Il padre è giornalista, condirettore della scuola di giornalismo dell’Università “Suor Orsola di Benincasa” di Napoli ed è anche sindaco di Pitigliano, il delizioso paesino del grossetano che è salito agli onori della cronaca da quando, nel 2010, ha messo a disposizione parte del suo ospedale per le Medicine non Convenzionali.
Si chiama Pierluigi, il padre, atletico sessantaquatrenne che adesso sembra invecchiato di colpo, attraversato dal peggiore dei dolori: sopravvivere al figlio, che si chiamava Simone ed aveva il girnalismo nel sangue, assunto come videoreporter dalla Associate Press e che a soli 35 anni si era già atto il Libano, poi il Kosovo e la Georgia.
E non si era fermato neanche con la nascita di Nur, una splendida bambina di tre anni che si era abituata a vederlo solo di tanto in tanto e che alla madre, una splendida ragazza olandese, chiedeva di mostrargli sulla carte dove in quel momento fosse il suo papà.
I Camilli sono una famiglia di giornalisti: il fratello, Stefano, lavora all’agenzia Asca e tutti hanno come matrice la voglia di raccontare notizie, in modo diretto e senza mediaziani.
Simone a Gaza ci era già stato e a quel luogo di disperazione atroce aveva dedicato un documentario: “About Gaza”, nel quale raccontava la storia della Striscia, narrando, attraverso immagini senza fronzoli e senza retorica, la difficile vita quotidiana dei palestinesi, i loro usi e i loro costumi.
E’ morto il 12 agosto, investito in pieno da una esplosione avvenuta mentre alcuni artificeri tentavano di disinnescare una granata di un carro armato a Beit Lahya.
Najy Abu Murad, fratello di uno degli artificieri rimasti uccisi con Simone, è convinto che l’ordigno fosse stato manipolato in modo da provacare il più alto numero di vittime.
Ho ripensato a The Hurt Locke, film del 2008 diretto da Kathryn Bigelow, trionfatore a sorpresa agli Oscar a quella espressione che nello slang militare designa “un luogo pericoloso” ed al fatto che col suo lavoro Simone permetteva a noi tutti di guardare ciò che non dovremmo mai permettere, descrivendo con coraggio e passione il buio della guerra che pure attira gli uomini come il fuoco attira le falene.
E’ lunghissimo l’elenco dei cronisti di guerra morti in questo ultimi 15 anni nei vari campi di battaglia, in tutto il mondo e Simone non sarà certo l’ultimo.
Il 15 luglio scroso la freelance Barbara Schiavulli ha scritto che il giornalismo è una professione, come fare il medico, come fare l’avvocato o l’idraulico, ma con qualche rischio in più.
Dal 1987 al 2001 ben nove giornalisti italiani sono morti svolgendo il loro lavoro in zone di guerra o guerriglia.
Ci ricorda Mimmo Candido su la Stampa, che fu in Crimea che nacque il giornalista di guerra, nel 1854, mentre Ighilterra e Francia (e Impero Ottomano) stavano combattendo contro l’impero zarista, trascinandosi senza grandi risultati militari, pur se con un forte dispendio di vite umane e di risorse economiche. Fu per questo che il premier inglese convocò a Westminster il direttore del “Times” e gli rivolse un invito: “Le parlo a nome della Corona, preoccupata per i costi crescenti di questo conflitto e però, anche, per la poca attenzione che la nostra società sta dando allo sforzo del paese.La Corona le chiede di inviare in Crimea uno dei suoi migliori giornalisti, perché il suo racconto dell’eroismo dei nostri soldati – che stanno combattendo in un terreno difficile e assai rischioso – possa trovare eco nel pubblico inglese e suscitare quella partecipazione e quell’entusiasmo che finora sono mancati”.
Il risultato, si sa, fu l’illogica ed eroica carica dei 600, emblama poetico e cinematografico del fatto che ogni guerra è fatta di avvenimenti dove retorica ed epica stravolgono le dimensioni della realtà, ma che, grazie ai cronisti che ne descrivono impietosamente i costi umani, le deficienze militari, la disperazione dei sopravvissuti, l’angoscia di scelte di cui spesso non si riconosce alcuna razionalità, è di fatto la follia più assurda per possa prendere l’uomo.
Carlo Di Stanislao
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