Nell’ovest dell’Iraq le milizie tribali sunnite hanno occupato un valico di frontiera con la Giordania, dopo che le truppe irachene si sono completamente ritirate. I ribelli dell’Isis continuano ad avanzare e continua il genocidio, fra massacri dei fondamentalisti e stragi delle forze regolari. Ieri gli Jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante hanno ucciso a sangue freddo almeno 21 persone nelle città occidentali di Rawa e Aana, conquistate dopo il ritiro delle truppe di Baghdad.
Si tratta molto probabilmente dei vertici dell’amministrazione delle città, abbattute a colpi d’arma da fuoco e a sangue freddo.
E nel tentativo di arrestare l’avanzata verso Baghdad e strappare loro le città che controllano, jet iracheni hanno effettuato un raid su Tikrit, città natale di Saddam Hussein, uccidendo 7 persone (40 secondo fonti della tv di Stato).
Intanto è arrivato a Baghdad il segretario di stato Kerry, che cercherà di trovare una soluzione alla intricata vicenda in un Iraq che non trova pace.
Riferendosi ai miliziani jihadisti che hanno occupato molte zone del nord dell’Iraq Kerry ha detto che la loro: “è un’ideologia di violenza e repressione, è una minaccia non solo per l’Iraq ma per l’intera regione”. «Questo», ha aggiunto, “è un momento critico in cui dobbiamo esortare i leader dell’Iraq ad erigersi al di sopra delle considerazioni settarie e a parlare a tutto il popolo». In una conferenza stampa congiunta con il collega egiziano Sameh Shoukri, Kerry ha sottolineato che “gli Usa non sono impegnati a scegliere un individuo, spetta al popolo iracheno scegliersi la propria leadership”. «Gli Usa non sono responsabili per quanto accaduto in Libia e non lo sono per quanto accade in Iraq oggi», ha inoltre insistito, dicendo che il suo paese “ha versato sangue perchè gli iracheni potessero avere la loro governance, ma l’Isis ha sconfinato dalla Siria e ha attaccato intere comunità con l’obiettivo di impedire agli iracheni di avere la guida che vogliono”.
Al di là delle parole l’Iraq resta un pasticcio, un esperimento importante di ricostruzione democratica, con ricadute globali, specialmente sull’area mediorientale e mediterranea, che ci riguarda direttamente e che sembra sia sul punto di fallire.
Come scrive su Avanti Mario Del Bue, la formazione islamista l’Isis ha una sua propria, inedita strategia di stato islamico nell’area storica dell’Assiria, tra le attuali Siria e Iraq e muovendo da proprie basi nella Siria in preda all’anarchia ha occupato un’importante area del territorio iracheno, tra cui la città di Mosul, sconfiggendo le forze di sicurezza di Baghdad con tale facilità da rendere evidenti, più che la forza degli insorgenti, la debolezza, morale e politica prima che militare, dell’esercito iracheno e, per ovvia estensione, di tutto il presente sistema delle istituzioni irachene emerse dopo l’invasione angloamericana del 2003, la successiva occupazione di una forza multinazionale a cui partecipò anche l’Italia, e anni di scontri tra fazioni, attentati terroristici, elezioni relativamente libere e governi deboli ma dotati di un decente mandato popolare (date le condizioni).
Primo problema, quindi: la sconfitta sul campo delle forze regolari irachene, per come si è determinata, è una sconfitta di una possibile via irachena e araba alla democrazia.
Quindi ci riguarda tutti. È una sconfitta, in primo luogo, dei partiti di ispirazione religiosa che hanno guidato il processo democratico iracheno in questi anni. Si ricordi, infatti, che il baathismo aveva governato gli iracheni con una sorta di fascismo arabo, anche con un certo successo nel tenere assieme arabi musulmani sunniti e sciiti e anche arabi cristiani (proprio per questo suo nazionalismo non era invece mai riuscito a ridurre la frattura curda, cioè con la principale minoranza etnica, quasi del tutto musulmana, ma non araba per lingua e identità).
A ciò si aggiunga che nel nazionalismo baathista, dominate in Iraq, c’erano arabi più uguali degli altri, e insomma i sunniti dell’area centrale godevano di fatto di privilegi e accesso al potere maggiore delle masse sciite, che pure avevano dimostrato un grande patriottismo, fornendo senza ribellarsi la carne da cannone nella sciagurata guerra di aggressione contro l’Iran.
Ecco allora che non può stupire che gli arabi sciiti si siano presentati sulla scena politica irachena con propri partiti che attingevano, dopo il clamoroso fallimento dell’ideologia laico-nazionalista autoritaria, proprio a quell’identità che non appariva fallimentare, quella religiosa, così radicata nel popolo, tra la gente semplice, tra i poveri, e attentamente amministrata dal clero sciita, vicino al suo popolo e suo difensore: chi potrebbe stupirsi meno di noi italiani, che dopo il crollo del fascismo ci affidammo in maggioranza proprio a un partito che attingeva al cattolicesimo, a quella religione popolare, familiare, che pareva l’unica certezza tra vecchie ideologie nazionali crollate e nuove ideologie straniere e minacciose? Ecco, queste tremende giornate indicano un fallimento, speriamo recuperabile, del governo a guida sciita del premier al Maliki: i partiti sciiti, che godendo della maggioranza avevano ora, per la prima volta, la responsabilità generale di guidare la nazione, sembrano aver fallito la prova, cioè non sono riusciti a unire il Paese, a offrire una proposta condivisibile da tutti.
Sono apparsi, a torto o a ragione, un governo di parte, fallimento, occorre precisare, che coinvolge anche gli esponenti sunniti che collaborano alla maggioranza di governo.
Ora, come scrive Luca Cefici, occorre mettere da parte le responsabilutà, a partire da quelle americane ed invece di pensare al latte versato, guardare all’unica, ma non secondaria, conseguenza positiva del 2003: l’attivazione di forze democratiche nella società araba, laiche e religiose, e la liberazione del Kurdistan iracheno, governato localmente dai partiti eredi della resistenza partigiana antibaathista, che sono partiti laici e di orientamento progressista e socialista, se si vuole concretamente ristabilire pace e stabilità nella regione.
Se il Medio-Oriente ci inqueta, non ci sconvolge meno l’Estremo, con un nuovo orribile delitto che ha per protagonista un uomo di affari, che ha brutalmente ucciso la moglie e la figlia femmina, disperato perché un giudice gli aveva chiesto di riflettere un anno sulla sua richiesta di divorzio.
L’uomo ha prima strangolato la moglie, gettandone il cadavere dalla finestra, e poi riservato lo stesso trattamento alla figlia di tre anni, cercando di simulare un omicidio, telefonando alla polizia sostenendo di aver trovato al suo ritorno a casa i cadaveri della moglie Shalini e della figlioletta Vanshika, uccise da sconosciuti.
Ma gli agenti, dopo una breve indagine e dopo aver rilevato evidenti segni di strangolamento sul collo delle due vittime, ha costretto Kumar (questo il suo nome) a confessare non solo il duplice omicidio, ma anche che la moglie Shalini era sottoposta a regolari torture dal marito che l’accusava di aver messo al mondo una femmina e non un maschio e di non aver portato abbastanza dote.
Strano e contraddittorio paese l’India, che ancora non decide sui nostri due marò, ma che ancora tiene in piedi il sistema delle caste che consente una sopraffazione istituzionalizzata nel principio di Intoccabilità, per cui per un uomo di casta superiore violentare una dalit non è mai stato un problema, come ha dichiarato in molte occasioni Arundhati Roy, indiana, romanziera famosa e saggista di battaglia, che, nel suo ultimo saggio, “Il Dottore e il Santo” arriva addirittura a mettere a polemicamente in discussione un mito assoluto dell’India del Novecento, il Mahatma Gandhi, contrapposto eticamente e moralmente alla speciale figura di “intellettuale anti-caste” che fu suo contemporaneo e avversario: B.R. Ambedkar, economista, filosofo, leader degli Intoccabili dalit e giurista che nel secolo scorso ha redatto la Costituzione moderna; restituendogli il posto che a suo dire “gli spetta nella storia” e contestando a Gandhi la tolleranza verso la tradizione induista.
Naturalmente gli indiani sono irati con lei e violenti e numerosi sono stati gli attacchi a cui è però abituata, da quando, tre anni fa, alla presentazione del suo saggio “Broken Republic” (in italiano “In marcia coi ribelli”, Guanda), che conteneva il reportage su un viaggio nelle aree maoiste e racconti dal Kashmir islamico, fu boicottata da folle furiose di filo-governativi che presero anche a sassate la sua casa e le costò denunce per sedizione e richieste d’arresto. In cella c’è poi finita davvero per due giorni, dopo una manifestazione contro la diga sul fiume Narmada.
E chissà come hanno preso quelli del governo di Nuova Dheli l’iniziativa degli albergatori veneziani di scrivere, distribuire e mettere sul sito associativo una lettera, inviata anche all’ambasciatore di quel paese, in cui si ricorda che due uomini attendono da più di due anni un giudizio e che “il popolo italiano si sente umiliato da questa vicenda, e l’umiliazione spesso porta ad incrinare amicizie storiche”.
La lettera è stata messa a disposizione di tutti gli albergatori della penisola ed anche indirizzata ad altre categorie, dai ristoratori ai pubblici esercenti, col solo fine di creare una sensibilizzazione a livello di popolazione indiana “elevata” (gli indiani che possono viaggiare in Europa appartengono al 10% della popolazione più ricca ed influente) sui sentimenti presenti nella popolazione italiana che ho definito di umiliazione e sulla necessità di premere sul loro governo per giungere ad una soluzione pacifica, civile e condivisa.
Carlo Di Stanislao
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