La sua storia è raccontata da Traceye, sua madre, interiormente combattuta tra il vedere suo figlio stare meglio oppure farlo esprimere nella sua naturalezza. Zache vive male la continua competizione nei confronti dei suoi amici di classe, per questo spesso non comunica.
La storia di Lindsay, venticinquenne e laureata, che vive a New York e che ha ricevuto la sua prima diagnosi di Add (attention deficit disorder) all’età di 21 anni, mostra come la diagnosi di Adhd o Add, da sempre definita dal Dsm (Manuale disgnostico dei disturbi psichiatrici) come un disturbo dell’età evolutiva, colpisca oggi anche gli adulti. Anche Lindsay segue la cura farmacologica; vorrebbe seguire altri tipi di cure, come quella comportamentale, ma l’assicurazione non glielo consente.
Il film racconta anche come è stata affrontata questa patologia nei paesi nordici, come la Svezia. Qui, la ricerca scientifica è stata trascinata in un’aula di tribunale: il professor Cristopher Gillberg e la sua equipe nel 2002 si rifiutano di mostrare i dati scientifici che hanno portato alla pubblicazione di un articolo, secondo cui in Svezia il 10% dei bambini fosse affetto da Adhd. Eva Karvfe, una sociologa, aiutata dal dottor Elinder, si rivolge allora al tribunale. Dopo anni di battaglie legali e di campagne diffamatorie, dopo ben tre processi, la corte intima allo studio del professor Gillberg di rendere i dati consultabili. Il team di Gillberg a questo punto distrugge il materiale passandolo al trita carte. Gillberg viene condannato a pagare 4 mila euro, giudicato inoltre colpevole per abuso in atti d’ufficio. Dopo soli due anni, il professore viene insignito di una medaglia d’oro dal re di Svezia.
Maria Panariello -RS
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