Il mondo sembra un posto più giusto e più bello da quando un giudice di Khartoum ha annullato la condanna a morte di Meriam Yahya Ibrahim, ventisettene cristiana accusata di apostasia, rimettendola in libertà. Sposata con un americano di fede cristiana, Meriam era stata arrestata a febbraio, e il 27 maggio aveva dato alla luce una bambina , legata con delle catene anche durante il parto. In carcere, con lei, condannata per aver sposato un uomo cristiano nel 2011, Daniel Wani e quindi di aver abbandonato la fede islamica della famiglia d’origine, anche il suo primogenito, di appena 20 mesi.
Fuori dal carcere, il marito si è sempre battuto per la sua liberazione, denunciando le condizioni di estremo disagio in cui veniva trattenuta. Il loro matrimonio non era stato riconosciuto dalla corte di Khartoum, che ha fatto tra l’altro infliggere a Meriam cento frustate, oltre a condannarla alla impiccagione secondo la Sharia e la sua interpretazione giurisprudenziale, definita fiqh, che, secondo gli ulamā, consente la pena di morte in quattro casi: omicidio ingiusto di un musulmano, adulterio, bestemmia contro Allah (da parte di persone di qualunque fede) e apostasia ( detta ridda).
Va qui ricordato che, nel diritto penale islamico, non vi è una vera distinzione tra peccato e reato, dato il carattere religioso dell’intero sistema giuridico. Di conseguenza, il diritto penale fa la sua apparizione come disciplina relativamente autonoma solo verso il XII secolo dell’ègira. I reati penali si possono distinguere in tre grandi categorie.
Alla prima appartengono i reati espressamente puniti dal Corano e dalla sunna. Prendono il nome di reati hudud, sono i più gravi e il giudice ha nei loro riguardi un potere discrezionale molto limitato. Contro questi reati la religione nascente viene difesa con durezza: la flagellazione e la pena di morte colpiscono i reati contro Allah, quali l’apostasia, la bestemmia o l’adulterio. Pene corporali severe vengono applicate a reati gravi come il furto o il brigantaggio. Questi reati vengono sempre perseguiti d’ufficio, perché rivolti contro Dio e lo stato è il vicario di Dio sulla terra.
Ora un giudice “illuminato” ha compreso che l’amore di Meriam non è blasfemo, né il fatto che abbia, per questo, abbracciato con convinzione un’altra fede.
D’altra parte, sotto umana forte spinta internazionale, nei giorni scorsi la Commissione nazionale per i diritti umani sudanese era intervenuta per denunciare che la condanna a morte di Meriam era incostituzionale perchè contro la libertà di culto.
Ma Meriam non è ancora fuori pericolo, poiché suo fratello, attivista del gruppo integralista Hardwired, ha detto al Daily Mail Safwan Abobaker che ora sarà lui ad ucciderla, a causa dell’annullamento della sentenza che reputa più che giusta; sicché il marito ha richiesto che Meriam sia protetta dal governo sudanese e che l’ambasciata Usa intervenga per farla espatriare negli Stati Uniti.
Amnesty International aveva definito la prima sentenza di condanna a morte della giovane sudanese un abominio e ricordato che la condanna a morte per apostasia e tutt’altro che evento raro in molti paesi mussulmani.
Solo un paio di anni fa, il Washington Post , aveva pubblicato percentuali agghiaccianti sul mondo islamico e l’applicazione della shari’a: l’Afghanistan con il 99%, Iraq al 91%, per i territori palestinesi 89%, Niger 86%, Kosovo 20%, Bosnia-Erzegovina al 15%, Turchia e Albania al 12%.
Inoltre, in una inchiesta ancora più recente e che riguarda i mussulmani afgani, secondo il 78% di costoro la pena di morte per apostasia deve essere applicata ed è giusto, come si fa ancora nel paese, che la famiglia del coniuge dell’apostata abbia il diritto di eseguire per suo conto la pena di morte a salvaguardia dell’onore familiare così fortemente vilipeso, senza essere chiamato a renderne conto in giudizio.
Pochi mesi fa, in Nigeria, delle giovani studentesse sono state rapite e obbligate alla conversione dai fanatici di Boko Haram che, in un farneticante video di 57 minuti, le ha condannate ad essere “schiave” o “moglie a forza”.
Politicamente l’integralismo si presenta come un regime reazionario su tutti i fronti sociali. Da quello del ruolo della donna alla sottomissione del cittadino alle rigide norme religiose. Il suo obiettivo è quello di uniformare le strutture dello stato, il diritto civile e penale, il rapporti tra i cittadini e il potere, tra i cittadini stessi, in modo particolare tra uomini e donne, alle leggi del Corano.
Ogni deviazione è punita con pene corporali e detentive, sino all’esecuzione capitale per i reati ritenuti più gravi.
Nessun diritto civile, di associazione, che non siano quelle religiose, tantomeno sindacali. Ideologicamente lo si potrebbe definire una sorta di fascismo teocratico la cui maggiore attitudine è quella di esprimersi violentemente contro qualsiasi forma di laicismo e di comunismo. I comunisti, anche se nella versione stalinista, ma all’integralismo certe sottigliezze sfuggono, sono stati sempre le prime vittime sacrificate sull’altare dell’ideologia fondamentalista.
È successo in Afganistan con il regime dei Mujaheddin prima e con quello dei Talebani poi. È avvenuto in Iran nel corso della rivoluzione khomejnista che ha visto il Tudeh, il partito comunista iraniano, eliminato fisicamente nello spazio di pochi giorni, in Sudan.
Ovunque l’integralismo è salito al potere la sua mannaia si è ferocemente calata suoi comunisti atei e figli di satana.
Ciononostante l’integralismo trova simpatizzanti tra le file di sedicenti comunisti rivoluzionari, con un atteggiamento molto pericoloso che oscilla tra una posizione di appoggio critico e una di appoggio incondizionato a seconda del livello di incomprensione del fenomeno.
Il Sudan o meglio il Sudan del Nord, membro delle Nazioni Unite,aderisce anche all’Unione Africana, alla Lega Araba, all’organizzazione per la cooperazione islamica e al movimento dei paesi non allineati, oltre ad avere lo status di osservatore nell’Organizzazione mondiale del commercio ed è ufficialmente repubblica presidenziale federale democratica rappresentativa, ma, in realtà, con politiche ampiamente considerate dalla comunità internazionale come autoritarie, a causa del predominio incontrastato del Partito Nazionale del Congresso (PNC) nel settore giudiziario, esecutivo e legislativo.
Da esso si è reso indipendente, nel 2009, il Sudan del Sud, Stato ancora da costruire e che il ventennio di guerra civile contro il Sudan ha lasciato devastato e privo delle necessarie infrastrutture come acquedotti e servizi sanitari e dove la maggior parte della popolazione non ha accesso all’assistenza medica. Alcune aree di confine sono ancora oggetto di contenzioso con il governo di Khartoum e mentre il petrolio sarebbe una grande risorsa da sfruttare, l’assenza di impianti di raffinazione rende necessario il trasporto del greggio attraverso l’unico oleodotto esistente, quello che passa proprio per il Sudan, che applica tariffe di passaggio elevate.
Tornando però al Sudan del Nord, teatro della vicenda di Meriam, scrive la nostra Presidenza del Consiglio che in una classifica dei paesi più a rischio del mondo oggi esso, che il paese più esteso del continente africano, sarebbe candidato a conquistare il primo posto. Dopo 24 anni di ininterrotto governo dell’ex Fratellanza musulmana ha indotto gli stranieri a dimenticarsi che il Sudan ha sempre avuto – e ha – un ampio spettro di partiti. Si va da importanti formazioni maggiori caratterizzate da ideologie religiose, quali il Partito nazionale Umma e il Partito unionista nazionale (Pun), ai comunisti, ai baathisti, ai piccoli partiti laici (noti come “Forze moderne”), per non parlare dei molti gruppi politici giovanili. Ci sono anche partiti su base regionale, specialmente nell’est del paese e in Darfur.
Né manca, infine, un folto numero di fronti di liberazione, anche se a richiamare l’attenzione internazionale oggi è il Movimento di liberazione del popolo del Sudan/ Esercito-Nord (Splm/A-N), impegnato in una guerra a tutto campo contro il regime di Khartoum sui Monti Nuba e nello stato del Nilo Azzurro.
Carlo Di Stanislao
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