C’è un’Italia che, nonostante la crisi, resiste e sa essere innovativa, creativa, unita, vocata alla qualità e alla bellezza. In una parola competitiva. È l’Italia della coesione, quella che vede le aziende camminare con le comunità, coinvolgere i cittadini, valorizzare e sostenere i lavoratori. Proprio le imprese ‘coesive’ – quelle fortemente legate a comunità di appartenenza e territorio in cui operano, che investono nel benessere economico e sociale, nelle competenze e cura dei propri lavoratori, nella sostenibilità, nella qualità e bellezza, radicate nella filiera territoriale e tese a soddisfare le esigenze di fornitori, clienti e stakeholder in generale, che hanno relazioni con il non profit e le istituzioni territoriali – hanno una marcia in più che permette loro di andare lontano. Tanto che le nostre imprese ‘coesive’ hanno registrato nel 2013 aumenti del fatturato, rispetto al 2012, nel 39% dei casi, mentre fra le imprese “non coesive” tale quota si ferma ben al di sotto, al 31%. Dimostrando una migliore dinamicità anche sul fronte dell’occupazione: il 22% delle imprese coesive ha dichiarato un aumento degli occupati tra il 2012 e il 2013, contro il 15% delle altre imprese. Idem dicasi per fatturato totale e ordinativi esteri previsionali: la quota di imprese che dichiara un aumento per il 2014 di questi due indicatori è in misura significativamente maggiore tra quelle coesive rispetto a quelle non coesive, nell’ordine il 44 e 55% per le prime, il 39 e il 52% per le altre. A dimostrare il valore aggiunto della coesione c’è anche la relazione feconda con il Terzo Settore: le imprese che si relazionano con il mondo del volontariato hanno registrano nel 2013 aumenti nel numero di occupati, rispetto al 2012, nel 22% dei casi, contro il 17% delle imprese che queste relazioni non le hanno volute o sapute costruite. In questa logica di rete si rivelano strategiche le relazioni con le istituzioni. Che siano Enti locali o Camere di commercio, le realtà produttive che hanno saputo costruire rapporti solidi con tali istituzioni hanno registrato un aumento degli occupati nel 24% dei casi, contro il 15% delle imprese non coesive. Il 59% delle prime, inoltre, prevede aumenti di ordinativi esteri per il 2014, contro il 53% delle seconde. C’è anche questa ricchezza di relazioni, patrimonio umano e comunità, dietro il reshoring che vede il nostro Paese protagonista a livello mondiale insieme agli Usa.
Ed è anche grazie a queste realtà dinamiche e ‘connettive’ se siamo uno dei soli cinque paesi al mondo – con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud – ad avere un surplus manifatturiero sopra i 100 miliardi di dollari. Se possiamo vantare settori decisamente innovativi in campo ambientale: siamo, tra l’altro, i campioni europei nell’industria del riciclo. E’ così che dall’inizio della crisi il fatturato estero della nostra manifattura è cresciuto più di quello tedesco: +16,5% contro +11,6% (mentre, per converso, quello interno ha subito un crollo drammatico, legato anche a miopi politiche di austerità). Ancora più eclatanti le performance dell’export legato a cultura e creatività: +35% tra 2009 e 2013. Sulla nostra capacità di competere, insomma, non c’è da discutere.
E’ quanto emerge dal rapporto “Coesione è Competizione – Le nuove geografie della produzione del valore in Italia” realizzato da Consorzio Aaster, Fondazione Symbola e Unioncamere presentato oggi in apertura del Seminario Estivo di Symbola. Un lavoro che coglie e rappresenta i driver della nostra competitività, che si collocano su lunghezze d’onda che gli indicatori economici più diffusi non percepiscono. Che propone uno sguardo nuovo per leggere il Paese, che non si lascia irretire dall’opinione di chi guarda la nostra economia dal satellite, ma scende nei territori, nelle comunità in cui sono radicate le imprese e le tante energie di cui si nutrono.
“Quando l’Italia fa l’Italia e scommette sui suoi talenti e sulle comunità, quando usa le nuove tecnologie per rilanciare il saper fare diffuso e le tradizioni produttive d’eccellenza, se investe sulla qualità e la bellezza, sulla cultura, la ricerca e la coesione sociale – commenta il presidente della Fondazione Symbola, Ermete Realacci -, allora ce la fa. Tanto più che, oltre alla nostra vocazione naturale alla bellezza e alla qualità, possiamo contare su relazioni che spontaneamente si instaurano nei territori tra la comunità, le imprese, i centri di sapere e di cultura, che incrociano il contributo della creatività sociale dei cittadini e il ricchissimo humus del non profit contribuendo a creare un ecosistema solido, vitale, dinamico, adattivo, la cui energia riverbera su tutti gli attori. Imprese comprese. E certamente c’è anche tutto questo dietro al fatto che siamo i protagonisti mondiali, con gli Stati Uniti, del reshoring. Tra il 2007 e il 2012, infatti, le ri-localizzazioni in Italia hanno rappresentato il 60% di quelle europee”.
“La buona riuscita di un’iniziativa economica – ha detto il Segretario Generale di Unioncamere, Claudio Gagliardi – non si gioca più soltanto sul prezzo di un prodotto o servizio ma soprattutto su aspetti qualitativi di ciò che viene offerto. La coesione tra impresa, lavoratori, territorio, istituzioni, mondo del non profit sta sempre più diventando un elemento vincente della competizione economica nei Paesi evoluti. A differenza di altri Paesi, la forza dell’Italia non è nella standardizzazione dei grandi numeri, ma nella qualità di un’offerta altamente specializzata di filiere e distretti che ci fanno grandi nel mondo. Alla base c’è un tessuto di piccole imprese su cui il Paese deve continuare a puntare. La piccola dimensione di per sé non è un ostacolo, perché si traduce in una maggiore capacità di adattamento al mercato. Lo diventa se l’impresa opera isolata dal contesto, se non ha strutture di riferimento, come le Camere di commercio, che l’aiutino a crescere per esempio con la formula dei contratti di rete e sostenendo il rafforzamento delle filiere produttive a maggior radicamento territoriale”.
“L’elemento più interessante di questo rapporto sta nel fatto che – commenta Aldo Bonomi, Direttore del Consorzio AAster – esso ripropone la centralità della coesione, ma in forme rinnovate rispetto al passato. Partendo dalla constatazione che l’Italia del ‘900 ha costruito il suo modello di sviluppo tenendo insieme agricoltura, industria, società e coesione sociale. Se la strada per il rilancio del Paese in un mondo sempre più globalizzato passa per un’Italia che punta sulla cultura, sull’innovazione, sulla qualità, sulla forza dei territori, lo ‘studio’ Coesione è Competizione ribadisce che per fare questo non bastano le eccellenze ma bisogna riportare tutto alle comunità, alle società, alla coesione sociale. La società entra dunque a pieno titolo nel dibattito sulle forme di rappresentanza. Forme che non appartengono solo alla politica o al sindacato, ma che attengono anche alla capacità di ricostruire società di mezzo in grado di mettersi in mezzo tra politica ed economia nella contemporaneità. Con il Festival della Soft Economy nei giorni passati abbiamo raccontato i nuovi soggetti della metamorfosi del fare impresa e ragionato con i makers, con i territori, con le realtà che investono su cultura e creatività, con le imprese che hanno scommesso sulla green economy. L’Italia dei territori può farcela se saprà fare innovazione economica e territoriale ma anche società che viene, che è l’unico modo per tenere assieme l’ossimoro coesione-competizione”.
La coesione conviene
Le imprese ‘coesive’ hanno una chance in più. Numeri alla mano, come anticipato in apertura, le realtà produttive coesive si dimostrano più competitive delle non coesive. Oltre a quello con il territorio e le istituzioni, è un asset strategico anche il rapporto con Terzo Settore. Un mondo fatto al 2011 da 300mila istituzioni non profit e 4,7 milioni di attivi in un novero amplissimo di campi: dai beni culturali all’ambiente, dall’assistenza allo sport alla ricerca allo sviluppo economico e sociale. Una vitalità straordinaria che non si esaurisce all’interno degli steccati delle Onlus e delle cooperative ma tracima e contamina tutta l’economia. E proprio dove la società è più vitale si costruiscono reti di protezione grazie alle quali la crisi morde meno. Se mettiamo in relazione le performance economiche con la coesione e il benessere del territorio, scopriamo una forte interdipendenza tra i tre ambiti. Osserviamo che anche dove la crisi è forte, se c’è un tessuto sociale coeso e vitale, un non profit presente e attivo, ha effetti più blandi o, comunque, distribuiti in maniera più equa all’interno della comunità socio-economica. Così in Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sicilia, pur in presenza di un’evoluzione produttiva nettamente al di sotto della media nazionale, grazie alla coesione sociale, l’equità e il benessere non hanno registrato tracolli. Dove, invece (Campania, Puglia e Calabria), la coesione si è allentata, l’equità e il benessere hanno subito forti scossoni.
Ri-localizzazioni made in Italy
C’è probabilmente anche questo dietro al fatto che siamo i protagonisti mondiali, con gli Stati Uniti, del reshoring, il ritorno in patria di aziende che avevano delocalizzato: tra 2007 e 2012, pur senza misure pubbliche di sostegno, le ri-localizzazioni in Italia hanno rappresentato il 60% di quelle europee. C’è una trama di connessioni e relazioni, un ‘andare con gli altri’, che è il tessuto connettivo del made in Italy più vitale. Che è iscritto nel dna del nostro modello produttivo e delle nostre dinamiche sociali. Attiene alla natura decentrata e puntiforme del sistema delle imprese, con la miriade di piccole e medie aziende legate al territorio, in cui l’imprenditore è anche cittadino e membro della comunità, ed è legato da rapporti diretti con i lavoratori e i fornitori che, in virtù di questo, danno all’azienda un contributo che va oltre il loro ruolo.
Il nuovo made in Italy
La natura territoriale, collaborativa del nostro sistema produttivo – dalla tradizione delle coop ai distretti e reti d’impresa – e l’attitudine dei cittadini all’iniziativa e alla partecipazione contengono in sé i germi di nuove forme di produzione del valore.
I cittadini sono mossi da una nuova voglia di protagonismo, che grazie all’innovazione tecnologica raggiunge frontiere inesplorate. Così nasce il crowdfunding, grazie al quale i cittadini si fanno produttori e sponsor di iniziative come il Festival internazionale del giornalismo di Perugia. E con l’azionariato sociale i cittadini si riappropriano dei beni comuni: è il caso di Belvedere, che gestisce in modo esemplare la discarica di Peccioli (Pisa) producendo utili che vanno ai piccoli azionisti e alla comunità. Col coworking trovano la risposta al lavoro che cambia, e creano luoghi di contaminazione e creazione. E ci sono anche i lavoratori che non si rassegnano alla chiusura della loro fabbrica e si reinventano imprenditori: è avvenuto alla Calcestruzzi Ericina Libera di Trapani, alle Fonderie Zen, alla Ri-Maflow o alla Greslab.
Dalle imprese consapevoli che le performance del profitto sono sempre più dipendenti da valori e fattori non direttamente economici, come il rispetto dell’ambiente, quello dei diritti dei lavoratori, la valorizzazione delle proprie risorse umane, il sostegno alle comunità, la collaborazione, la promozione culturale, nasce un nuovo capitalismo che fa proprie molte idee, pratiche e valori nati dal non profit. E così, ad esempio, San Pellegrino promuove la parità di genere tra i manager; la Cereria Evelino Terenzi coinvolge i disabili e le cooperative sociali del territorio nelle sue attività; i Marchesi de’ Frescobaldi fanno dei detenuti dell’isola carcere di Gorgona dei viticoltori; Brunello Cucinelli, per dare ai lavoratori condizioni di vita e di lavoro adeguate alla qualità dei prodotti che realizzano, restaura un borgo, che ospita la produzione, e aumenta del 20% la paga prevista dal contratto di categoria.
In piena crisi del capitalismo come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, si delinea insomma un modello nuovo: un’economia meno rampante, meno avida, più attenta ai destini delle persone e del pianeta. Questo modello va promosso. Deve farlo Expo 2015, puntando sulle idee più che sul cemento. Deve farlo il governo italiano approfittando del semestre di presidenza del consiglio Europeo.
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